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Full text of "Parnaso italiano : poeti italiani dell'eta media ossia scelta et saggi di poesie dai tempi del Boccaccio al cadere del secolo XVIII .."

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BIBLIOTECA  SCELTA 


POETI  DELL’ETÀ  MEDIA 


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DALLA  STAMPERIA  DI  CRAPELET 

Rt't  DE  VA'.GIRARD,  9 


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POETI  ITALIANI 


DELL’  ETÀ  MEDIA 

ossia 

SCELTA  E SAGGI  DI  POESIE 

DAI  TEMPI  DEL  BOCCACCIO  AL  CADERE  DEL  SECOLO  XVIII 


PER  CL'RA 

1)1  TERENZIO  M AMI  A M 

AGGIUSTAVI 

INA  SI' A PREFAZIONE 


PARIGI 


BAVSR7,  UBR33RIA  EUROPEA 

3,  QIIAI  MALAQUAIS  , All  PREMIER  ÉTAUE 

PII  I.S  LE  POST  DEA  A RTD 


A 


1848 


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PREFAZIONE. 


$ I 

La  presente  Raccolta  fa  parte  d’ un’ altra  molto  maggiore  con  la 
quale  tener  dee  proporzione  ed  accordo.  Perciò  non  si  maravigli  il 
lettore  se  qui  dal  poema  del  Mondo  creato  in  fuori , egli  desidera 
i versi  dell’ Ariosto  e del  Tasso,  c non  legge  alcuna  rima  di  ottime 
poetesse,  nè  saggio  veruno  di  componimenti  drammatici.  Tutto  ciò 
viengli  offerto  distintamente  in  altri  volumi  di  questa  Biblioteca 
scelta.  E nondimeno  la  dovizia  del  nostro  Parnaso  è tale  che  pur 
sottratti  que’  larghi  tesori,  ne  rimangono  altri  d’insigne  bellezza  e di 
gran  valsente.  In  questi  splende  sopratulto  una  sfoggiala  varietà, 
invidiabile  a molle  letterature  straniere,  e la  quale  a noi  è piaciuto 
di  far  più  visibile  ordinando  il  libro  per  generi  e specie  di  poesia. 
Ben  sappiamo  che  ancora  in  tal  forma  di  distribuzione  e di  ordina- 
mento accadono  molte  inconvenienze , perchè  sovente  le  specie  sono 
distinte  e sceverate  dall’abito  estrinseco  e accidentale  anziché  dal- 
P intrinseco  e sostanziale.  E per  modo  d' esempio  ei  si  vedrà  in 
questo  libro  che  i componimenti  morali , in  luogo  di  mostrarsi  tutti 
adunati  nella  classe  lor  peculiare,  vengono  ripartiti  in  più  d'unn, 
dappoiché  la  diversità  grande  e palpabile  della  forma  ci  ha  mossi  a 
porne  parecchj  fra  le  poesie  pindariche  ed  oraziane  ed  altri  fra  le 
morali  propriamente  denominate.  Però  di  tal  difetto  sentiamo  dovere 
più  presto  avvertire  i lettori  che  chiedere  scusa  e indulgenza;  con- 
ciossiaché  non  conosciamo  maniera  alcuna  d’ordinamento  in  cui 
non  s’ incontrino  alquanti  svantaggi  e disconci , ed  esse  tutte  sono 
trovate  meglio  per  comodo  della  memoria  e come  mezzi  di  para- 
gone, che  qual  genuino  ritratto  delle  vere  differenze  e disgregazioni 
delle  cose.  In  ciascuna  specie  poi  di  poetare  da  noi  registrata,  i 
componimenti  (come  detta  il  senso  naturale)  si  succedono  secondo 
i tempi  degli  autori,  il  che  fa  scorgere  con  massima  agevolezza 
qualmente  la  materia  medesima,  c non  di  rado  li  stessi  concetti , col 
variare  dei  tempi  variino  la  significazione  e l’ aspetto  e , più  che  al- 
tro, il  modo  particolare  con  cui  sono  espressi. 


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I! 


PREFAZIONE. 


§ »'• 

Ma  per  quello  che  s’ appartiene  a tutta  insieme  la  collezione  dei  ge- 
neri , e in  ciascuno  d’ essi  alla  scelta  dei  nomi  e per  ciascun  nome  alla 
scelta  dei  versi , noi  vogliamo  con  alquante  parole  renderne  ragione  al 
lettoree  definire  un  po’  per  minuto  le  considerazioni  e i rispetti  diversi 
con  cui  l’abbiamo  condotta.  In  prima  sarebbe  stato  nel  piacer  nostro, 
di  non  escludere  dalla  Raccolta  o niunao  pochissime  di  quelle  com- 
posizioni a cui  sia  toccato  di  riscuoterelode  assai  generale  e durevole. 
<'hè  per  verità  primo  giudice  naturale  do’  suoi  poeti  è il  popolo  in 
mezzo  di  cui  quelli  cantano , c rarissimo  accade  che  nelle  rime  ap- 
plaudite comunemente  e non  troppo  fugacemente,  una  qualche  note- 
vol  bellezza  non  sia  riposta  o d’ immagine  o d'affetto  o di  elocuzione. 
Ne’  difetti  medesimi  loro  ( quando  avviene  che  n’abbiano  e sieno 
frequenti  e più  che  leggieri)  appare  uno  sfoggio  di  fantasia  e d’in- 
gegno e un  siffatto  abuso  dell’ arte,  per  giungere  al  quale  fa  bisogno 
aver  sortito  facoltà  gagliarde  e non  ordinarie,  il  che  à veduto  l’Ita- 
lia singolarmente  nelle  poesie  del  Marino.  Ma  dovendo  la  Collezione 
nostra  capir  tutta  in  un  sol  volume , e cionondimeno  dar  saggio  del 
poetare  di  quattro  secoli , a noi  è convenuto  cogliere  unicamente 
qualche  porzione  del  più  bel  fiore  e scicgliere  e vagliare  eziandio 
nel  buono  e nell’ ottimo 

Non  ostante  cotale  necessità,  abbiani  procaccialo  di  porre  in 
vista  tutte  le  varietà  di  stile  un  poco  notabili  e persino  ogni 
combinazione  o nuova  o difficile  così  di  metro  come  di  rime, 
benché  in  ciò  volemmo  restare  assai  parchi,  potendosi  di  leg- 
gieri scambiare  la  novità  con  la  bizzaria  e la  stravaganza.  Oltre- 
ché torna  a gran  follia  l’andare  in  accatto  di  maggiori  malagevo- 
lezze ed  angustie  in  un'  arte  già  per  sé  medesima  la  più  malagevole 
di  quante  ne  esercita  l’ uomo.  Il  mondo , innanzi  ogni  cosa , chiede 
bella  poesia  c maravigliasi  volentieri  delle  difficoltà  occorse  per  via 
e con  felicità  superato,  ma  non  di  quelle  che  il  poeta  fabbrica  per 
ostentazione  e capriccio;  il  bello  é sempre  difficile,  ma  mollo  manca 
che  l’ inversa  proposizione  sempre  si  avveri.  Certo  è poi  che  quando 
i poeti  fanno  studio  e apparato  di  tal  sorta  di  bravura,  annunziano 
quasi  sempre  la  decadenza  deH’arte.  Ma  v’à  eziandio  certi  popoli 
d’ingegno  sottile  e abbondante  d’arguzie  a’  quali  simili  ricercatezze 
vengono  facilmente  in  piacere.  E sembra  che  ciò  incontri  per  ap- 
punto negli  Arabi , la  cui  poesia  sfoggiò  molto  presto  in  lavori  strani 


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PREFAZIONE.  \J  - 111 

di  ritmo,  in  immaginctle  e in  bisticci  non  guari  disformi  da  quei 
triti  ornamenti  di  meandri  e trafori  che  girano  per  le  pareti  e le 
volte  degli  alcazari.  Dagli  Arabi  si  travasò  il  mal  gusto  ne’  Catalani 
e ne’  Provenzali , e una  vena  non  troppo  scarsa  ne  fu  derivata  ne’ 
primi  nostri  verseggiatori.  Dante  egli  pure  non  se  ne  astenne  affatto, 
e noi  stupiamo  in  pensare  che  a quel  genio  sovrano  venisse  scritta 
la  canzone  lambiccatissima  della  Pietra.  Sa  ognuno  che  nel  seicento, 
con  lo  scadere  dell’arte,  ricomparvero  quelle  freddure  e mattie,  e 
ogni  cosa  fu  piena  di  acrostici,  d’  anagrammi,  d’allitterazioni  e 
altrettali  sccmpiezze.  Ma  per  buona  ventura  cotesta  sorta  vanissima 
di  pedanteria  non  sembra  ai  moderni  pericolosa,  e dico  ai  moderni 
italiani , perchè  appresso  gli  stranieri  non  ne  mancano  csempj , e 
molti  ànno  letto  in  un  vivente  poeta  francese  di  gran  nomea  certi 
capricci  di  metri  e di  rime  i quali  dimostrano  come  in  lui  siensi  ve- 
nuti rinnovando  tutti  gli  umori  e le  vertigini  dei  seiccnlisti.  E nem- 
manco  ci  pare  immune  dalle  stranezze  di  cui  parliamo  quel  conce- 
pimento del  Goethe  di  ordire  la  tragedia  del  Fausto  con  questa 
singoiar  legge  che  ogni  scena  fosse  dettata  in  metro  diverso  ed  una 
altresì  in  nuda  prosa,  onde  potesse  affermarsi  che  niuna  maniera 
del  verseggiare  ed  anzi  dello  scrivere  umano  (per  quanto  ne  è ca- 
pace il  tedesco  idioma)  mancasse  a quel  dramma  ; nuova  maniera  c 
poco  assai  naturale  e graziosa  di  porgere  idea  e figura  del  pan- 
teismo. 


§ IH. 

Ma  tornando  alla  nostra  Scelta,  qui  ne  cade  acconcio  il  notare  che 
quantunque  gl’ Italiani  mostrinsi  oggidì  molto  sazj  c fastidili  del 
sonetto , come  di  forma  vieta  e troppo  dai  mediocri  ingegni  abu- 
sata, nientedimeno,  esso  deve  occupare  non  picciola  parte  d’una 
Raccolta  la  qual  sia  fedele  rappresentati  ice  delle  più  vecchie  e radicato 
consuetudini  del  nostro  Parnaso.  Noi  peraltro  arbitriamo  di  avere 
trascelto  di  quella  specie  i più  belli  e più  celebrati  componimenti , e 
alcuni  pochi  eziandio  che  brillano  di  falsa  luce  , ma  pur  son  piaciuti 
troppo  universalmente  e per  troppo  tempo,  come  il  sonetto  famoso 
del  Maggi  : Sciogli,  Eurilta , dal  lido ; e sta  qui  ad  esempio  di  quel 
sentir  manierato  e di  quello  stile  lezioso  che  proseguì  a farsi  am- 
mirare dai  medesimi  restauratori  delle  Lettere  classiche,  e della  sem- 
plicità antica,  come  stimarono  di  essere  il  Crcscimbcni  ed  i suoi  col- 
leghi  c Mecenati.  In  fine  facemmo  luogo  a parecchj  sonetti  solo 

b 


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IV 


PREFAZIONE. 


perchè  dimostrano  una  foggia  nuova  e particolare  nel  genere  ; e di 
questi  sono  i Mattaccini  del  Caro,  i Polifemici  del  Casaregi  e gli 
altri  che  stimammo  bene  di  domandare  sonetti  Istorici, 

§ iv. 

A noi  sembrò  parimente  buon  senno  di  accogliere  in  questo  libro 
ogni  composizione  in  cui  fosse  un  cominciamento  ed  un  saggio, 
tuttoché  imperfetto,  d’ alcun  nuovo  abito  di  poesia,  stato  in  pro- 
cesso di  tempo  con  arte  più  fina  e con  maggior  felicità  coltivato. 
Così  ci  à parso  di  dover  registrare  due  odi  del  Tasso  seniore,  per- 
chè mostrano  aperto  il  primo  introdursi  nella  lirica  nostra  volgare 
d'una  imitazione  più  stretta  d’ Orazio  c de’ latini  elegiaci.  Con  la 
medesima  considerazione  debbe  accettarsi  lo  squarcio  non  breve 
che  diamo  della  Tcseìde  del  Boccaccio , e qualche  altro  dettato  forse 
manchevole  e rozzo , ma  primitivo  ed  esemplare.  Per  lo  contrario, 
qualunque  poeta  che  poco  o nulla  del  proprio  aggiunse  alle  altrui 
invenzioni,  ovvero  non  seppe  con  bel  prodigio  dcU’arlc  innovare  e 
ringiovanire  le  cose  antiche,  fu  da  noi  ragionevolmente  escluso  c 
taciutone  il  nome.  Questo  à fatto  che  nella  poesia  Pastorale  (per 
venire  a un  caso  specificato)  da  Bernardino  Baldi  si  passi  tosto  c 
senza  alcun  interponimento  ai  sonetti  del  Mcnzini  e dello  Zappi , nè 
incontrisi  altra  composizione  di  moderni  bucolici  ; stantechè  quei 
sonetti  sono  il  sol  fiore  campestre  (a  così  domandarlo)  che  spuntò 
leggiadro  e odoroso  nell’Arcadia  romana,  benché  vi  si  radunassero 
infiniti  verseggiatori,  nè  d’altro  per  ordinario  vi  si  discorresse  clic 
di  greggi  c capanne.  Leggansi  pure , fatta  innanzi  provvisione 
d’eroica  pazienza,  l’ egloghe,  gl’  idillj  e le  canzonette  alla  Nice  quivi 
recitale  per  lunghi  anni , e crediamo  che  niuno  si  richiamerà  della 
. nostra  sentenza  ; e per  via  d’ esempio , leggasi  il  Veronese  Pompei , 
principale  di  quella  schiera,  e dicasi  con  ischiettezza  se  bene  gli 
competevà  il  grido  e la  fama  che  mosse  di  sè  con  le  sue  fredde  cd 
affettale  canzoni. 

§ v. 

Convenientissimo  è poi , e quasi  non  occorre  avvertirlo , che  ab- 
biamo anteposto  sempre  le  composizioni  più  succose  e istruttive 
alle  meno;  quindi  l’eleganza  sola  mai  non  ci  à bastato  per  titolo  di 
ammissione  ; o per  lo  manco,  à dovuto  essa  sfolgorare  d’  una  grazia, 
e d’ una  venustà  esemplare  e perfetta.  Ciononostante  gli  è affatto 


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PREFAZIONE. 


V 


impossibile  che  buona  parte  della  poesia  italiana  dell’  età  media , e 
quella  segnatamente  dei  tempi  più  bassi , non  iscompaja  da  questo 
lato  a paragone  della  inglese  ed  anche  talvolta  della  francese.  Ma 
non  doveva  altrimenti  accadere  laddove  al  pensierc  umano  furono 
sì  di  buon'ora  appiccati  gravissimi  piombi  e fabbricate  mille  catene , 
e dove  agli  affetti  profondi  e gagliardi , appena  spuntavano,  si  vo- 
lean  recise  tutte  le  barbe.  Ma  coloro  che  dimentichi  di  queste  mi- 
sere condizioni  d’Italia  entrano  a spiegare  la  troppa  mollezza  e la 
ridondanza  del  nostro  Parnaso  riferendone  le  cagioni  al  clima  vo- 
luttuoso, alla  soverchia  facilità  del  comporre  e al  predominio  del 
material  mondo  sullo  spirituale,  c della  forma  sull'idea,  scordano  o 
disconoscono  a torto  non  solo  la  poesia  intera  dei  Latini  padri  no- 
stri , ma  la  sacra  epopeja  di  Dante,  della  quale  si  convicn  dire,  e con 
molto  maggior  fondamento,  quello  che  de’  poemi  d’Omero  afferma- 
vano i Greci,  starvi  cioè  incluso  tutto  il  senno  ed  il  sapere  della 
civiltà  antica.  Chò  anzi  per  quella  poca  di  cognizione  la  quale  pen- 
siamo di  avere  attinta  dai  libri  e dall’esperienza  intorno  alla  tempera 
degl’ingegni  e all’ indole  delle  nazioni,  diremo  assai  francamente 
che  in  niun  paese  quanto  in  Italia  puossi  veder  meglio  commista  ed 
uniffcala  la  idea  con  la  forma  c il  profondo  sentire  col  vivissimo  im- 
maginare, e in  niuno  veder  associato  con  più  saldi  legami  la  scienza  e 
l’ intuizione,  equclto  che  da'  filosofi  si  suol  domandare  mondo  subbie!- 
tivo  e mondo  obbiettivo  ; conciossiachò  principal  carattere  del  genio 
italiano  è la  lega  intima  e l’equilibrio  delle  opposte  facoltà  ; laddove 
ncINorte  la  potenza  astrattiva  c speculativa  predomina  e fassi  tiranna; 
ed  anche  agl’lnglesij  popolo  di  mente  elevata  e caldissima,  accade 
troppo  sovente  di  trasformare  in  psicologia  la  lirica  c la  drammatica; 
nè  pel  grande  studio  che  anno  posto  più  volte  nel  greco,  nel  latino, 
e pcranche  nell’italiano,  sonosi  condotti  a sentire  ed  a possedere  le 
bellezze  e gli  arlifìej  più  fini  ed  occulti  della  simmetria,  della  propor- 
zione, della  dignità,  del  decoro  c della  compiuta  e continua  conve- 
nevolezza, ed  a toccar  l’ eccellenza  suprema  dell’ eleganza  e dell’ atti- 
cismo ; o ciò  almeno  si  può  asserire  senza  ombra  di  dubbio , che  non 
mai  tali  doli  sonosi  lor  fatte  connaturali  c spontanee. 

Principalmente  abbiamo  curato  di  scegliere  qucllcrime  che  inten- 
dono alla  educazione  civile,  e ne  infiammano  ad  amare  la  patria  e con 
egregie  opere  glorlficartàTlUa  tali  rime  per  isventura  non  riescono  le 
più  numerose  e le  più  celebrate  ; e per  atto  d' esempio , noi  pigliamo 
dall’ Alamauni,  degno  poeta  e degnissimo  cittadino,  un  sonetto  poli- 


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VI  PREFAZIONE. 

tico  che  in  niuna  Raccolta  abbiamo  incontralo  e da  nessuno  l’abbiam 
sentito  mai  menzionare^  cionondimeno,  per  la  politezza  dello  stile 
e maggiormente  assai  per  la  magnanimità  del  concetto,  merita  di 
gire  innanzi  a moltissimi  altri  stati  prescelti  e applauditi,  non  ostante 
la  frivolezza  del  lor  subbietto,  meritevole  per  lo  manco  di  silenzio  c 
dimenticanza.  Quante  lodi  invece  non  si  udirono  faro  e quante  ri- 
stampe non  si  annoverano  delle  ottave  di  quel  medesimo  Fiorentino 
sulla  morte  di  ÌN' a re  isso  cambiato  in  fiore? 

§ VI. 

Questa  noncuranza  de’ lettori  per  la  Civile  poesia  scusa  in  gran 
parte  i poeti  e significa  la  ragione  pcrchò  cantassero  eglino  così  di 
rado  le  cose  italiane  e poco  piangessero  le  nostre  sventure,  poco 
s’infiammassero  de’ nostri  lunghi  e affannosi  desidcrj.  Non  può  nè 
deve  il  poeta  scompagnarsi  mai  troppo  dalle  opinioni  e dai  sentimenti 
comuni  dell’ età  sua;  chòdaquesti  principalmente  move  l’estro  suo, 
di  questi  accende  e innamora  le  moltitudini;  d’ogni  altro  pensiero 
ed  affetto,  ove  li  possieda  e li  senta  egli  solo,  avrà  pochi  intendi- 
tori , pochissimi  lodatori , c la  favella  delle  Muse  languc  c muor  sulle 
labbra  se  non  suona  ad  orecchie  benevole  e a cuori  profondamente 
commossi.  Altro  volte  avviene  che  i concetti  e le  passioni  civili 
• quantunque  non  tacciano  dentro  al  petto  di  molti , nientedimeno 
mal  si  adattano  alla  poesia,  perchè  non  consolati  da  alcuna  spe- 
ranza nè  infuocati  da  sdegno  generoso  c potente,  nè  promossi  e no- 
bilitati da  successi  gloriosi  e da  splendide  svenirne.  Tale,  a nostro 
giudicio,  fu  il  caso  de’ poeti  italiani  dagli  ultimi  anni  del  secolo 
dccimoquinlo  sino  al  Parini  e a Vittorio  Alfieri.  Questo  disperare 
. della  salute  pubblica  e veder  la  patria  non  pure  infelice  e serva  degli 
stranieri , ma  prostrata  c invilita  c fatta  quasi  sprcgievolc  agli  occhi 
proprj,  indusse  altresì  la  persuasione  che  non  s’ ascondesse  nella 
poesia  un’arte  educatrice  del  popolo  e un  organo  de’ più  efficaci  per 
iscaldarlo  a sentimenti  di  grandezza  morale  c politica,  ma  fosse  in 
quel  cambio  una  industria  gentile  e un  grazioso  intrattenimento  per 
consolarsi  dei  mali  comuni,  scuotendone  via  il  pensicre,  ricreandosi 
con  fantasie  inoltiformi  e leggiadro,  trasportando  lutto  l’animo  per 
entro  un  mondo  affatto  ideale  e porgendo  pascolo  alle  affezioni  private 
e luce  ed  appariscenza  a molli  accidenti  della  vita  ordinaria.  Tal  de- 
viare della  poesia  dall’ ufficio  suo  gravissimo  di  prima  c solenne  arte 
civile,  è abito  già  vecchio  assai  c comune,  oso  dire,  a tutte  le  nuovo 


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PREFAZIONE. 


VII 

letterature.  Imperocché*  non  si  vede  che  altrove  la  cosa  abbia  proce- 
duto meglio  che  a casa  nostra.  La  prepotente  fortuna  c grandezza  degli 
Spagnuoli  a’ tempi  di  Carlo  V e di  Filippo  II  appena  à suggerito  ai 
lirici  loro  qualche  ode,  e uno  o due  drammi  al  Lopez  e al  Caldcron, 
mentre  diluviavano  da  ogni  bandaio  egloghe  e le  rcdonditlas,  i sonetti 
« le  canzoni  alla  petrarchesca.  Nell'  Arai/ enti  a,  medesimo,  nota  un 
buon  critico  casigliano,  se  v’à  qualcosa  di  ben  descritto,  ciò  sono 
gl’  Indiani  e non  gli  Spagnuoli.  In  Inghilterra  il  Milton  fierissimo  re- 
pubblicano  c segretario  eloquente  del  gran  Cromvetlo,  à quasi  sempre 
poetato  di  cose  mistiche  e teologiche  e nulla  v’à  di  politico,  nulla 
«l’inglese  e di  patrio,  né  nel  Paradiso  perduto,  né  in  altri  suoi  canti. 
In  fine  chi  s’indurrebbe  a pensare,  qualora  il  fatto  certo  e patente 
non  l’insegnasse,  che  in  Francia,  innanzi  al  Voltaire,  mai  non  cor- 
resse alla  mente  d' alcun  insigne  drammatico  di  porre  in  iscena  un 
caso  e un  gesto  di  patria  istoria  ; nò  per  altro  i nipoti  di  Carlo  Magno 
e i soldati  di  Luigi  XIV  dovessero  impietosirsi  e spandere  lacrime 
se  non  per  le  nuore  di  Priamo  e le  sventure  della  casa  d’Atreo? 

§ VII. 

Ma  ciò  menerebbe  tropp’ oltre  il  discorso,  e però  tornando  a fare 
rassegna  delle  considerazioni  che  ojutarono  a compilare  il  presente 
libro,  per  ultimo  noteremo  che  ci  à parso  bene,  quante  volte  l’am- 
piezza soverchia  del  componimento  non  l’ impediva , darlo  ai  lettori 
nella  sua  interezza;  e però  eziandio  in  fatto  di  poemi  avranno  essi 
tutto  intero  il  Mondo  crealo  del  Tasso  c 1 ' Anyelcide  del  Valvasone; 
avranno  le  Stanze  del  Poliziano,  le  Api  del  Ruccllai,  il  Podere  del 
Tansillo,  la  Poetica  del  Menzini,  V Invito  del  Mascheroni;  e oltre  a 
queste  dannosi  loro  molto  composizioni  non  brevi , come  le  Ottave 
del  Martelli , il  Celeo  del  Baldi , il  Ditirambo  del  Redi  e simili  altre. 
Dove  poi  ci  è stato  forza  di  troncare  il  dettalo  e produrre  di  soli 
frammenti,  abbiam  procacciato  con  diligenza  che  fossero  tali  da 
chiudere  in  sé  medesimi  una  parte  compiuta  e perfetta  dell’ opera 
onde  sono  levati;  e talvolta  abbiamo  fatto  seguire  l'uno  all’altro 
parecchj  brani,  in  tutti  insieme  i quali  un  sol  pensiere  e un  solo  di- 
segno si  vien  ripigliando  dall'autore.  Così  del  poema  del  Fortiguerri 
furono  tolti  ed  uniti  que’  brani  dove  il  carattere  mollo  strambo  e 
molto  vero  di  Ferautle,  è si  maestrevolmente  ritratto  e spiegato.  La 
qual  cosa  abbiamo  voluta  non  pure  a vantaggio  e onor  de’ poeti, 
quanto  a soddisfazione  dei  leggitori.  A’ poeti  torna  molte  volto  assai 


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Vili 


PERFAZtO.NE. 


bene  che  delle  opere  loro  vengan  mostrate  unicamente  le  parli  me- 
glio condotte;  e Virgilio  medesimo  desiderò  di  essere  tramandato 
ai  posteri  come  il  torso  del  Belvedere,  il  qual  fa  stupire  ognuno  delle 
rimaste  bellezze  c fa  inlìnilamenlc  rimpiangere  ciò  che  ò perduto; 
laonde  (e  questo  sia  detto  per  incidenza)  riuscirà  sempre  a gloria 
grande  c invidiata  d’Italia  che  la  Gerusalemme  del  Tasso  compaja 
tanto  più  bella  c mirabile  quanto  più  in  lei  si  contempla  c considera 
intenlivamenlc  la  perfezione  del  tutto.  Ma  ne’  leggitori  è certo  biso- 
gno intellettuale  di  cogliere  l’unità  dei  concetti  c delle  composi- 
zioni , c lor  sembra  nell’  opere  d’arte  di  non  gustare  così  pienamente 
come  desiderano  il  bello  in  ciascuna  parte  diffuso,  qualora  non  sia 
paragonato  c giudicato  insieme  col  tutto. 

§ Vili. 

Ma  chiederà  forse  taluno  perchè  in  questa  nostra  scelta  sia  rice- 
vuto per  intero  il  Mondo  creato  del  Tasso,  dove  in  sul  principiare 
dicemmo  che  sì  le  rime  di  lui  e sì  quelle  dell’ Ariosto  ne  sarebbero 
escluse.  Similmente  si  chiederà  la  ragione  perchè  diasi  intera  \'An- 
geleide  del  Valvasone  conosciuta  da  pochi  e da  pochi  lodata,  e in 
egual  modo  parerà  strana  la  preferenza  nostra  per  qualche  altro 
nome  c scrittura.  Noi  primamente  diciamo,  in  risguardo  del  Tasso, 
che  d’un  poeta  tragrande  siccome  egli  è,  questa  Biblioteca  del  Bau- 
dry  dee  di  necessità  contenere  le  opere  più  solenni.  E di  fatto  la  Geru- 
salemme sia  nel  volume  de’ Quattro  Poeti  Maggiori;  c in  quella  ri- 
stampa che  d’esso  volume  s’adempirà  fra  non  mollo,  compariranno 
aggiunte  le  liriche  più  celebrate  del  sommo  epico.  Nel  volume  poi 
del  Teatro  scelto  italiano,  altra  ripartizione  di  essa  Biblioteca,  leg- 
gerannosi V Aminta  ed  il  Torrismondo.  A compiere  pertanto  la  col- 
lezione dei  capolavori  del  Tasso  accadeva  di  dar  luogo  in  questa 
Raccolta  al  Mondo  crealo,  poesia  nobilissima  c,  con  fermezza  il  di- 
ciamo, degna  di  più  alta  fama  che  forse  non  gode.  Sono  nel  Mondo 
creato  rivestiti  d’abito  spendessimo  i più  rumorosi  sistemi  della 
metafisica  antica  e della  teodicea  cristiana,  insieme  con  tutto  ciò 
che  di  vario  e dotto  c di  più  immaginoso  e poetico  suggerivano  le 
storie  naturali  d'Eliano,  d’ Aristotele,  di  Teofrasto,  di  Plinio,  di 
Dioscoride.  Che  se  gran  parte  e forse  anche  la  maggiore  di  quelle 
dottrine  è venuta  meno,  debbesi  ridurre  a mente  che  ciò  non  à posto 
in  dimenticanza  e ncmmanco  à scemato  gloria  a Lucrezio  ed  al  suo 
poema;  conciossiachè  ogni  discreto  lettore  procaccia  di  situar  l’in- 


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PREFAZIONE. 


IX 


tellelto  nelle  condizioni  dei  tempi  e nell’ordine  delle  cognizioni  in 
cui  scriveva  il  poeta.  Oltre  a di  che,  quella  magnificenza  continua  di 
pensieri  e di  stile  che  appare  nel  Mondo  crealo,  e quell’aura  biblica 
insieme  c platonica  che  spira  in  ciascuna  pagina  con  tanta  solennità 
e con  si  vera  caldezza  di  sentimento,  sono  pregi  che  sopravivono 
al  mutare  delle  opinioni;  e d'altra  parte  compensano  più  che  assai 
qualche  negligenza  di  elocuzione , e la  poca  varietà  e lo  scarso  arti- 
ficio nella  testura  dello  sciolto,  il  quale  pur  nondimeno  se  a petto  a 
quello  del  Caro  riesce  monotono  c languido,  lasciasi  infinitamente 
addietro  lo  sciolto  del  Trissino  c dell’ Alamanni.  Noi  non  faremo 
discorso  mollo  differente  per  YAngeleide  del  Valvasonc,  la  qual  re- 
putiamo senza  paura  d’inganno,  una  gemma  delle  più  rare  e lucenti 
del  nostro  antico  Parnaso.  E di  fermo,  a guardare  con  diligenza, 
dopo  l’ Ariosto  e il  Tasso,  in  qual  mai  poema  del  cinquecento  trovasi 
una  maggiore  altezza  e pellegrinila  di  pensieri  e (come  dicesi  mo- 
dernamente) una  più  spiccala  originalità?  Forse  che  lo  stile  non 
vince  di  franchezza  e di  robustezza  pressoché  tutti  i contemporanei? 
Certo,  il  Valvasoneè  meno  forbito  ed  armonioso  del  Tansillo,  meno 
fluido  del  Tasso  seniore,  meno  corretto,  proprio  e limato  de’ più 
corretti  c limati  rimatori  toscani;  ma  non  per  ciò  si  capisce  come 
questa  minor  perfezione  di  Torma,  abbia  potuto  oscurare  nella  opi- 
nione de’ raccoglitori  e de’ critici  il  gran  pregio  dell’invenzione. 
Che  il  Milton  siasi  giovato  de\V  Angeleide  non  so,  quantunque  fra  i 
dnc  poemi  si  vengan  trovando  molti  e singolari  riscontri  che  non  è 
facile  a credere  casuali  ; ma  questo  io  so  bene  che  a rispetto  della 
guerra  degli  angeli  episodicamente  introdotta  nel  Paradiso  perduto, 
ilValvasone  non  perde  nulla  ad  esser  letto  dopo  l’Inglese  e con 
quello  essere  paragonato  ; il  che  non  avviene  del  sicuro  nè  per 
l' Adamo  dell’ Andreini  nè  per  la  Strage  degl' Innocenti  del  cavaliere 
Marino,  due  componimenti  che  dicesi  aver  suggerito  a Milton  pa- 
rccchj  pensieri  e T ideal  grandezza  del  suo  Lucifero. 

§ IX. 

Quanto  è poi  a qualche  altra  più  breve  composizione  prescelta 
da  noi  ed  avuta  in  pregio  contro  forse  il  giudicio  de’  passati  racco- 
glitori , diremo  assai  volentieri  che  a noi  non  par  bella  quell’ardi- 
tezza troppo  frequente  ne’  moderni  scrittori  di  conlradirc  alla  sen- 
tenza comune;  imperocché  ciò  si  compie  assai  volte  per  desiderio 
di  parer  singolare  e onde  si  ammiri  il  senno  acutissimo  c coraggioso 


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X 


PREFAZIONE. 


del  critico.  Ma  d’altra  parte  quando  la  virtù  prepotente  dell’iniimo 
senso  nc  persuade  e nc  sforza,  c un  esame  attento,  ripetuto  ed  illu- 
minato ne  riconduce  c conferma  nel  fatto  giudicio,  a noi  non  sem- 
bra lodevole  l’ostinarsi  a deferire  o per  timidezza  o per  inopportuna 
modestia  alla  opinione  dei  più.  La  quale  poi  non  molto  di  rado 
manlicnsi  viva  per  solo  vigore  dell’abito  e per  quella  innata  pigrizia 
degl’ intelletti  di  recarsi  a indagare  il  vero  da  sé  medesimi.  Se  per- 
tanto in  questa  Raccolta  s’imbatteranno  i lettori  in  alcune  rime  che 
il  pubblico  non  à curate  o non  tenute  per  ottime,  ciò  è proceduto  non 
da  voglia  puerile  di  profferire  nuovi  e inaspettati  giudicj , ma  uni- 
camente dall’amore  di  verità  e da  quell’ufficio  gravissimo  che  sem- 
bra incombere  agli  studiosi  di  riparare  dal  canto  loro  agli  oltraggi 
e capricci  della  Fortuna , la  quale  si  mescliia  più  forse  che  non  si 
crede,  nella  distribuzione  della  celebrità  e nel  prospero  o sventurato 
successo  dei  libri. 


§ X. 

Con  questi  rispetti  e considerazioni  abbiam  noi  condotto  c ordi- 
nato il  presente  volume,  onde  sia  specchio  veritiero  benché  com- 
pendioso della  poesia  italiana  dell’età  media-,  nel  che  fare  ci  siamo 
giovati  pochissimo  del  giudicio  de’ nostri  migliori  critici  e precet- 
tisti; che  anzi  in  leggendoli  ordinatamente  e secondo  i tempi,  ci 
venne  osservato  (cosa  che  per  addietro  non  ben  sapevamo)  la  critica 
letteraria  incominciata  in  Italia  con  Dante  essere  morta  col  Tasso  e 
gli  amici  suoi;  c come  cadde  con  quel  mirabile  intelletto  la  nostra 
supremazia  nel  ministero  delle  Muse,  così  venne  meno  la  vera  filo- 
sofia estetica  ; e il  nuovo  dell’arte  non  fu  capito,  l’antico  fu  dalla 
pedanteria  svisato  c agghiadato.  L’arte  critica  antica  ebbe  ultimi 
promulgatoci  due  grandi  ingegni , il  Muratori  e il  Gravina.  Della  cri- 
tica nata  dipoi  con  le  nuove  speculazioni  e con  le  nuove  forme  di 
poesia,  non  conosciamo  in  Italia  alcun  degno  scrittore  e rappresen- 
talore.  Ai  tempi  del  Tasso,  l’autorità  per  certo  era  di  soverchio  pre- 
valente e le  poetiche  tiranneggiavano;  ma  chi  ben  considera  la 
sostanza  degli  scritti  polemici  del  cinquecento  e nota  quelli  segna- 
tamente dettali  a proposito  della  Gerusalemme,  dee  confessare  che 
appresso  de’ letterati  mai  la  notizia  de’ classici  non  fu  così  vasta  e 
così  famigliare,  nò  le  dottrine  grammaticali  più  affinate  c compiute, 
nò  la  filologia  greca  e latina  più  profonda  c diffusa;  c mai  nella  in- 
telligenza e nell’  interpretamenlo  degli  antichi  gran  precettori  non 


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PREFAZIONE. 


XI 


fu  spiegato  altrettanto  acume,  larghezza,  erudizione,  luce  di  filo- 
sofia, senso  squisito  d’ogni  eleganza. 

Nè  sembra  inutile  affatto  per  risuscitare  la  buona  critica , il  porre 
d' innanzi  agli  occhj  un  volume  in  cui  voltando  non  molte  facce  si 
possa  scorgere  e comparare  il  vario  andamento  che  ebbe  in  Italia  la 
volgar  poesia  dal  Boccaccio  infino  al  Varano  ed  al  Cozzi.  E perchè 
intorno  ai  pregi  di  lei,  come  intorno  ai  difetti,  sono  i pareri  diffe- 
rentissimi nel  nostro  secolo , mancando  per  intero  la  comunanza  dei 
documenti  e del  gusto,  essendo  le  tradizioni  interrotte  c dimenti- 
cate, e dominando  (massime  nella  mente  de’ giovani)  le  estetiche 
oltramontane,  io  non  so  indovinare  affatto  ciò  che  i lettori  di  questo 
libro  sieno  per  sentire  e per  giudicare  del  suo  contenuto.  Quindi  mi 
arbitro  di  qui  esporre  in  brevi  parole  il  criterio  dcGnito  ed  univer- 
sale ch’io  n’ò  cavato,  riconducendo  ogni  cosa  a pochi  principj  de- 
dotti (a  quel  che  mi  pare)  dalle  originali  fonti  della  storia  e della 
filosofia. 


§ XI. 

La  poesia  canta  o 1* ampie  e l’altre  passioni  umane,  e ciò  che  versa  I 
sulla  moralità  delle  nostre  opere,  ovvero  canta  le  armi  e le  gesle  , 
civili  o politiche  d’uno  o di  più  eroi , come  d’ una  o di  più  nazioni , 
ovvero  canta  la  religione  e le  cose  oltramondanc  c celesti.  A tali  . 
subbietti  di  pocmPè  di  lirichè*3evesi , per  creder  mio,  aggiunger  la 
scienza,  la  quale  in  mente  de’ poeti  acquista  vaghezza  di  colori  e di 
dffìjffi , e con  ciò  scende  dalle  cattedre  e divicn  nudrimcnto  e ricrea- 
mcnlo  del  popolo.  L’ ingegno  poetico , in  versificare  ciascuno  di  quei 
subbietti,  tende  a spiegare  una  novità,  un’altezza  e una  leggiadria 
suprema  di  concetto,  di  sentimento,  di  fantasia  e di  stile.  Dove  man- 
casse l’una  di  tali  eccellenze,  l’arte  sarebbe  diffettosa  e quindi  in- 
crescevole. Di  presente  noi  diciamo  che  la  riunione  c composizione 
migliore  e più  nuova  di  tutte  quelle  materie  trattabili  c la  sintesi 
altresì  più  perfetta  del  pensiero,  della  immaginazione,  dell’ affetto  c 
della  elocuzione,  è senza  contrasto  apparita  in  Dante  Alighieri.  Ne’  , 
poemi  d’Omero,  la  passione  profonda  d’amore,  ed  in  generale  quel 
sentir  delicato  e molteplice  che  il  progredito  incivilimento  pro- 
muove, è piuttosto  in  germe  ed  in  facoltà  che  altramente.  In  essi  del 
pari , è deficienza  della  vita  meditativa  e interiore,  c a lato  a molta  c 
finissima  scienza  pratica,  quella  positiva  c speculativa  dei  dotti  non 
vi  si  scorge.  La  fantasia  v’è  ammiranda,  c nell’  Iliade  segnatamente 


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XII 


PREFAZIONE. 

fa  sbalordire,  ma  s’avvolge  tra  cose  meno  difficili  a rivestire  di  splen- 
dide immagini , perche  tutte  di  lor  natura  son  figurale  c bello  di  pri- 
mitiva bellezza.  ,ln  fine  lo  stile  omerico  usa  per  istrumenlo  il  vaghis- 
simo di  tutti  gl'  idiomi  c s’adorna  della  semplicità  maestosa  de’  tempi 
eroici , ma  non  ancora  conosce  la  metà  dei  parlili  e degli  arUiìcj 
onde  si  ottiene  la  copia  la  varietà,  il  numero  c l’eleganza. 

Dopo  CfnICro  nessun  poeta , per  mio  giudicio,  può  alzarsi  a compe- 
tere con  l’ Alighieri,  salvo  Guglielmo  Shakspearo,  gloria  massima 
dell' Inghilterra.  E per  fermo,  ne’ drammi  di  lui  l’animo  e la  vita 
umana  vengon  ritratti  così  al  vero  c scandagliati  c disaminali  così 
nel  profondo,  che  mai  noi  saranno  di  più.  Ma  le  condizioni  peculiari 
della  drammatica,  c l’ indole  propria  degl'ingegni  settentrionali  im- 
pedirono a Shakspearo  di  raggiungere  quella  perfetta  unione  di 
subbictli  c di  facoltà  onde  facciamo  discorso.  E veramente  nelle 
composizioni  sue  la  religione  si  mostra  sol  di  lontano  e molto  di 
rado,  e tra  le  specie  diverse  e delicatissime  d'amore  ivi  entro  signi- 
ficate, manca  quella  eccelsa  c spiritualissima  di  cui  si  scaldò  l’amante 
di  Beatrice.  Il  sapere  positivo  e speculativo  similmente  vi  fa  difetto, 
e la  natura  esteriore  v’c  sì  poco  descritta  quanto  poco  si  lascian  di- 
stinguere i paesaggi  e le  architetture  nel  fondo  de’ quadri  storiati. 
In  fine,  la  elocuzione  che  sempre  è viva  e spontanea  c insuperabile 
sempre  di  proprietà  c d’energia,  diviene  alcune  volte  negletta  c pro- 
saica nè  va  esente  dai  falsi  tropi  c dalle  scurrilità. 

Nel  tutto  insieme  poi  de’ drammi  shakspiriani  desiderasi  quel  cor- 
retto c finito,  quella  proporzione  c armonia,  quella  sobrietà  c scel- 
tezza conlinua,  che  solo  al  Genio  d’ alcuni  popoli  meridionali  è dato 
sentire  ed  effettuare  con  piena  felicità. 

§ XII. 

Toccato  un  poco  dei  subbietti  della  poesia , e numerate  le  qualità 
c le  doti  che  principalmente  le  si  appartengono,  seguita  il  conside- 
rare la  persona  medesima  del  poeta,  le  condizioni  c lo  stato  della 
sua  mente  c le  attinenze  di  lui  con  la  ragione  dei  tempi , della  civiltà 
e del  popolo  in  mezzo  a cui  vive  ; le  quali  cose  noteremo  singolar- 
mente ne’  lor  gradi  supremi  c nelle  intime  opposizioni.  Conciossia- 
cbè  il  miracolo  della  poesia  consiste  principalmente  nell’ esercitare 
insieme  quelle  virtù  dell’ingegno  che  sembrano  in  discordanza  o in 
confiitlazione,  c nell' esercitarle  altresì  con  intensione  massima 
d’energia. 


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PREFAZIONE. 


XIII 

Diciamo  adunque  che  talvolta  il  poeta  è dall’ispirazione  allacciato 
e padroneggiato  sì  forte,  da  non  saper  bene  sottomettersi  all’arte  ed 
alla  meditazione.  Da  simile  sovrabbondanza  d’ istinto  e scarsità  di 
riflessione  e di  scienza,  derivano  i canti  primitivi  delle  nazioni  nei 
quali  è tanta  rozzezza,  negligenza  c imperizia,  quanta  inimitabile 
semplicità,  efficacia  e caldezza.  Altre  volte,  e molto  più  tardi  assai 
di  quelle  età  iniziatrici  ed  eroiche,  il  troppo  incivilirsi  dei  po- 
poli aumentando  di  soverchio  l’osservazione  e la  critica  c aflinan- 
dovisi  l’ arte  ogni  giorno  di  più , per  effetto  medesimo  dell’  eser- 
cizio c dell’ esperienza  e per  desiderio  di  novità,  mena  il  poeta  a 
scordar  forse  troppo  l’aurea  semplicità  degli  antichi , il  sincero 
aspetto  della  natura  e i veri  e spontanei  moli  dell’animo.  Queste 
differenze  chi  ben  le  guarda  e chi  le  assume  in  gradi  e aspetti  di- 
versi , fanno  superiore  e inferiore  ad  un  tempo  Virgilio  ad  Omero , e 
sovrappongono  poi  ambidue  agli  epici  lutti  della  media  grecità  e 
latinità.  11  prodigio  dell'umano  ingegno  consiste,  senza  dubbio,  a 
tener  il  mezzo  di  tali  due  termini,  o a dir  più  chiaro,  consiste  a 
mantener  viva  la  fiamma  pura  e spontanea  delle  antiche  ispirazioni , 
e aggiungere  a ciò  tutto  il  meglio  che  inducono  dentro  il  cuore  e 
dentro  i pensieri , la  riflessione  e speculazione  , la  critica  c l’arte,  il 
sapere , l’uso  e l’esperienza  ollremodo  cresciuti , l'istruzione  c i me- 
todi propagati  cd  assottigliati.  Ora,  Dante,  al  mio  giudicare,  acco- 
sta e concilia  per  appunto  in  maniera  portentosa  cotali  estremi  ; ed 
egli  è il  sommo  poeta  (come  direbbero  i metafisici)  intuitivo  e rifles- 
sivo. Ancora,  su  questo  doppio  carattere  dell’  intuizione  e della  ri- 
flessione , egli  è da  notare  che  l’una  esprime  più  volonlieri  la  natura 
universale  e comune,  c l’altra  invece  la  propria  e individuale. 
Quando  un  popolo  intero  si  fa  poeta,  e ciò  è a dire,  quando  in  lui 
signoreggiano  profonde  e comuni  credenze  cd  affetti,  in  guisa  ch’ei 
si  raccoglie  con  lo  spirito  e vivesi  tutto  o nelle  rammemoranze  glo- 
riose della  sua  storia  o nelle  speranze  e promesse  magnifiche  del- 
l’avvenire, colui  il  quale  si  consacra  peculiarmente  alle  Muse  non  è 
più  quivi  clic  un  interprete  e un  banditore  delle  ispirazioni  comuni , 
e sostiene  officio  simile  a quel  degli  araldi  che  in  nome  e con  le  pa- 
role di  lutti  favellano  ; se  non  che  il  poeta  trova  più  felice , più  calda 
e meglio  ornala  significazione  di  ciò  che  il  popolo  intero  pensa , 
ricorda  e desidera.  Quando  per  lo  contrario  non  v’è  più  vera  citta- 
dinanza, e le  opinioni  e gli  affetti  comuni  son  dileguati  in  gran 
parte,  e ad  essi  succedono  a grado  a grado  sentimenti  e cogitazioni 


I 


I 


XIV 


PREFAZIONE. 


0 affatto  particolari  c proprie  o d’ una  porzione  soltanto  di  popolo , 
e che  nientedimeno  la  coltura  dell'  intelletto  c dell'arte  non  cade  ma 
ai  propaga  e si  riforbisce  ; allora  sorge  una  poesia  o troppo  indivi- 
duale e affatto  fantastica,  o troppo  boriosa  e accademica,  ignota  e 
inaccessibile  al  volgo,  più  elegante  che  passionata,  più  dotta  ed 
arguta,  ebe  vasta,  efficace  ed  originale.  Dopo  ciò,  egli  divien  mani- 
festo che  quella  mente  fortunata,  la  qual  sa  ritrarre  ed  anzi  scolpire 

1 pensieri  varj,  gl’  istinti  c le  passioni  speciali  del  secol  suo,  e ri- 
flette come  specchio  lucente  l’indole  e le  istituzioni  tutte  quante 
della  vita  sociale  e politica  di  cui  partecipa,  quella  mente,  io  dico, 
alla  quale  avviene  per  tutto  questo  di  dilettare  e commovere  cosi 
bene  il  volgo  come  i patrizj , i dotti  come  gl’  illetterati , e che  cio- 
nondimeno imprime  in  ciascuna  pagina  il  suggello  dell'animo  pro- 
prio e i concetti , le  opinioni  e lo  dottrine  sue  personali , a segno  che 
il  poetare  di  lei  risplcnda  d’una  novità  nè  prima  nè  dopo  uguagliata, 
cotal  mente  sovrana  raggiunge  del  sicuro  l’ ultima  perfezione  della 
poetica,  e l’arte  sua  similissima  alla  natura,  offre  a un  tempo  me- 
desimo la  suprema  bellezza  individuale  ed  universale.  E qui  pure  io 
non  m’ imbatto  in  altro  divino  ingegno  in  cui  si  ravvisi  attuata  la 
grande  eccellenza  di  cui  parliamo , eccetto  Dante  Alighieri.  Da  ul- 
timo accade  soventi  volte  che  all’animo  del  poeta  non  sia  tutta  pre- 
sente la  solennità  e importanza  del  suo  magistero  e dei  fini  morali  e 
civili  a cui  dee  voltarlo.  Ma  colui  per  lo  certo  accostasi  in  ciò  alla 
perfezione  dell’arte,  il  qual  sente  di  lei  cosi  intera  la  dignità,  l’al- 
tezza, la  proficuità  c la  morale  bellezza  che  la  fa  istrumento  efficace 
di  educazione  pubblica  e veicolo  di  sapienza;  c tanto  vuol  con  esso 

> istruire  quanto  dilettare,  c chiama  sè  stesso  sacerdote  del  vero  e 
della  rettitudine,  e canta  quasi  profeta  per  mezzo  al  popolo  c tra- 
manda alle  più  lontane  generazioni  la  fiamma  de’  suoi  magnanimi 
affetti  e la  luce  de'  suoi  apotegmi.  E qui  di  nuovo  a chi  mai  può 
tornar  difficile  il  confessare  che  Dante  abbia  a rispetto  di  ciò  supe- 
rato tutti  i poeti  del  mondo  ? 


S XIII. 

A raccogliere  la  sostanza  del  fin  qui  detto,  noi  primamente  con- 
cluderemo che  il  compiuto  e l’ottimo  della  poesia  consisto  in  rac- 
chiudere dentro  ai  poemi  con  vaga  e proporzionata  unità  di  compo- 
sizione tutto  quanto  il  visibile  ed  il  pensabile  umano  perciò  che  in 
ambedue  è più  bello  e più  commovente  ; e consiste  inoltre  a ritrarre 


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PREFAZIONE.  XV 

cotesto  subbietto  amplissimo  c universale  con  la  maggiore  novità  e 
la  maggior  leggiadria  di  concepimento,  di  fantasia,  d'affetto  e d’elo- 
cuzione che  possa  mai  conseguirsi.  Il  concepimento  così  nel  com- 
plesso come  nelle  sentenze  particolari,  dee  riuscir  sostanzioso  ed 
inaspettato  e pieno  di  recondita  dottrina  e saggezza;  1’affelto  dee 
correre,  quanto  è possibile,  per  tutti  i gradi  e le  differenze,  e toc- 
care il  sommo  della  tenerezza  e compassione  e il  sommo  della  terri- 
bilità. Dee  l'immaginazione  abbracciare  lo  spirituale  e il  corporeo, 
il  mondano  e il  sopramoudano , talché  in  compagnia  (IcTTaffello  e 
con  la  scienza  della  vita  e della  natura,  descriva  e rappresenti  le 
| meraviglie  esteriori,  i secreti  dell’ animo  e le  visioni  della  Fede.  In 
fine  tulli  tre  insieme,  il  concepimento,  l’immaginazione  e l’ affetto 
debbono  far  consuonare  la  massima  idealità  con  la  massima  concre- 
tezza, onde  ogni  cosa  peculiare  riveli  per  virtù  di  poesia  uno  splen- 
dido universale  e sia  al  tempo  medesimo  un  ritratto  c un  archetipo. 

Noi  fermammo  dopo  di  ciò  che  ad  attingere  tal  perfezione  era 
spedicnle  sortire  un  abito  d’ intelligenza  sì  privilegiato  c divino  da 
poter  collegare  con  una  intuizione  arcana  e vivissima  la  meditazione 
e la  scienza,  c con  la  impetuosità  e caldezza  dell’estro,  il  freddo  e 
squisito  finimento  dell’arte.  Di  costa  poi  alla  descrizione  ed  enume- 
razione di  queste  doti  e attributi , a noi  fu  lecito  di  pronunziare  che 
tulle  appaiono  impresse  c tutte  operanti  nella  Divina  Commedia 
meglio  che  in  qualunque  altro  poema,  e la  quale  è però  da  conside- 
rarsi come  il  più  alto  prototipo  dell’eccellenza  poetica,  qualora  vo- 
glia la  meute  dall’astrazione  scendere  al  fatto  e considerar  nel  con- 
creto quel  massimo  accostamento  all’  idea  che  sino  a qui  son  riuscite 
di  adempiere  le  Lettere  umane.  Noi  fermammo  eziandio  che  debbo  il 
sommo  poeta  parlare  ai  cuore  cali’  intelletto  d’ ogni  ragion  di  lettori, 
e farsi  specchio  tersissimo  del  comune  sentire,  c serbare  ciò  nondi- 
meno ben  rilevata  e ben  contornata  la  effìgie  del  proprio  animo  e 
della  propria  natura.  In  fine  ricercasi  dall’ ottimo  poeta  che  piena- 
mente concepisca  la  grandezza  e magnificenza  degli  ufficj  e de’  fini 
suoi,  e che  a questi  venga  di  continuo  concordala  e proporzionala 
la  scelta  materia. 

§ XIV. 

Con  la  scorta  di  tali  considerazioni  e la  vista  di  tal  modello  a noi 
basterà,  perchè  si  colga  la  ragion  poetica  vera  dell’età  media  ita- 
liana, il  venire  accennando  per  ordine,  prima  le  tendenze  morali  e 

c 


MI 


PREFAZIONE. 


civili,  c le  condizioni  qualitative  de’  tempi  ; appresso , l’ elezione  dei 
subbietti  e il  carattere  mentale  degli  scrittori.  Ogni  rimanente  sari» 
supplito  dalla  perspicacia  ed  erudizione  dei  leggitori,  i quali  reche- 
ranno pure  agevolmente  ai  principj  medesimi  le  osservazioni  e i 
giudicj  espressi  da  noi  nell'antcrior  parte  di  questo  discorso. 

§ XV. 

Nello  spegnersi  del  secolo  xr,  quando  le  Lettere  e la  poesia  volgare 
incominciarono  a risorgere  e rifiorire,  un  elemento  vi  si  accoppiò 
non  nuovo  ma  notabilmente  cresciuto,  e ciò  fu  lo  studio  e l’amore 
grande  della  classica  erudizione,  e un  ossequio  e un’ammirazione 
forse  soverchia  per  gli  scrittori  greci  c latini.  Ma  si  badi , ebe  guar- 
dandosi al  tutto  insieme  della  volgar  poesia , dal  primo  comparir 
suo  nella  corte  di  Federico,  a questi  nostri  presenti  giorni,  ci  si 
vedrà  manifesto  che  il  culto  degl’  Italiani  inverso  le  Lettere  greche  c 
latine  fu , di  rado  assai , intermesso , c sempre  fra  noi  è stato  a gran 
pezza  più  fervoroso,  più  tenace  e più  famigliare  che  appresso  qua- 
lunque altro  popolo;  non  rinasce  adunque  c non  prospera  esso  in 
Italia  per  malta  superstizione  o per  cagioni  transitorie  ed  acciden- 
tali, ma  conserva  e profonda  le  ultime  sue  radici  nel  sentir  proprio 
c costitutivo  della  mente  c dell’animo  nostro.  Tal  cullo  à fatto  in- 
fra l’altre  cose  che,  a rispetto  dell’ eleganza  c dell* nMfIÌÌtir]]f>i  mai  non 
siamo  stati  dalle  nazioni  moderne,  non  che  superati,  manemmanco 
raggiunti;  e pure  in  questi  ultimi  tempi  in  cui  la  poesia  inglese  c 
tedesca  sembra  soverchiare  la  nostra,  per  novità  e veemenza  di 
pensamenti  e di  alletti , nella  sola  Italia  è tuttora  ricoverato  il  per- 
fetto buon  gusto  c il  senso  delicatissimo  della  greca  venustà;  c quivi 
ancora  qualche  dettator  fortunato  procaccia  d’intingere  la  sua  penna 
nell’oro  di  Virgilio.  Nò  già  per  questo  vogliam  negare  che  più  d’una 
volta  lo  studio  c la  imitazione  dei  capolavori  antichi , non  abbiano 
ne’  nostri  scemato  novità  e spontaneità,  involte  le  lor  fantasie  nelle 
viete  immagini  mitologiche  ; dato  allo  stile  freddezza  ed  affettazione. 
Solo  desideriamo  che  si  rifletta  gli  studj  classici  (come  suolsioggi 
domandarli)  essere  stali  a ciò  più  presto  occasione  e concomitauza 
di  quello,  clic  cagione  prossima  ed  efficiente.  Mai  la  notizia  e medi- 
tazione dell’eccellenza  antica  nona  nociuto  agl’ingegni  veramente 
grandi  in  secolo  pur  grande  c animoso.  Dante  non  mandava  egli 
alla  memoria  lutto  Virgilio , c noi  chiamava  dottore  e maestro  suo? 
Chi  più  versato  nella  latinità  del  Petrarca,  che  di  quella  fu  primo  c 


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D 


PREFAZIONE.  XVII 

solenne  ristoratore?  Di  Lettere  greche  e latine  si  nudri  il  Buccaefiio 
fin  da  fanciullo,  e in  compagnia  d’esse  compiè  la  vita;  le  quali  cose 
non  impedirono  che  Dante,  in  ogni  suo  scritto,  e il  Petrarca  nel 
Canzoniere  e ne*  Trionfi,  e il  Boccaccio  nel  Novelliere,  nella  Fiam- 
metta, nel  Corbaccio  c in  qualcun’ altra  prosa  non  sien  riusciti  ori- 
ginalissimi. Quelli  pertanto  i quali  osan  dire  che  la  illustrazione  c 
scoperta  di  molti  volumi  antichi  succeduta  nel  secolo  xv,  c l'ardore 
vivissimo  recato  allora  nella  filologia  greca  e latina,  tornò  in  somma 
sventura  per  lo  svolgimento  libero  ed  originale  delle  Lettere  nostre 
volgari,  scambiano  troppo  le  cagioni  apparenti  c fortuite  con  le 
reali  ed  intrinseche.  Di  fatto,  egli  6 da  ricordare  che  ne’  tempi  me- 
desimi di  Lorenzo  de’  Medici , due  impulsi  ricevette  la  poesia  ita- 
liana, e per  due  strade  efiverse  prese  cammino;  l'una  fulle  aperta 
dal  Poliziano , l’altra  dal  bizzarro  ingegno  del  Pulci.  Ora,  in  costui 
non  trovasi  egli  somma  novità  e franchezza  di  poetare  e tanto  spirilo 
di  rivolta  contra  tutti  i documenti  dei  rettori  antichi,  quanto  il  suo 
Uargutle  ne  mostra  con  tra  le  cose  piu  sante?  E quella  serie  lunghis- 
sima di  poemi  cavallereschi  che  dal  Ciriffo  Calvaneo  scende  giù  fino 
al  Ricciardetto,  non  si  scosta  pur  tutta  nella  sostanza  e nelle  forme 
dal  poetar  greco  e latino?  Nel  Furioso  medesimo  quanti  sono  i 
luoghi  dove  l’ Ariosto  apertamente  imita  e copiagli  antichi?  Non 
son  molti  del  sicuro , e non  tali  giammai  che  tolgano  a quel  poema 
il  pieno  carattere  di  novità  e noi  facciano  differentissimo  dalla  poe- 
sia classica.  Ciò  nondimeno , perchè  ai  tempi  del  Pulci  il  gran  moto 
repubblicano  rallentavasi  da  ogni  banda,  e gl' intelletti  più  culti  e 
più  ardili  cessavano  dall' infiammarsi  dei  sentimenti  e delle  passioni 
comuni  ; però  accadde  che  il  Pulci  impresse  nella  volgar  poesia  un 
carattere,  nuovo  bensì,  ma  troppo  diverso  da  quello  clic  abbiain 
notato  nell’ Alighieri.  Ben  si  vede  da  ogni  pagina  del  Morgante  che 
il  Pulci  è poeta  di  corte  e fa  dell’arte  sua  un  nobile  ed  elegante 
trastullo.  Egli  ricrea  le  scelte  brigate  fiorentine  con  le  avventure  ca- 
valleresche, e a quelle  anime  voluttuose  ed  argute,  c spoglie  oggimai 
delle  credenze  c passioni  gagliarde  dei  padri , egli  sa  soddisfare  con 
la  sottile  ironia  e la  beffa  leggiadra  c dissimulala;  c mentre  il  comune 
interesse  e la  dignità  delle  plebi  s’ affievolisce,  egli  compiace  allo 
spirito  individuale  de’patrizj  e de’ doviziosi  mercatanti,  i quali  scor- 
dando quasi  la  patria  espregiando  la  modestia  del  vivere  repubblicano, 
avvisavano  nei  casi  de’  paladini  quel  che  possa  l’audacia,  la  forza  e 
J’ accorgimento  d’un  uomo  per  giungere  alla  potenza  e al  dominio. 


XVIII 


PREFAZIONE. 


§ XVI. 

D'altra  parto,  il  Poliziano  nelle  ottave  della  Giostra  incominciò 
un  verseggiare  raffinatissimo,  c quasi  a dire , aristocratico  e signo- 
rile; tutto  impregnalo  di  latino  e di  greco,  anzi  greco  e latiuo 
espresso  in  eleganti  voci  italiane;  il  quale  più  non  è accostevole  al 
popolo , e vive  d’arte  e d’ingegno  più  assai  che  d’inspirazione.  Vede 
ognuno  pel  semplice  paragone  dei  fatti , quanto  mai  dissomiglino  in 
fra  di  loro  i versi  del  Poliziano  o quelli  del  Pulci  ; c solo  in  ciò  si 
raffrontano  che  per  ambedue  la  poesia  dantesca  sì  grande,  sì  ma- 
schia, sì  nazionale,  è tenuta  in  disparte. 

§ XVII. 

Nella  stessa  corte  de’  Medici , ed  anzi  nelle  rime  stesse  di  Lorenzo 
il  Magnifico,  rinacque  il  petrarcheggiare , genere  di  poesia  che,  de- 
rivato in  parte  dai  Provenzali,  fecesi  proprio  d'Italia,  e durovvi , si 
può  dire,  per  cinque  secoli;  conciossiachò  ad  Eustachio  Manfredi, 
ben  si  compete  il  nome  e la  lode  di  ottimo  petrarchista.  E però  le 
Muse  vereconde  e soavi , ma  stanche  cd  esauste  degli  amanti  pla- 
tonici, mandarono  in  sul  finire  il  canto  del  cigno , dettando  a quel 
gentil  Bolognese  la  immortale  canzone  ; Donna,  negli  occhi  vostri. 
Certo  in  tal  foggia  di  poetare  riapparsa  nel  cadere  del  quattrocento 
in  compagnia  dell’ altre  da  noi  ricordate , la  imitazione  divenne  più 
ancor  manifesta  c servile , e (come  gli  accade  pur  sempre)  andò  co- 
piando il  peggiore;  nè  studiossi  di  ricalcare  eziandio  in  ciò  le  orme 
dantesche,  e partecipare  a quella  passione  ingenua  quanto  profonda, 
e a quel  candore  e a quella  semplicità  efficace  di  stile  che  adorna  di 
grazia  ineffabile  tulio  quanto  il  Canzoniere  del  gran  Ghibellino.  Ma 
qui  pur  noteremo  che  simile  imitazione  non  procedò  per  nulla  dal 
soverchio  amore  dell’ antichi  là  e dal  troppo  sfogliare  greci  c latini 
volumi  ; bensì  ebbe  luogo  c si  dilatò  per  difetto  ( di  poi  sempre  cre- 
sciuto) d'un’alta  poesia  comune  cd  intuitiva.  E ncmmanco  è da 
credere  che  il  gir  sonettando  alla  petrarchesca  sia  tanto  durato  in 
Italia,  e tanto  siasi  divulgato  per  cagioni  accidentaric,  o per  sola 
povertà  d’ingegno  e aridezza  di  vena.  Il  cuore  tra  noi  sente  assai  di 
leggieri  la  voglia  impaziente  di  significare  in  versi  gli  affetti  gentili 
ond’  è mosso  ; e per  quale  anima  non  passò  più  o meno  intensivo  il 


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PREFAZIONE. 


XIX 


gentil  fuoco  d’amore?  e nello  spegnersi  della  vita  civile,  e nel  cre- 
scere da  ogni  banda  l'ozio  lascivo  dei  ricchi  e dei  culli , la  galan- 
teria non  fu  rassegnata  forse  tra  le  nostre  precipue  occupazioni  ? 
D’altra  parte  quel  mantello  e quei  veli  che  dal  Petrarca  ricevè  in  , 
dono  l’Amore,  il  quale  s’aggirava  tutto  nudo  fra  i Greci , diè  a cia- 
scuno facoltà  di  pubblicamente  parlare  de’  proprj  a fletti  salvo  il  pu-  1 
dorè,  la  convenienza  e la  dignità;  ed  anzi  procacciando  alle  amate 
donne  bella  e incolpevole  fama.  Oltre  a ciò , quel  platonizzare  del 
Petrarca  confacevasi  molto  bene  con  l’altra  condizione  essenziale  e 
qualitativa  della  mente  italiana,  che  è di  cercare  in  qualunque  cosa 
la  bellezza  squisita  e non  qual  s’incontra  comunemente,  o si  può 
immaginare  da  ingegni  materiali  e bizzarri,  ma  qual  dee  risultare 
dalla  perfezione,  c comporre  un  modo  eccelso  di  leggiadria  che 
segni  l’ultimo  termine  dell'idealità,  e però  conduca  il  pensiero  per 
lo  mondo  invisibile  degli  archetipi , e svegli  nel  cuore  le  più  sublimi 
aspirazioni  ond' esso  è capace.  La  qual  tendenza  degl'italiani  com- 
parisce dispiegata  e manifestissima  in  tutte  le  arti , crea  la  maggior 
meraviglia  delle  tavole  di  Michelangelo  e di  Raffaello , c a noi  con- 
serva, pure  in  questi  nostri  miseri  tempi  (sia  qui  notato  per  inci- 
dente), il  privilegio  della  scoltura,  come  d’ un’arte  solenne  che  di 
necessità  porla  seco  sceltezza  c nobiltà  tragrande  e perfetta  di  con- 
cepimento e di  forma. 


§ XVIII. 

In  quello  scorcio  adunque  di  secolo  tre  maniere  distinte  di  poetare 
vennero  iniziate  o rifatte,  e furono  la  romanzesca  del  Pulci , la  clas- 
sica  del  Poliziano  e la  petrarchesca;  e di  queste  in  principal  modo  I t 
si  rivesti  la  susseguente  letteratura , eccetto  alcune  nuove  specie  di 
lirica  delle  quali  farem  parola  più  avanti.  Per  vero , alcuni  altri  com- 
ponimenti furono  dettali  in  quella  rinascenza  medicea  che  raddur 
non  si  possono  nè  al  genere  petrarchesco , nè  al  classico , nè  al  ro- 
manzesco , come  certe  ballate  e canzoni  pastorali , come  la  Beca  del 
Pulci  e la  Nencia  del  Magnifico,  e alcuni  Rispetti  e pochi  altri  simili 
scherzi  ed  amenità  che  erano  pure  le  bellissime  creazioni  e gemme 
vere  del  nostro  Parnaso,  vaghi  fiori  d’ ingegno  pieni  di  verità  e sem- 
plicità, pieni  di  greca  fragranza  e di  popolari  concetti  e passioni. 

Q nitidi  beata  la  nostra  letteratura , se  quei  fare  naturale , affettuoso 
«splendido,  tanto  di  evidenza  e di  grazia  natia,  fosse  stato  introdotto 
in  materie  più  vaste  e più  nobili  ! 


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XX 


PREFAZIONE. 


S XIX. 

Ma  ripigliando  il  breve  confronto  impreso  da  noi  tra  i poeti  volgari 
deH’clà  media  e il  prototipo  sublime  dell’arte  che  ci  fornisce  la  Di- 
vina Commedia,  noi  non  esiteremo  a dire  che  la  poesia  dantesca 
tentò  di  risorgere  in  parte  col  Tasso,  e propriamente  a rispetto  della 
gravila  c solennità  dei  pensieri  e dei  documenti,  e per  quell’ufficio 
suo  d’esprimere  c invigorire  le  comuni  aspirazioni  e gli  alleiti  eroici 
d’ un’ età  e d’una  nazione,  e di  toccare  i fini  più  alti  e più  profitte- 
voli dcH’epopeia,  e insomma  riuscire  in  tutto  una  poesia  civile , re- 
ligiosa e sapiente.  A niuno  è nascosto  che  da  Paolo  IV  in  poi , la 
Religione  vesti  in  Italia  un  abito  di  severità  e un  rigor  di  dottrine, 
tanLo  più  stretto  e geloso,  quanto  l’eresia  cresceva  all’intorno  in 
Europa  e radicavasi  forte  in  Germania , in  Inghilterra , in  Isvizzcra  e 
in  altre  regioni  settentrionali.  Nè  già  debbe  credersi  che  in  quel 
torno  di  tempo  l’ortodossia  cattolica  non  acquistasse  veramente 
maggiore  intensione  di  fede  e di  sentimento  nella  parte  più  pia  e 
meno  infralita  degl’ Italiani.  A questi  doleva  eziandio  assaissimo  ve- 
der declinare  ogni  giorno  la  forza  e l’autorità  teocratica , della  quale 
stando  la  sede  e lo  splendor  principale  appresso  di  noi , tutta  la  pa- 
tria comune  riscuotevano  lustro  e potenza  ; e maggiormente  parea 
necessario  di  conservare  c consolidare  quel  principio  d’  autorità,  in 
quanto  che  in  Italia  tutte  le  altre  vie  di  potere  c di  predominio  si 
dileguavano.  Col  desiderio  poi  di  ritirare  inverso  alle  origini  sue  il 
papato , procedevano  di  pari  passo  altri  sentimenti  c principj , dai 
quali  si  procacciava  di  fieramente  resistere  ad  ogni  spirito  d'innova- 
zione e rimettere  in  fiore  antiche  opinioni  e istituti.  E come  le  demo- 
crazie in  Italia  erano  tutte  crollate  e solo  perduravano  le  aristocrazie, 
e i baroni  moltiplicavano;  così  entrò  nel  cuore  di  molli  il  pensiere 
che  alle  plebi  dovea  stringersi  forte  il  freno  c ogni  cosa  dovea  spe- 
rarsi dalla  saggezza  degli  ottimati  e dei  principi.  Oltre  a ciò,  nel  co- 
mune pericolo  s’ erano,  come  ognun  sa,  concordati  alla  meglio 
l’imperatore  c il  pontefice;  del  che  era  nato  che  mentre  in  Italia 
spegnevasi  di  più  in  più  il  vigor  popolare  e le  franchigie  repubbli- 
cane , sembravano  crescere  per  lo  contrario  e spander  radice  i privi- 
legi feudali  e una  specie  ambigua  di  cavalleria  principesca  e corti- 
giana. L’autorità  poi  che  sforzavasi  di  risorgere  da  tutte  parti  e 
soffocare  le  novità  temerarie,  tiranneggiava  non  pur  la  scienza  sulle 
cattedre,  ma  eziandio  l’arte  nelle  accademie,  curvandola  sotto  il 


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PREFAZIONE. 


\M 


peso  delle  teoriche  e dei  precetti  ; e il  cullo  inverso  i capolavori  an- 
tichi tanto  più  s'accostava  a superstizione  , quanto  l'Italia  nel  suo 
rapido  declinare  tenea  più  preziose  e più  venerande  le  ricordanze 
del  suo  passato. 

Di  tali  tutte  cose  fu  rappresentalore  fedele  il  Tasso,  anima  pia  e 
generosa,  ma  in  cui  (non  so  dir  come)  nulla  v’era  di  popolare. 
Quindi  egli  s’infervorò  della  maestà  teocratica  dei  pontefici  e aderì 
alla  nuova  cavalleria  cortigiana  e feudale;  quindi  pure  accettò  coi' 
zelo  e con  osservanza  scrupolosa  l’ortodossia  cattolica,  e nella  vita 
intellettuale  come  nella  civile,  fu  dall’autorità  dei  metodi  e degli 
esempi  signoreggialo.  Da  ciò  prese  nud  ri  mento  e moto  il  divino 
estro  suo  e uscirono  le  maraviglie  della  Gerusalemme . Pieno  ancora 
la  fantasia  della  battaglia  di  Lepanto , e sperando  che  un’  altro  Marco 
Antonio  Colonna  rinnovasse  con  più  ragione  quel  simulacro  degli 
antichi  trionfi  che  poco  innanzi  avea  rallegrate  le  vie  di  Roma,  dettò 
quel  poema  non  senza  fiducia  di  persuadere  i principi  della  cristia- 
nità a desistere  dalle  loro  discordie  e ripetere  con  più  senno  e virtù 
le  gesta  eroiche  delle  crociate  ; adempiendo  ogni  cosa  sotto  il  gran 
patrocinio  del  padre  e pastore  comune  dei  popoli , benedicente  in 
Valicano  alle  sacre  bandiere.  Ancora  confidavasi  d’innamorare  e 
principi  e gentiluomini  di  quei  costumi  cavallereschi  e magnanimi , 
de’  quali  fin  dall' infanzia  s’era  venuto  componendo  in  mente  una 
norma  e un  idolo  così  difforme  dal  vero  come  pien  di  vaghezza  e 
d’appariscenza , ed  a cui  pretendeva  di  dar  fondamento  scientifico 
con  un  misto  di  dottrine  platoniche  e aristoteliche,  come  da  più 
d’uno  de’ dialoghi  suoi  si  raccoglie.  Insomma,  a’  dì  nostri,  in  cui 
abbonda  più  la  invenzione  dei  nomi  che  delle  cose,  verrebbe  in 
Francia  ed  in  Inghilterra  denominato  gran  poeta  conservatore. 

§ XX. 

Nel  Tasso  poi  sono  tutti  i pregi  c tutta  quanta  la  luce  e magnifi- 
cenza della  poesia  classica,  e spiccano  altresì  in  lui  alcuni  attributi 
speciali  del  genio  italiano  in  ordine  al  bello.  In  perpetuo  si  ammirerà 
nella  Liberata  ciò  che  l’ arte , i precetti  e la  dottrina  possono  fare , 
ajutati  e avvivali  da  una  stupenda  natura  poetica.  Quivi  toccò  il 
sommo  eziandio  quel  maestoso  decoro  e quella  sceltezza  e nobiltà  di 
composizione  e di  forma  propria  degl’  Italiani , più  forse  ancora  che 
J de’  Greci  medesimi , e la  quale  può  riputarsi  che  in  noi  proceda  per 
abito  e per  tradizione  della  grandezza  romana,  e per  quel  severo  ed 

e.. 


PREFAZIONE. 


XXII 

illustre  di  concetti  e di  sentimenti  che  nelle  scuole  di  Pittagora  trova 
i principj  suoi  remotissimi.  Ugualmente  nel  Tasso  à piena  sod- 
disfazione quel  desiderio  continuo  dell'ingegno  italiano  che  nel- 
l’ opere  d’arte  apparisca  da  ogni  lato  e in  qualunque  cosa  l’unità  e 
l'armonia , la  convenienza  c la  forbitezza.  Ma  d'altra  parte  non  è nei 
poemi  suoi  la  novità  e la  creazione  altissima  della  Divina^Cammedia, 
non  la  energia  tanto  semplice  quanto  vera  e terribile  degli  alletti  e 
del  lor  linguaggio , non  la  concisa  evidenza  delle  descrizioni  che  fa 
dello  stile  dantesco  una  perpetua  scultura  e cesellatura.  Mancavi 
1 ; similmente  quella  continua  contemperanza  del  reale  con  l’ideale,  e 
del  proprio  e individuo  col  comune  ed  universsd&  Ma  l’amore  so- 
verchio dello  scelto  e dello  squisito,  la  obbedienza  non  sempre  legit- 
tima alle  prescrizioni  dei  retori,  il  comporre  freddo  e compassato, 
e con  in  mente  modelli  troppo  discosti  dalla  natura  e per  troppa 
dignità  c magnificenza  uniformi , comincialo  aveano  a predominare 
in  Italia  pure  innanzi  del  Tasso  , e venivano  ammanierando  eziandio 
le  scuole  di  Raffaello  e di  Michelangelo.  Sotto  quelle  esagerazioni  e 
quei  pesi  affogò  la  drammatica,  e si  falsificò  in  buona  parte  il  teatro 
stesso  pastorale  ove  fin  da  prima  comparve  gran  novità  o gran  leg- 
giadria , ma  tutta  fondala  sopra  l’ idea  di  tempi  e di  uomini  che  mai 
non  furono,  e a cui  le  volgari  opinioni  negando  fede,  toglievano 
verosimiglianza.  Dai  pastori  di  Virgilio  già  troppo  azzimati,  ebbero 
nascimento  quelli  di  Sanazzaro,  c tutta  la  bucolica  nostra  italiana, 
se  tu  n’eccettui  il  Baldi,  fu  elegante,  ma  fattizia;  c del  certo  non 
meritava  che  gli  stranieri , massime  gli  Spagnuoli , si  sbracciassero 
ad  imitarla. 


§ XXI. 

Dicemmo  che  allato  alla  scuola  latinizzante  e accademica  del  Po- 
liziano e del  Sanazzaro , aprissi  quella  del  Pulci , tutta  libertà  e 
scioltezza;  c da  lui  cominciò  la  serie  de’  poeti  romanzeschi,  i quali 
attingendo  ai  racconti  c alle  tradizioni  straniere , e trattando  materie 
alienissime  dalle  storie  e dai  costumi  italiani,  seppero  ciò  nondi- 
meno, per  sola  virtù  d’ingegno,  produrre  poemi  invidiabili  a quelle 
nazioni  nel  cui  seno  la  cavalleria  era  sorta  e fiorita.  Ma  se  in  costoro 
move  gran  maraviglia  la  somma  bravura  e 4’ inesauribile  fecondità 
della  fantasia,  dall’altra  parte,  come  notammo,  sono  da  deplorare 
■ le  poco  gravi  e civili  tendenze  dell’arte,  le  quali,  più  si  procede 
oltre  nei  tempi,  e più  lasciansi  riconoscere,  talché  infine  c’imbat- 


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PREFAZIONE.  XXIII 

tiamo  nel  Ricciardetto,  ove  la  Musa  non  vuole  altro  fare  che  ridere 
e piacevolmente  burlarsi  degli  uomini  e forse  anche  un  poco  del 
Cielo.  Splende  fra  essi  come  gran  Sole  l’ Ariosto,  se  forse  non  è da 
dire  che  egli  non  appartiene  ad  alcuna  scuola  ed  è unico  piuttosto 
che  primo.  Ma  paragonando  il  Furioso  all’ idea  dell' ottima  poesia  qui 
sopra  delineata  e di  cui  dicemmo  essere  Dante  un  ritratto  maravi- 
gfiosamente  condotto  e il  più  prossimo  all’ originale,  a noi  sembra 
di  poter  sentenziare  che  ritraendo  l’occhio  dai  fini  solenni  e sapienti 
dell’arte,  c divisando  in  essa  non  più  che  l’intento  immediato  di 
mover  diletto  ed  esprimere  ogni  ragione  di  bello , quel  poema  cele- 
bratissimo s'accosta  meglio  di  tutte  l’altre  composizioni  italiane  ai 
pregi  della  Divina  Commedia.  Se  non  che,  l’ Ariosto  significò  la 
commedia  umana  quale  la  veggiamo  rappresentarsi  nel  mondo,  lad- 
dove Dante  fece  primo  subbietlo  suo  il  sopramondano , e in  esso 
figurò  e simboleggiò  le  cose  terrene.  E come  il  gran  Fiorentino  nelle 
fogge  variatissime  de’  tormenti  e delle  espiazioni  dipinse  i variatis- 
simi aspetti  delle  indoli  e delle  passioni , il  simile  adempiva  l’ Ariosto 
sotto  il  velo  dei  portenti  magici  e delle  strane  avventure.  Ma  certo 
qual  narrazione  di  fatti  umani  riuscirà  più  vasta,  più  immaginosa  e 
più  moltiforme  di  quella  dell’  Orlando  furioso?  Quivi  sono  guerre 
tra  più  nazioni,  nascimenti  e ruine  di  molti  regni,  conflitto  sangui- 
noso di  religione  e di  culto,  infinita  diversità  c singolarità  di  co- 
stumi, e tutto  il  Ponente  e il  Levante  per  larga  scena  e strepitoso 
teatro  di  colali  imprese  e catastrofi.  Quivi  sono  dipinte  la  vita  pri- 
vata e la  pubblica,  le  corti  e le  capanne,  i castelli  ed  i romitaggi  ; 
quivi  s'intrecciano  gradevolmente  la  cronica , la  novella  e la  storia , 
e ciò  che  il  dramma  à di  patetico,  l’epopeia  di  maestoso,  il  ro- 
manzo di  fantastico.  Però  io  credo  veramente  che  sieno  pochi  gli 
aspetti  e gli  accidenti  dell’eslerior  natura,  poche  le  colleganze  c 
gl’inviluppi  dei  casi , poche  infine  le  differenze  e le  tempre  dei  ca- 
ratteri e degli  appetiti  che  nel  Furioso  non  abbian  luogo , c tutte  con 
tnagislerio  insigne  ed  inarrivabile  vi  vengou  ritratte.  Quivi  è pure 
la  evidenza,  la  sicurezza  c la  incantevole  flessibilità  del  pennello 
dantesco  e quella  intuizione  immediata  e lucente  della  verità  e bel- 
lezza di  tutte  le  cose  che  dalla  inspirazione  si  origina  e qualifica 
peculiarmente  il  sommo  poeta.  Quivi  per  ultimo  è quella  difficile 
significazione  dell’ universale  e comune  nel  particolare  e nel  proprio, 
sicché  in  ogni  personaggio  ariostesco  appare  ben  definita  e spiccata 
una  forma  esemplare  e una  speciale  e vivente  individualità  ; e mentre 


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XXIV 


PREFAZIONE. 


il  sopranalurale  i raccende  di  tanto  la  realità  e ai  spazia  in  un  infinito 
fantastico , il  complesso  degli  accidenti  e il  parlare  e operare  degli 
uomini  procede  con  tale  verità  e naturalezza  che  fa  verisimile  l’im- 
possibile. Ma  nella  Divina  Commedia  la  intuizione  si  mesebia  in 
guisa  stupenda  con  la  più  viva  coscienza  di  sé  medesima  e con  la 
profonda  e incessante  meditazione.  Del  pari , nella  Divina  Commedia 
con  la  rappresentazione,  può  dirsi,  di  tutto  il  crealo  e con  la  imma- 
gine fedele  del  secolo  e della  civiltà  in  mezzo  a cui  fu  dettata , sem- 
pre vi  si  scorge  l' orma  c lo  stampo , a cosi  domandarlo , dell’  animo 
e del  genio  dantesco,  e tutta  la  persona  del  gran  Ghibellino  vi  sta 
improntata.  Nel  Furioso,  la  fantasia  par  sottomettere  a se  ogni  cosa 
e,  come  avviene  singolarmente  appresso  di -Omero,  l’arte  vi  giace 
nascosta,  e , a volte,  piglia  l'aspetto  della  negligenza  e della  srego^ 
lajezia;  c similmente,  la  persona  e il  carattere  del  poeta  rimanvi 
occulto  e ignorato , salvo  che  un  poco  il  rivelano  le  narrazioni  e 
descrizioni  non  sempre  caste , e quel  leggier  sorriso  e quella  blanda 
ironia  che  per  tutto  il  poema  si  sparge  e vince  in  grazia  e in  dissimu- 
lazione il  cantor  del  Morgan  te. 


§ XXII. 

Non  credo  che  in  veruna  straniera  letteratura  possa  come  nella 
nostra  volgare  annoverarsi  una  sequela  così  sterminata  di  poemi 
eroici  e di  romanzeschi , parecchj  de’  quali  brillerebbero  di  gran 
luce,  ove  fossero  soli  e non  li  soverchiasse  la  troppa  chiarezza  di 
Dante,  dell’ Ariosto  e del  Tasso.  Nè  reputo  presuntuoso  il  dire  che 
per  esempio  la  Croce  racquietata  del  Brecciolini  o il  Conquisto  di 
fìranata  di  Girolamo  Graziani , sostengono  bene  assai  il  paragone  o 
con  l’ Araucana  dell’ Ercilla  o coi  medesimi  Lusiadi  ai  quali  anno 
accresciuta  non  poca  fama  le  sventure  e le  virtù  del  poeta;  e per 
simile,  io  giudico  che  l 'Amadigi  del  Tasso  il  vecchio  o 1’  Orlando 
innamorato  del  Berni,  non  temono  di  gareggiare  con  la  Regina  Fata 
di  Spenser  e con  quanto  di  meglio  in  tal  genere  ànno  prodotto 
l' altre  nazioni.  Ma  non  è da  tacere  che  in  quasi  lutti  questi  nostri 
poemi  riconoscesi  agevolmente  o l’uno  o l’altro  dei  tipi  che  nel 
Furioso  e nella  Gerusalemme  ricevettero  perfezione , od  a cui  poca 
giunta  di  novità  e poche  profonde  mutazioni  si  fecero  dagl’ingegni 
posteriori  ; c ne’  poemi  eroici  singolarmente  a niuno  è riuscito  di  ben 
cansare  i difetti  del  Tasso,  molli  in  quel  cambio  li  esagerarono. 
I>eesi  peraltro  sceverare  da  tutti  essi  il  Trissino , al  quale  molti  anni 


PRKFAZIONE.  XXV 

avanli  del  cantore  di  Goffredo,  venne  desiderio  di  schiudere  agl’ita- 
liani la  via  illustre  e regia  dell’epopea,  c trattar  materie  più  conve- 
nienti alla  dignità  e sapienza  delle  Muse.  Fu  il  Trissùytjngegno 
austero  c animoso,  ma  freddo  ed  inelegante,  e cosi  alla  cicca  passio- 
nato della  semplicità  e maestà  omerica  da  non  ravvisare  che  i carat- 
teri della  poesia  primitiva  sono  in  qualunque  altro  tempo  inimitabili 
affali",  e clic  gli  uomini  e i casi  da  Omero  descritti  toccavano  il 
sovraumano  e il  divino,  dove  quelli  descritti  nella  Italia  liberata 
non  d'altro  sentivano  che  d’una  civiltà  tutta  guasta  ed  intenebrata. 
Nè  la  scelta  medesima  del  subbictto  fu  secondo  ch’egli  pensava, 
molto  italiana  e molto  civile;  c piacendogli  ad  ogni  modo  di  poetare 
della  liberazione  d’Italia,  come  a lui  Vicentino  non  venne  in  me- 
moria la  lega  lombarda?  Ma  già  colai  tema  (quale  ne  sia  stata  mai 
la  cagione)  a niun  poeta  illustre  italiano  affacciossi  al  pensiero  nè 
prima  nè  dopo  il  Trissino  e il  Tasso , e solo  ne’  volumi  del  Muratori 
incontrasi  qualche  antico  verseggiatore  che  ne  cantò  rozzamente  e 
con  depravato  latino  ; tanto  poco  gli  affetti  ed  i pensamenti  nostri 
attuali  somigliano  a quelli  de’  nostri  avi. 

§ XXIII. 

Dal  Tasso  in  poi  le  sorti  d’Italia  ruinarono  ancor  maggiormente, 

0 a pai-lare  più  esalto,  col  processo  del  tempo  la  piaga  del  comune  ser- 
vaggio sentir  faccvasi  più  profonda  e inguaribile,  c T universale  stem- 
peramento degli  animi  palesavasi  di  più  in  più  nel  tenore  del  vivere 
e nella  novità  dei  costumi.  Ogni  grande  c generoso  affetto  era  muto,  e 

1 popoli  procacciavano  di  ripararsi  da  tutte  specie  di  tirannidi,  ineb- 
riandosi di  piaceri  e brigando  e bamboleggiando  tra  frivole  occu- 
pazioni di  teatri , di  giostre,  di  novcndali , di  paramenti  e di  pompe. 
E ciò  non  pertanto  è così  scolpila  e naturala  negl’italiani  la  forma 
del  bello  e così  continuo  il  desiderio  di  imitarlo  c d’ esprimerlo,  che 
l’arte  non  si  estingueva,  ma  bene  si  corrompeva.  L’ immoderata 
fantasia  suppliva  ai  fiacchi  pensieri;  l’ affettazione  c la  bizzarria,  al- 
l’ingenua c subita  ispirazione,  l’abbondanza  lutulenta  c verbosa, 
all’antica  sobrietà,  i colori  vistosi  ed  il  liscio,  alli  schietti  e parchi 
ornamenti  del  vero.  Ognuno  à in  mente  che  caposchiera  e maestro 
di  tal  sorta  di  poetare  fu  principalmente  il  Stango?  al  quale  peraltro 
non  è da  imputare  colpa  maggiore  che  dell’ aver  lusingato  e secon- 
dato più  che  troppo  il  suo  secolo  ; e a dir  più  giusto,  egli  riuscì  per 
appunto  strepitosamente  grande  e famoso,  perch’ebbe  natura  con- 


XXVI 


PREFAZIONE. 


venientissima  a quella  specie  di  tempi  e di  gusto  ; conciossiachè  si 
avvera  nella  letteratura  il  medesimo  che  Macchiavello  viene  inse- 
gnando a rispetto  della  poliiica.  Scusabile  mi  si  fa  il  Marino,  e scu- 
sabili gl’italiani,  quand’io  considero  lo  stato  di  lor  nazione  sotto 
il  crudele  dominio  degli  Spagnuoli , e fieramente  mi  sdegno  con 
questi  medesimi  che  nella  patria  lo'-o  ancor  sì  potente  e sì  fortunata, 
plaudivano  a que’ delirj  e incensavano  il  Congora,  meno  ingegnoso 
assai  del  Marino  e di  lui  più  strano  e affettato.  In  fine  gioverà  il 
-ricordare  che  all’Italia  serva,  scaduta  c dilapidala,  rimaneva  pur 
tanto  ancora  di  prevalenza  iutcllcttualc  appresso  l’allrc  nazioni,  che 
de’ trionfi  più  insigni  e delle  lodi  più  sperticate  del  cavalier  Marino 
furono  autori  i Francesi,  e per  lungo  tempo  assai  nessuno  de’ lor 
poeti  seppe  al  tutto  purgarsi  della  letteraria  corruzione  venuta  d’ oltre 
Alpe;  testimonio  lo  stesso  Cornelio,  alto  e robustissimo  ingegno,  ma 
nel  cui  stile  nondimeno  avria  dovuto  il  Boileau  ritrovare  assai  spesso 
di  quel  medesimo  talco  del  quale  parcvangli  luccicare  i versi  del 
Tasso. 


§ XXIV. 

Dal  Marino  incominciò  a propagarsi  nel  mondo  una  poesia  fan- 
tastica e meramente  coloritrice  la  quale  cerca  l’arte  solo  per  l’arte, 
Tassi  specchio  indifferente  al  falso  ed  al  vero,  alle  cose  buone  ed  alle 
malvage,  alle  vane  c giocose  come  alle  grandi  e distruttive;  sente 
tutti  gli  affetti,  c nessuno  con  profondità,  c nell’ essere  suo  natu- 
ralo, canta  di  Adone,  come  di  Erode  e così  delle  favole  greche  come 
delle  bibliche  narrazioni.  In  tal  guisa  quella  poesia  dantesca  da  noi 
contemplala  c alla  quale  convien  sempre  tornare  con  l’occhio  della 
mente,  se  prima  del  Marino  già  compariva  incompiuta  e dispersa , 
e con  l’ Ariosto  risorgeva  solo  in  alcune  sue  doti , e col  Tasso  nelle 
intenzioni  finali  e nella  dignità  ed  elevazione  platonica,  ei  si  può 
dire  che  nel  poema  dell’alerone  più  non  lasciava  riconoscere  alcuna 
propria  sembianza. 


§ XXV. 

Durò  questo  corrompi  mento  ddl’ arte  dal  chiudersi  del  cinque- 
cento a tutto  quasi  il  secolo  mi.  E ciò  nondimeno  fiorirono  in  tale 
intervallo  tre  ingegni  eminenti  che  mantennero  alla  lirica  nostra  una 
facile  maggioranza  su  quella  d’altre  nazioni.  Ognuno,  io  penso,  à 


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PREFAZIONE. 


XXVII 


nominato  ad  una  con  me  il  Cbiabrera,  il  Filicajaed  il  Cuidi.  Dal  aolo 
Gbiabrera  fu  l’Italia  regalata  di  tre  nuove  corone  poetiche;  cbè  ve- 
ramente nelle  sue  mani  nacque  e grandeggiò  prima  la  canzone  pin- 
darica, poi  la  canzone  anacreontica  e inline  il  sermone  oraziano; 
nè  mal  s’apporrebbe  colui  che  attribuisse  al  Chiabrera  eziandio  la 
rinnovazione  del  Ditirambo.  Intelletto  ardito,  inventivo  e gagliardo, 
serbatosi  integro  del  gusto  e severo  dell’animo,  fece  nelle  odi  sue 
ripullulare  quel  tanto  di  poesia  civile  che  i tempi  e le  sventure  d' Ita- 
lia gli  concedevano.  Per  tutto  dove  sorgeano  faville  di  valore  ita- 
liano, o speranze  d’italiana  gloria  accorreva  quello  spirito  generoso 
con  le  ghirlande  degl’inni , senza  mai  parteggiare  per  una  provincia 
o per  un  governo,  ma  invitando  ogni  gente  della  Penisola  a ricor- 
darsi ne’lor  fatti  c consiglj  del  comune  sangue  latino.  Egli  Ligure, 
e accollo  c onorato  da  un  popolo,  che  avea  combattuto  a Cbiozza  ed 
a Malamocco,  spandeva  lodi  magnifiche  sui  Veneziani  morti  nelle 
guerre  contro  al  Turco;  e mentre  l’Europa  e gran  porzione  altresì 
dell'  Italia  stavasi  indifferente  a guardare  quella  lotta  sproporzionata 
e sanguinosissima  in  cui  l'infelice  Venezia  scemava  ogni  anno  di 
forzo,  di  tesoro,  d’autorità,  di  dominio,  l’anima  gentile  del  Savonese 
la  consolava  co’  suoi  versi  degni  mollo  spesso  del  cedro. 

§ XXVI. 

Il  Eillcaja  venne  a tempi  ancor  più  infelici,  c quando  più  non  era 
possibile  di  discuoprire  ne’ suoi  Fiorentini  un  segno  e un  vestigio 
pure  dell’antica  fierezza  repubblicana.  Ma  il  senso  del  bene  morale  e 
la  pietà  religiosa  fervevano  cosi  profondi  nell’animo  suo  che  basta- 
rono a farlo  poeta.  E mai  nè  in  questa  nostra  patria , nè  fuori  sonosi 
udite  canzoni  così  ben  temperate  di  splendore  pindarico  c di  maestà 
scritturale  come  quelle  del  Filicaja  ; onde  costui  veracemente  avrebbe 
toccate  le  ultime  cime  della  lirica  nostra  dove  all’ impeto  del  senti- 
mento e alla  bellezza  e sublimila  del  concetto  si  conformassero  sem- 
pre la  purità  e l’eleganza  del  dire.  Nel  Guidi  poi , che  è il  terzo  deno- 
minati, si  ripetè  un  fatto  veduto  a quando  a quando  in  Italia  e il 
quale  le  straniere  letterature  poco  o nulla  conoscono,  io  voglio  dire 
una  mente  in  cui  la  invenzione  e la  vaghezza  dei  pensieri  è scarsa  e « 
non  trapassa  i termini  del  mediocre,  e quella  dello  stile  è grandis- 
sima e raggiunge  la  perfezione;  o veramente  nel  Guidi  allato  a con- 
cetti ed  a sentimenti  spesso  comuni  e rettorici , splende  una  forma 
non  superabile  di  novità,  di  bellezza  e magnificenza.  E d’altra  parte 


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XXVIII 


PREFAZIONE. 


che  poteva  egli  un  pocla  costretto  a voltare  in  versi  le  latine  omelie 
di  Clemente  XI  e a cantare  le  leggi  dei  pastori  d’ Arcadia?  Abitava  in 
Roma,  e delle  ruinc  romane  pasceva  continuo  gli  occhi , c da  questa 
vera  e sola  grandezza  che  avea  dinanzi,  trasse  le  immagini  c i pen- 
samenti migliori  c più  vigorosi.  Ma  la  decadenza  trista  ed  irreparabile 
del  pontificato  non  volea  vedere  o pur  non  poteva  ; di  quindi  quel 
suo  fare  iperbolico  e quel  suo  vestir  di  gran  nomi  e di  gran  parole 
le  picciole  cose.  Certo,  se  ad  Alessandro  Guidi  fosse  toccato  di  vivere 
in  seno  di  una  nazione  forte  e gloriosa,  non  ostante  la  poca  fecon- 
dila e vastità  de’ pensieri , io  non  so  bene  a qual  grado  di  eccellenza 
non  sarebbe  salila  la  lirica  sua , perche  costui  propriamente  sorli  da 
natura  l’os  magna  sonaturum,  e ce  ne  porge  sicura  caparra  la  sua 
canzone  alla  Fortuna. 

Di  Fulvio  Testi  è quasi  ingiuria  tacere  ed  è pericolo  gravo  lodarlo. 
Copia  di  pensieri  più  che  novità  ; grandezza  che  dà  nel  turgido  ; 
audacia  e forza  che  si  piacciono  nell’ ostentazione;  un  comporre 
11*8  l’ oraziano  ed  il  chiabrcresco , ma  non  come  quelli  castigato  c 
continuamente  condotto  dal  buon  giudicio  e dall’ ottimo  gusto.  Di- 
leltaronlo  le  maltczzc  del  Marino , anzi , dal  lato  dello  stile,  fu  il 
Marino  medesimo  con  maggior  polso,  ma  con  minore  invenzione,  ed 
ebbe  comuni  altresì  col  maestro  suo  la  fluidezza  del  verso  c la  riso- 
nanza del  ritmo,  non  sufficienti  sempre  a nascondere  il  fraseggiare 
negletto  e prosaico. 


§ xxvii. 

L’Italia  in  sul  cominciare  del  settecento  affrancandosi  in  parte  del 
giogo  straniero  per  lo  sgombramento  degli  Spagnuoli  ebbe  destino 
mcn  doloroso  e concepì  speranza  del  meglio;  appresso,  nell’altra 
metà  di  quel  secolo  ebbe  principi  riformatori,  ingegni  tragrandi  in 
iscienza  e in  politica,  e vide  in  Roma  una  restaurazione  assennala 
del  gusto  antico  in  tutte  Farti  del  disegno.  Ma  l’ effetto  di  ciò  ap- 
parve assai  tardi  e assai  lentamente  nella  poesia  ; onde  conosccsi 
«■li’  ella  non  precorre  il  moto  civile  dei  popoli  e piuttosto  ò l’ ut- 
limo  fruito  che  il  primo  fiore  delle  pubbliche  miglioranze  ; nè 
queste  si  fanno  materia  di  poetica  inspirazione  che  quando  menano 
seco  l'abbondanza  e l’impeto  degli  affetti,  e quando  i pensieri  e le 
teoriche  che  le  accompagnano,  sono  di  qualità  da  facilmente  vestire 
le  forme  dell’arte.  Ma  comunque  ciò  sia,  questo  rimane  pur  vero 
che  fino  all’  ultimo  scorcio  del  secolo  andato  il  nostro  Parnaso 


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PREFAZIONE.  XXIX 

risuonò  più  che  mai  di  ciancc  canore,  e per  intero  venne  occupato 
da  quello  stile  or  ampolloso  e scorretto , or  lascivo  e burlevole , ma 
sempre  fiacco,  verboso  e pedestre  di  cui  rende  immagine  piena  Jn- 
nocenzio  Frugoni  ; e dal  culto  della  semplicità  ed  eleganza  antica 
risuscitato  in  Roma  per  opera  del  Winckolman , del  Milizia , del 
Mengs,  del  Battoni  e d' altri  valenti  scrittori  c disegnatori,  cavarono 
i poeti  sol  questo  di  viepiù  pazzeggiare  c straniarsi  con  la  mitologia 
greca,  e di  dar  nome  d'anacreontiche  alle  lor  canzonette  prosaiche 
e piene  di  smancerie.  Della  energia,  proprietà  e sapienza  dantesca 
neppure  un  aspetto  e un  vestigio;  ed  anzi  fu  scritto  e fu  sindacato  > 
contro  la  Divina  Commedia,  ove,  trattone  qualche  brano,  ogni  rima- 
nente, si  giunse  a dire,  dee  reputarsi  nojoso  e barbaro.  

A tanto  orgoglio  di  giudicio  c tanta  umiltà  e grettezza  di  opere 
affermeremo  noi  essere  contrappeso  più  che  bastevole  la  gloria  di 
Metastasio?  Incertissima  è la  sentenza,  e in  qualunque  modo  si  pro- 
ferisca, la  lascivia  e la  frivolezza  dell’  arte  non  ricevono  alcuna  smen- 
tita da  quel  poeta  Cesareo.  E a chi  ormai  non  dispiace  la  effemmi- 
nata  sua  Musa?  a chi  non  rincrescono  quegli  croi  cascanti  di  vezzi 
e quei  Greci  e Romani  trasformati  così  sovente  in  Filocopi  c in  Ca- 
loandri?  Eppure,  il  buon  Gravina  avea  fin  dall’ infanzia  menato  il 
Trapassi  a bere  alle  ingenue  fonti  della  drammatica  antica.  Ma  il 
dilicato  giovinetto,  conforme  in  tutto  alla  muliebre  natura  dei 
tempi , piuttosto  che  imparare  da  Sofocle  a emendare  Bacine  e 
Quinault , aggiunse  le  proprie  alle  molte  loro  svenevolezze.  E nep- 
pure quando  si  alzò  a cantare  di  Temistocle , di  Attilio  Regolo  e di 
Cotono,  seppe  purgar  la  scena  degli  amoretti  e dei  madrigali; 
miglior  esempio  aveagli  dato  Apostolo  Zeno. 

§ XXYI1I. 

Ma  come  i sensi  religiosi  in  quel  che  anno  di  più  sublime  e di  più 
scritturale  fecero  del  Filicaja  un  poeta  grande , col  quale  il  secolo 
decimoscltimo  tanto  bene  si  compiè  quanto  male  fu  cominciato  dai 
Marinisti;  del  pari  nell’ età  susseguente  le  inezie  anacreontiche,  le 
pastorali  melensaggiui  e i dispregi  contro  Dante,  trovarono  fine  per 
opera  d’un  ingegno  altamente  religioso  ed  austero,  il  quale  in 
mezzo  alla  licenza  delle  opinioni  e alla  mollezza  e fatuità  de’  costumi, 
parve  in  yero  infiammato  da  una  fantasia  e da  una  indegnazione  pro- 
fetica. A me  suonerà  sempre  caro  cd  insigne  il  nome  di  Alfonso  Va- 


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XXX 


PREFAZIONE. 


reno,  perchè  da  lui  segnatamente , a quello  che  io  giudico,  s'iniziò 
IT  corso  della  poesia  moderna  italiana  ; e forse  la  patria  non  gli  si 
t,  mostra  ricordevole  e grata  quanto  dovrebbe.  Chi  trovasse  non  poca 
similitudine  tra  la  mente  del  Varano  e quella  del  Young,  credo  che 
male  non  si  apporrebbe.  Anime  pie  e stoiche  ambidue,  e dischiuse 
non  pertanto  agli  affetti  gentili , diffondono  ne’  lor  versi  un  religioso 
terrore  e un’ascetica  melanconia  che  nell’  Inglese  riescono  cupi , in- 
consolati  e monotoni , e nell’  Italiano  s’allegrano  spesso  alla  vista  del 
nostro  bel  sole,  c dai  pensieri  del  sepolcro  volano  con  gran  fede 
alla  pace  e serenità  della  gloria- immortale. 

Varano  poi  insieme  col  Gozzi  restituì  alla  Divina  Commedia  il 
debito  culto  ; il  Gozzi  con  li  scritti  polemici , egli  con  la  virtù  dcl- 
l’ esempio  ; ed  ebbe  arbitrio  di  dire  a Dante  ciò  che  questi  a Virgilio  : 
Tu  se'  lo  mio  maestro  e il  mio  autore.  Se  non  che  il  cantore  delle  vi- 
sioni chiuse  e conchiuse  l’ intero  universo  nel  sentimento  della  pietà 
e nei  misteri  del  dogma,  e non  bene  seppe  imitare  del  suo  modello 
la  nervosa  brevità  e parsimonia , la  varietà  inesauribile  e la  pere- 
grina eleganza. 

Ma  le  nostre  considerazioni  debbonsi  tutte  fermare  alla  soglia  ove 
à termino  l’età  media  e la  moderna  incomincia.  Il  Parini  stereo  ci 
sembra  travalicarlo  c sentir  l’aura  de’  nuovi  studj  e del  nuovo  se- 
colo; ond’egli  non  vuol  serbare  d’antico  se  non  la  grazia  del  greco 
idioma  e la  dignità  del  romano , e quella  inflessibile  alterezza  edrit- 
tura  dell’animo  che  non  obbedisce  c non  piega  di  là  dall’onesto  nè 
ai  principi  nè  ai  demagoghi. 

TERENZIO  MAMIANt. 


Genoa,  1848. 


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POETI 


DELL’ETÀ  MEDIA. 


POEMI  EROICI. 


BOCCACCIO. 


Nel  decimo  r uflcio  funerale 
Fanno  gli  greci  re  a’  morti  loro  : 
E Teaeo  chiama  chi  «anta  dimoro 


Poi  Arcila  a Teaeo  racconta  quale 
Dopo  la  morte  sua  del  suo  tesoro 
Il  testamento  sia;  e poi  con  ploro 
Quasi  con  Palemon  fece  altrettale  : 

Poscia  presente  Emilia  seco  stesso 
Del  suo  morir  si  duole , e poi  con  lei  : 

Ed  elio  dopo  lui , porgendo  ad  esso 
Gli  stremi  baci  con  dolenti  omei  : 

Quindi  a Mercurio  lita,  e piagno  appresso, 
Po’  l'alma  rende  agl’immortali  Iddei. 


TESEIDE. 


ARGOMENTO. 


0 mal  d’Arcita  dice  easer  mortale: 


Il  gran  nido  di  Leda  ogni  bellezza 
In  molte  luci  di  si  dimostrava, 

E già  propinqua  a sua  maggior  cortezza 
Tacitamente  la  notte  n’andava, 

Forse  due  ore  vicina  alla  terza 
Dove  il  suo  mezzo  cerchio  già  toccava  : 
Quando  di  corte  1 regi  si  partirò. 

Ed  agli  lor  oslier  proprj  rcddiro. 


Degna  di  pira,  ciascheduno  disse 
A’  suoi  : Mentre  la  gente  si  riposa 
Piani  al  teatro  grande  ve  ne  andate , 
E quivi  con  silenzio  ne  aspettate. 


I morti  corpi  degli  nostri  amici 
Tutti  con  diligenza  troverete. 

Ed  acciò  che  non  sian  forse  mondici 
D’ onor  di  sepoltura , laverete 
Lor  tutti  quanti  ; e roghi  fate  lici , 

Nc’  qua’  con  degno  onor  li  metterete  : 
Po’  venuti  saren , ma  chetamente 
Si  tuo!  far  ciò , che  noi  senta  la  gente. 


Ed  acciocché  per  lor  non  s*  impedisse 
La  lieta  festa  della  nuova  sposa , 

Anzi  che  più  della  notte  sen  gisse. 

Prese  con  loro  ciascheduna  cosa 


1 


2 POEMI 

Mosscrsl  allor  co' lumi  I servidori, 

E ’n  verso  il  gran  lealro  se  ne  andaro  ; 

E,  come  avieri  comandato  i signori, 

Gli  morti  corpi  tutti  ritrovaro, 

E que'  con  odoriferi  licori , 

E con  lagrime  ancor  molto  lavaro  : 

Po'  fatte  pire  per  sè  a ciascheduno , 
Sopra  catana  X ej»c  poser  uno. 

Vennero  i re,  die  la  turba  dolente 
Con  tristo  suono  fu  apparecchiata, 

Ed  intorniarla  tutta  con  lor  gente  ; 

E po’  eh'  egli  ehbcr  ciascuna  onorata 
E d'arme  c di  grillande  c di  lucente 
Porpora,  fu  la  tromba  comandata 
A sonar,  e a dar  v occ  a’  tristi  guai 
E dolenti,  clic  quivi  erano  assai 

Allora  i regi  adimorati  un  poco 
Dentro  alle  pire  fatte,  con  dolore 
Al  morto  suo  ciascuno  accese  il  foco , 

E poi  a Giove  stigio  ognun  di  core 
Fe’  sagrificio,  acciocché  pio  in  buon  loco 
Ponesse  quelli  che  per  lor  valore 
Erano  11  giorno  morti  combattendo  , 

L*  anima  loro  per  altrui  offerendo. 

I grossi  fuochi  e grandi  e ben  ardenti 
Consumar  tosto  i corpi  lor  donati  ; 

I qua'  da  ognuno  delle  greche  genti 
Pietosamente  fur  mortificati  : 

E ricolte  le  ceneri  cadenti. 

In  vasi  furo»  messe , apparecchiali 
Con  mano  pia , c con  dolente  verso , 
Durando  ancora  assai  del  tempo  perso. 

E quante  Niobe  appresso  a Sipiiooe 
Allorché  i figli  di  Latona  fero 
Vendetta  della  sua  alta  orazione, 

Ne  portò  urne,  ed  ivi  in  sasso  vero 
Si  trasmutò,  cotanti  è openione 
Che  quiii  al  tempio  del  gran  Marte  altero 
Segnati  glsscr  del  nome  di  quelli, 

Le  ceneri  de’ qual  fur  messe  in  dii. 

Poi  ritornaro  agli  lasciati  ostieri, 
Siccome  bisognosi  di  riposo  ^ 

Ed  a dormire  i regi  c i cavalieri, 

E qualunque  altro,  il  tempo  tenebroso, 
Tutti  quanti  ne  giro  volentieri. 

Infine  al  nuovo  giorno  luminoso  : 

Quindi  levati  a corte  ritornaro, 

Dove  Teseo  levato  già  trovaro. 

Tutti  gli  Greci  i quali  avicn  difetto 
Eran  con  somma  cura  medicati , 

E lor  donato  soiazzo  e diletto, 

E ne'  bisogni  lor  bene  adagiati  : 

Talché  di  morte  c d’ ogni  altro  sospetto 


EROICI. 

Furon  in  pochi  giorni  liberali; 

E come  prima  si  rifecer  sani 

I cittadin  così  come  gli  strani. 

Ma  solo  Arcita  non  potè  guarire, 
Tanto  era  rotto  dentro  pel  cadere  : 
Fevvi  Teseo  il  grande  lscliion  venire 
D’Epidauro  ad  Arcita  per  vedere, 

II  qual  si  mise  segreto  a sentire 

Del  mal  die  Arcita  in  sè  potesse  avere  ; 
E sanza  fallo  egli  si  avvide  tosto 
Come  Arcita  di  dentro  era  disposto. 

Perchè  a Teseo  rispose  di  presente 
In  colai  guisa  : Nobile  signore, 
li  vostro  Arcita  è morto  veramente, 

Nè  luogo  ci  ha  di  medico  valore  : 

Giove  potrebòe  in  vita  solamente 
Servarlo,  se  volesse,  ci»’ e’ maggiore 
Cihe  la  Natura,  e puote  adoperare 
Assai  più  clic  Natura  non  può  fare. 

Ma  lasciando  a’  miracoli  il  lor  loco , 

10  dico  ch'Kscuiapio  non  varrebbe 
Pier  sanità  di  lui  molto,  nò  poco; 

Nè  ’l  chiaro  Apollo  ancora,  che  tutta  ebbe 
L’ arte  con  seco,  e seppe  ii  ghiaccio  c ’I  foco 
R I*  umido  e ’l  calore , e clic  potrebbe 
tàascun’crba,  o radice  : però  eh’ esso, 
Per  lungo  c per  traverso  è dentro  fesso. 

Dunque  fatica  per  sua  guarigione 
Sarie  perduta,  per  quel  eli' io  uc  senta  : 
Fategli  festa  e consolazione, 

Sicché  ne  vada  f anima  contenta 

11  più  si  può  air eterna  prigione, 

Dove  ogni  luce  Dite  tiene  spenta , 

E dove  noi  pur  dietro  a lui  ne  andremo 
Quando  di  qua  più  viver  non  potremo. 

Molto  colai  parlar  dolse  a Teseo, 
Perciocché  Arcita  sommamente  amava  ; 
Ed  a chi  questo  udiva  il  simil  feo, 
Perciocché  ognuno  alte  cose  sperava 
Della  sua  vita,  sc’l  superno  Iddco 
Vivere  In  parte  antica  lo  lasciava  ; 

Nè  sapevan  di  ciò  nulla  die  farsi , 

Se  non  ciascun  di  Giove  lamentarsi. 

Adunque  dascun  giorno  peggiorando , 
Il  buon  Arcita  in  sè  si  fu  accorto 
Che  ’l  suo  valore  in  tutto  già  mancando , 
E che  sanza  alcun  fallo  egli  era  morto  : 
Nè  di  ciò  trarre  il  potè  ragionando 
Alcun  giammai,  dandogli  conforto  : 
Perchè  volle  di  sè  dò  che  potesse 
Disporre , sol  che  al  buon  Teseo  piacesse. 

E fello  a sè  sanza  indugio  chiamare, 
E cominciò  con  lagrime  in  ver  lui 


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V .£■*' 


TESEIDE. 


Pietosamente  In  tal  guisa  a parlare  : 

0 nobile  signor  caro,  di  cui 
Mille  Tolte  morendo  meritare 

Vorrei  l’ onor,  del  qual  degno  non  fui , 
Piè  potrei  mai , lo  mi  veggio  venire 
Al  passo,  il  qual  nessuno  può  fuggire. 

Al  qual  si  regno , eh’  i’  ne  son  contento  : 
Piè  vado  mal  pensando  che  l’ amore , 

Il  qual  m’ ha  dato  già  Unto  tormento 
Per  la  giovane  donna , che  nel  core 
Ancora,  come  mai  per  donna  sento, 
Lascio  infinito , e te , caro  signore , 

Al  quale,  appresso  lei  più  distava 
Servir,  che  a Giove , e più  mi  dilettava. 

Ma  più  non  posso , e farlo  mi  conviene  : 
Perch’Io  ti  prego,  per  ultimo  dono. 

Se  lungamente  Iddio  tl  guardi  Atene, 
Che,  poi  del  mondo  dipartito  sono, 

E sarò  gito  a riguardar  le  pene 
De’  miseri  che  priegan  per  perdono , 
Quel  che  dirò  tu  faccia  sia  fornito. 

Se  tu  da  Marte  sia  sempre  esaudito. 

Signor,  tu  sai  che  poi  che  di  Creonte 
Il  giusto  Marte  tl  diè  la  vittoria 
Ch’io  t’era  con  lui  uscito  a fronte, 

E preso  fui  prigion,  della  tua  gloria 
Piccola  parte,  e certo  non  isponte, 

E Palemone  ancor,  come  a memoria 
Esser  ti  debbe,  I qua’ Testi  guardare. 
Forse  temendo  di  nostro  operare. 

Mai  poiché  quindi  fummo  liberati, 
Per  tua  bontà  e per  tua  cortesia, 

1 nostri  ben  , donde  eravam  privati , 

G fur  renduli.  ed  ogni  baronia. 

Come  tl  piacque,  avemmo,  ed  onorati 
Fummo  come  eravam  giammai  in  pria. 
De’  quali  a Paiemon  tutu  mia  sorte , 

Ti  prego  doni , dopo  la  mia  morte. 

Similemcnte  ancor  t’è  manifesto 
Quanto  amor  m’abbia  per  Emilia  stretto; 
Il  quale  al  tuo  servigio  sol  per  questo 
Ad  esser  venni , e quello , che  sospetto 
Esser  doveami,  non  mi  fu  molesto; 

Anzi  con  fè  serviva  e con  diletto  ; 

Nè  credo  mai  ti  trovassi  ’ngannato 
Di  cosa,  che  di  me  ti  sia  fidato. 

Esso  insegnommi  a divenir  umile  : 
Esso  mi  fé’ ancor  sanza  paura  : 

Esso  mi  fé’  grazioso  e gentile  ; 

Esso  la  fede  mia  fe’  santa  e pura  ; 

Esso  a me  dimostrò  che  mai  a vile 
I’  non  avessi  nulla  creatura  : 

Esso  mi  fe’  cortese  cd  ubidiente  : 


<"  -, 

Esso  mi  fe’  valoroso  e servente. 

Tanto  mi  diede  Amor  di  pronto  ardire. 
Che  sotto  nome  istran  nelle  tue  mani 
Mi  misi  a rischio  di  dover  morire  : 

E certo  a ciò  non  mi  furon  villani 
Gl’ Iddi! , anzi  facevan  ben  seguire 
I miei  pensieri  intieri  e tutti  sani  : 

Nè  mi  vergogno  punto  che  ’n  tuo  onore 
Io  tl  sia  stato  lungo  servitore. 

Febo  si  fece  servitor  di  Aitimelo, 
Mosso  dalla  medesima  cagione 
Ched  io  mi  mossi , e cosi  dolce  e quieto 
Servi,  ch’egli  ebbe  la  sua  intenzione  : 
E certo  eh*  io  ’1  seguiva  mansueto , 

S’ egli  non  fosse  stato  Palemone , 

Nè  dubito  che  ciò  che  disiava 
M’avessi  dato,  t’Io  mi  palesava. 

Or  cosi  va,  e non  si  può  stornare 
Ciò  eh’  è già  stato  ; ond’  io  sono  a tal  punto 
Qual  tu  mi  vedi , e sentomi  scemare 
Ognor  la  vita , e già  quasi  consunto 
Del  tutto  son,  nè  mi  posso  aiutare  : 

A lai  partito  m’ba  or  Amor  giunto, 

A cui  ho  lo  servito  il  tempo  mio 
Con  pura  fede  e con  sommo  disio. 

Nè  ’i  merito  di  ciò  che  io  attendea 
Goder  non  posso , benché  mi  sia  dato , 
Veggio  di  me  che  ciascun  Fato  avea. 

Che  cosi  fosse,  in  sè  diliberalo, 

E che  dei  mio  servir  vuole  eh’  io  stea 
Contento,  che  per  merito  onoralo 
Istato  sia  della  data  vittoria, 

Cir  ella  a’  futuri  fie  sempre  in  memoria. 

Ed  io  perciò  clic  più  non  posso  arante, 
Voglio  aver  questo  per  mio  guidardone  : 

E quel  che  fu  cosi  com’  lo  amante , 

E la  sua  vita  ha  messa  In  condizione 
Di  morte,  e di  periglio  simigliatile 
A me,  io  dico  del  buon  Palemone, 

Deli’ amar  suo  per  merito  riceva 
La  donna  ch’io  per  me  aver  doveva. 

Io  te  ne  prego  per  quella  salute 
Che  tu  a lui  ed  a me  parimente 
Donasti  già,  per  la  tua  gran  virtute 
Nota  agl’  Iddii  ed  all’  umana  gente , 

E per  l’ opere  tue,  che  conosciute 
Sono  e saranno  al  mondo  dentalmente, 
E per  la  fede  la  qual  ti  portai , 

Mentre  nel  tuo  servigio  dimorai. 

Questa  mi  Ga  tra  l’ ombre  alma  letizia , 
Che  Palemone , cui  mollo  amo , sia 
Tratto  per  me  d’ amorosa  tristizia , 
Possedendo  egli  ciò  che  più  disia  : 


POEMI  EROICI. 


Pensando  ancora  ch'egli  abbia  dovizia 
Di  ciò  eh'  egli  ama , per  tua  cortesia , 
Almeno  Emilia  mentre  sarà  in  vita , 
Vedendo  lui,  avrà  a mente  Ardta. 

E questo  detto,  forte  sospirando 
Tacque,  cogli  occhi  alla  terra  abbassali, 
Tacito  seco  stesso  lagrimando , 

Ni  quelli  ardiva  di  tener  levati  : 

Onde  Teseo  un  poco  attese,  c quando 
Vide  eh’  e’  suoi  parlari  eran  posati , 
Quasi  piangendo , assai  di  lui  pietoso , 
Disse  cosi  con  viso  lagrimoso  : 

Tolgan  gl’  Iddìi , Arcita , amico  caro  , 
Che  Lachesls  il  1)1  poco  tirato 
Ancora  tronchi,  e cessi  questo  amaro 
Dolor  da  me,  sed  lo  i'iio  meritato, 

Che  non  si  dia  a tua  vita  riparo; 

E gii  In  ciò  Alimelo  ha  pensato 
Insieme  con  Ischion , c si  faranno , 

Che  vivo  e sano  a noi  ti  renderanno. 

Ma  pur  se  degl'iddìi  fosse  piacere 
Di  torti  a me , che  più  che  luce  t’  amo , 
A forza , ciò  non  ci  convien  volere , 
Perocché  noi  sforzargli  non  possiamo  : 
Ciò  che  m' hai  detto  puoi  certo  sapere , 
Che  poi  ti  place,  siccome  te  'I  bramo, 
E saura  fallo  tutto  e’  tìe  fornito 
Se  tu  venisti  a si  fatto  partito. 

Ma  tu  come  si  forte  ti  sgomenti. 
Pensando  clic  cosi  notabil  cosa, 

Com'è  Emilia,  che  farie  contenti 
Qualunque  Dii,  di  sé  tanto  amorosa 
Si  fa  vedere,  e'  suoi  ocelli  lucenti 
Pur  te  disian  con  vista  lagrimosa, 

Essa  eh’  è tua?  deh  prendi  pur  conforto , 
Chè  ancor  verrai  a grazioso  porto. 

Ben  ci  ha  da  render  altro  guldardone 
Delle  fatiche  da  lui  sostenute, 

1'  dico  al  tuo  amico  Palemone, 

Del  quale  a me  domandi  la  salute: 

Sol  che  tu  sani,  io  ho  opinione 
DI  porvi  ’n  parte,  per  vostra  virtute, 
Dove  di  voi  tra  voi  ancor  sarete 
Contenti  si,  clic  lieti  virerete. 

Arcita  a questo  nulla  rispondea, 

SI  lo  stringea  l'angoscia  dell' amore, 

Ed  il  suo  stato  assai  ben  eonoscca, 
Posto  che  gli  conforti  del  signore 
Divoto  udisse  quanto  più  polca  : 

E già  l’ ambascia  s’ appressava  al  core 
Della  misera  morte;  onde  si  volse 
In  altra  parte , ed  a Teseo  si  tolse. 

E poi  ch'egli  fu  alquanto  dimorato 


Sanza  mostrare  o dire  alcuna  cosa, 
Com'era  prima  si  fu  rivoltato, 

E ’n  voce  rotta  assai  ed  angosciosa 
Prega  che  Palemon  gli  sie  chiamato 
Anzi  eh'  e’  lasci  està  vita  noiosa  : 

Il  qual  gli  venne  sanza  dimorare 
Con  altri  molti  per  lui  visitare. 

Il  qual  po'  vide  innanzi  a sé  venuto , 
E rimirato  l'ebbe  lungamente 
Con  luce  aguta,  quasi  conosciuto 
Pria  non  l’ avesse,  con  voce  dolente 
Disse  : Palemone,  egli  è voluto 
Nel  del  die  qui  più  i’  non  ne  stia  niente: 
Però  innanzi  il  mio  tristo  partire 
Veder  ti  volli , toccare  c si  udire. 

Tanto  n'  ha  sempre  avversati  Giunone, 
Che  del  seme  di  Cadmo  solo  Arcita 
N’è  conosciuto,  e tu,  o Palemone: 

Or  mi  conviene  angosciosa  partita 
Da  le  parente  amico  e compagnone 
Far;  po’  le  place  ancora  alla  mia  vita 
Essere  invidiosa,  chè  potrà 
Pur  contentarla,  s’ella  lo  volea. 

In  quella  entrata,  eh’  io  doveva  fare. 
Ad  esser  degli  suoi  raccomandato 
Fa  ella  il  mondo  lieto  a me  lasciare. 
Per  congiungermi  a’  nostri  primi  andati  : 
Or  m’avess’ella  pur  lasciato  entrare 
Per  tre  giornate  ne’  suol  disiati 
Luoghi , ed  appresso  in  pace  avrei  sofferto 
Ch'ella  m’avesse  morto,  ovver  deserto. 

Non  l' è piaciuto, ed  io  non  posso  avanti: 
Dunque  tu  solo , che  a me  se’  rimaso 
Del  sangue  altiero  degli  avoli  tanti 
Quando  verranne  il  doloroso  caso 
Ch’io  lascierò  la  vita  c I tristi  pianti. 
Gli  occhi,  la  bocca  e l'anelante  naso, 
Priegoli  che  mi  chiuda,  e faccia  ch’io 
Tosto  trapassi  d'  Acheronte  11  rio. 

E perchè  tu,  siccom’io,  amato 
Hai  lungamente  Emilia  graziosa, 
lo  ito  Teseo  a mio  poter  pregato 
Che  la  ti  doni  per  eterna  sposa: 

Fregoli  che  da  tc  non  sia  negato, 
Perchè  tu  sappi  clic  di  me  piatosa 
Ella  sia  stata , ed  a me  porti  amore , 
Ch’ella  ha  suo  dover  fatto  e suo  onore. 

E giuroti  per  quel  mondo  dolente , 

Al  qual  io  vado  sanza  ritornata, 

Che , a dir  vero , giammai  al  mio  vivente 
Di  lei  nluna  cosa  l'  ho  levata, 

Se  non  forse  alcun  bacio  solamente; 
Sicché  tal  è qual  tu  te  1'  bai  amala  : 


TESEIDE. 


Onde  11  prego,  per  tua  cortesia. 

Che  lu  la  premia  c che  cara  U sia. 

E lei  con  quell' amor  che  tu  solevi 
Portarle  più  che  a nulla  creatura , 

S' egli  era  vero  ciò  che  mi  dicevi , 

Onora  e guarda,  e si  d’oprar  procura, 
Che  ’l  tuo  valore  usato  si  rilevi 
A ricrear  la  nostra  faina  oscura , 

Per  lo  dolente  seme  eh' è gii  spento, 
S'a  rilevarlo  non  dai  argomento. 

Certo  questa  è manifesta  cagione 
Che  daschedun  dell’  operato  affanno 
Ricever  debbe  degno  guiderdone  : 
Dunque  sari  per  merito  del  danno 
Che  hai  già  avuto,  c disconsolazione , 
Cora' io  lo  so,  e molti  ancor  lo  sanno, 
Ricever  lei , che  credo  più  clic  ’l  regno 
Di  Giove  l'avrai  cara,  e Senne  degno. 

E s'clla  forse,  per  la  morte  mia, 
Piatosa  desse  alcuna  lagrimctta, 

Si  la  raccheta  che  contenta  sia  ; 
Perocché  la  sua  vista  leggiadretla 
Fati’  ha  l’ anima  mia  di  lei  si  pia , 

Che  ’l  rìso  suo  più  me  che  lei  diletta, 
E cosi  ’l  pianto  suo  più  me  contrista: 
Onde  io  mi  cambio  com’è  la  sua  vista. 

In  questa  guisa,  se  l’anima  sente 
Po’  la  morte  del  corpo  alcuna  cosa 
Di  queste  qua’,  tra  la  turba  dolente 
Andrà  con  più  di  ardire  c men  dogliosa  : 
E questo  detto , più  oltre  niente 
Allora  disse  : donde  con  piatosa 
Sembianza  e voce  appresso  Palcmone 
Incominciò  cosi  fatto  sermone: 

0 luce  eterna,  orrevole  splendore 
Del  nostro  sangue,  poderoso  Arcita, 
S’eglì  non  è in  te  spento  il  valore 
l'salo,  aiuta  la  tua  cara  vita 
Con  conforto,  sperando  che  ’l  Signore 
Del  ciel  soccorre  a chi  sè  stesso  aita  : 
Nè  far  ragione  che  in  giovine  etadc 
Antropos  ora  pigli  polestade. 

Cessi n gl'  Iddìi  che  io  1'  ultimo  sia 
DI  tanto  sangue , se  tu  te  ne  vai , 

Nè  ebed  Emilia  mai  diventi  mia  : 

Tu  1*  acquistasti , e tu  per  tua  l' avrai  ; 
Nè  1*  uffizio  che  chiedi  fatto  fia 
Colla  mia  man , per  mia  voglia  giammai , 
Ma  la  tua  prole  c tu  gli  chiuderete 
A me,  che  sopra  me  vivi  sarete. 

Arcita  disse  : E’  fte  come  io  t'  ho  detto  : 
Il  che  se  awien , ti  prego  quanl’  lo  posso, 
Che  ’1  mio  disio  in  ciò  mandi  ad  elTclto , 


E questo  sia , ogni  altro  affar  rimosso  : 
Cosi  disio,  cosi  mi  Se  diletto, 

Cosi  d' ogni  gravezza  sarò  scosso  : 

E quinci  tacquon  tutti  due  piangendo, 
E chi  ivi  stava  ancor  pianger  facendo. 

A colai  pianto  Ippolita  piacente 
Vi  sopravvenne  ed  Emilia  con  lei; 

E quando  vidon  si  platosamente 
Pianger  gii  Achìvi  c gli  duci  dlrcel, 

D’  Arcita  dubitarono,  e dolente 
Ciascuna  domandò  li  re  lcrnei  : 

Cheti  era  ciò  che  i due  Teban  plangeano, 
E tutti  loro  ancor  pianger  faceano. 

E fu  lor  detto  : onde  ognuna  di  loro 
Più  ad  Arcita  si  fecero  appresso, 

E cominciaron , sanza  alcun  dimoro , 

A ragionar  di  più  cose  con  esso. 

Ed  a dargli  conforto  con  costoro 
Insieme,  ch'cran  il  venuti  adesso; 

Ed  egli  alquanto  prese  d'allegrezza. 
Poiché  d’Emilia  vide  la  bellezza. 

E poi  eh’  Arcita  1’  ebbe  rimirata 
Con  occhio  attento,  siccome  potea. 

Ed  ebbe  bene  in  sè  considerata 
La  gran  bellezza  che  la  donna  avea, 
Cominciò  con  sembianza  trasmutata 
A parlare  in  tal  guisa  qual  potea, 
Premessi  avanti  dolenti  sospiri , 

Caldo  ciascun  d'  amorosi  disiri  : 

Piangerai  amor  nel  doloroso  core 
I A , onde  morte  a forza  il  vuol  cacciare  ; 
Nè  vi  può  star,  nè  uscirne  può  egli  fuore, 
Siedi’ io  lo  sento  In  me  rammaricare 
Con  pianti,  e con  parole  di  dolore 
Accese  più  che  non  potrei  narrare  : 

In  forma  che  di  sè  mi  fa  platoso. 

Ed  ohimè , lasso , oltre  11  dover  noioso. 

Gli  spiriti  vi  sono,  e assai  sovente 
Mostrano  a lui  l’angelica  llgura, 

Per  la  qual  esso  nel  core  è possente , 
Dicendo  : Deh  fia  tal  nostra  sciagura, 
Che  ci  convenga  teco  Insiemementc 
Abbandonar  si  nobll  creatura? 

Esso  risponde  lor,  e si  gli  abbraccia. 
Dicendo  : Si , die  morte  me  ne  caccia. 

Io  me  ne  vo  coll'  anima  smarrita , 

La  qual  io  presi  col  piacer  di  quella 
Che  da  voi  è nel  mondo  più  gradita; 
Dunque  nelle  sue  man  ricevami  ella 
Quando  farò  la  dogliosa  partita 
Dalla  presente  vita  taplnella  : 

E questo  detto  , forte  lagrimando , 
Abbassò  gli  occhi  In  terra  sospirando. 


6 POEMI 

Queste  parole  gii  angelici  aspetti 
Di  quelle  donne  conturbaron  molto, 

E con  dolore  offendevano  I petti 
Dilleati , in  maniera  che  nel  volto 
Si  parie  loro  : e ben  sentlano  i detti 
Quali  erano , e che  fosse  in  lor  raccolto , 
E ben  f occulta  morte  conoscano 
Nel  viso  a lui  che  già  veniva  meno. 

Perchè  Emilia  disse  : 0 signor  mio , 
Poscia  che  tu  del  viver  ti  disperi , 

Deh  di  me , lassa , come  fard  lo  ? 

1'  ne  verrò  con  teoo  volentieri  ; 

E già  questo  appetisce  il  mio  disio  : 
Perch’  lo  non  che  fuor  di  te  mi  speri  : 
Tu  solo  eri  il  mio  ben , tu  la  mia  gioia , 
E sansa  te  non  spero  altro  che  noia. 

A cui  rispose  Ardta  : Delia  amica. 
Prendi  conforto  del  mio  trapassare. 

Non  prender  nel  tuo  animo  fatica. 

Ma  per  amor  di  me  di  confortare 
Ti  piacda  : se  giammai  cosa  eh’  io  dica 
Intendi  nel  futuro  adoperare, 

I’  ho  trovalo,  a tua  consolazione. 

Modo  assai  degno  e con  giusta  ragione. 

Palemon  caro  e stretto  mio  parente 
Non  mcn  di  me  t'  ha  lungamente  amata , 
E per  lo  suo  valor  veracemente 
£ più  degno  di  me  die  tu  isposata 
Gli  sia;  e questo  vede  tutta  gente) 

Chè  posto  die  vittoria  a me  donata 
Fosse  l’altr’ier,  non  fu  già  dirittura. 
Ma  solo  fu  la  sua  disavventura. 

Di  che  gl’  Iddìi  errarono,  e per  certo 
Credetter  lui  alare,  e me  alaro; 

Ma  po’  che  ’1  loro  error  fu  discoperto , 
Ciò  che  avien  fatto  indietro  ritornalo, 

E me  recaro  a cosi  fatto  merlo; 

Il  qual  or  piango  con  dolore  amaro , 
Acciocché  tu  ti  rimanessi  ad  esso. 

Coni’  essi  avien  diliberato  appresso. 

Ed  io  che  tu  sia  sua  me  ne  contento 
Più  che  d'altrui,  poicb'esser  non  puoi  mia  : 
Ferma  in  lui  dunque  il  tuo  intendimento , 
E quel  pensa  di  far  ch'egli  disia; 

Ed  io  son  certo  eh'  ogni  piadmento 
Di  te  per  lui  sempre  operato  Ha  : 

Egli  £ gentile,  bello  e grazioso. 

Con  lui  avrai  diletto  e si  riposo. 

Io  muoio,  c già  mi  sento  intorno  al  core 
Quella  freddezza  ebe  suole  arrecare 
Con  seco  morte  ; ed  ogni  mio  valore 
Sanza  alcun  dubbio  i'mi  sento  a mancare, 
Però  quel  che  ti  dico,  per  amore 


EROICI. 

Farai  ; po’  più  non  posso  teco  stare  : 

I Fati  t'  hanno  riserbata  a lui  : 

Me'  sarai  sua , non  saresti  d' altrui. 

Ma  non  pertanto  l'anima  dolente. 

Che  se  ne  va  per  lo  tuo  amor  piangendo , 
TI  raccomando,  e pregoti  che  a mente 
Ti  sia  tutt’  ora , mentre  eh'  lo  vivendo , 
Qui  starà  sotto  del  bel  del  lucente , 

A te  contenta  la  verrò  caendo  : 

Io  me  ne  vo , nè  so  se  tu  verrai 
Là  dove  1*  sla,  eh’i’  tl  riveggia  mal. 

Gli  ultimi  bad  solamente  aspetto 
Da  te , o cara  sposa , I qua'  mi  del  ; 

Tl  prego  molto  ; questo  sol  diletto 
In  vita  ornai  attendo , ond’  Io  gire! 
Isconsolato  con  sommo  dispetto , 

Se  non  avessi , e ma’  non  oserei 
Gli  occhi  levar  tra’  morti  Innamorali , 

Ma  sempre  gli  terrei  fra  lor  bassati. 

Fatti  erano  1 begli  occhi  rilucenti 
D' Emilia  due  fontane  tagrimando , 

E fuor  gittando  sospiri  cocenti , 

Del  suo  Arcita  il  parlare  ascoltando  : 

E ben  vedeva  per  chiari  argomenti 
Che , com'  egli  dlcca , venia  mancando  ; 
Perch’ella  in  boce  rotta  ed  angosciosa 
Cosi  rispose  tutta  lagrimosa  : 

O caro  sposo  a me  più  che  la  vita , 
Non  verso  te  sono  crucciati  1 DII  : 
lo  sola  son  cagion  di  tua  partita  : 

10  nocevole  sono  a'  tuoi  disii. 

Gl’  Iddei  vecchia  Ira  incontro  a me  nutrita 
Han  ne'  lor  petti , come  già  sentii , 

I qua'  del  tutto  lo  mio  matrimonio 
Negano , ed  1’  ne  veggio  testimonio. 

11  gran  Teseo  m’avca  serbata  a Acate, 
Col  quale  giovinetta  lo  mi  crescea  : 

Belio  era  e fresco  nella  nuova  etate, 

E nelli  primi  amori  assai  placea 
A me  : ma  la  mal  nata  cruddtate , 

Che  ha  contro  il  nostro  sangue  Citerea , 
Nel  tolse,  già  al  maritar  vicina, 

Bcncbed  io  fossi  ancora  assai  fantina. 

Questa  non  sazia  dd  primo  operare 
Contra  di  me,  or  te  veggendo  mio, 
Slmilemeute  mi  tl  vuol  levare  : 

Adunque  non  l' uedde  altri  che  io  ; 

Io , lassa , colpa  son  del  tuo  passare  : 

11  mio  augurio  tristo  e '1  mio  disio 

Ti  noccioo,  lassa,  ed  lo  rimango  in  pene 
Ed  in  tormento , non  qual  si  contiene. 

0 mè  1 sopra  di  me  ne  andasse  l' ira 
Ched  altri  nuoce,  per  la  mia  bclleiza  : 


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TESEIDE. 


Che  colpa  ci  ha  colui  che  me  disira , 

Se  la  spietata  Vener  mi  dispreizai 
Perchè  ora  coutra  te  diventa  dira  7 
Perchè  or  In  te  discopre  sua  fierezza  ? 
Maledetta  sia  l' ora  eh’  io  fui  nata , 

Ed  a te  prima  fui  appalesata. 

E bello  Arcita  mio , sanza  ragione 
Orfoss’io  morta  il  di  che  in  questo  mondo 
Venni , poi  ti  doveva  esser  cagione 
Di  morte , e torli  di  stalo  giocondo  : 
Donde  giammai  sentir  consolazione 
Non  credo  in  me , ma  sempre  di  prorondo 
Cor  mi  dorrò  dopo  la  tua  partita. 

Se  dietro  a te  rimarrò,  caro  Arcita. 

Ora  conosco  i dolorosi  ardori 
Che  oscuri  mi  mostrò  l’altr’  ier  Diana  : 
Or  so  qual  fosse  P aria  che  di  fuori 
N’  usci  con  vista  c con  voce  profana , 

E quel  che  della  fiamma  li  furori 
A me  mostravan  con  mente  non  sana  : 
Chè  se  allora  conosciuti  gii  avessi , 

Non  credo  come  stai , tu  ora  stessi. 

lo  mi  sarei  dolorosa  parata 
A te  allora  che  al  teatro  ne  gisti , 

E di  pìatà  d'amore  colorata 
Avrei  voltati  gli  tuoi  passi  tristi , 

E la  dolente  battaglia  (sturbata. 

Per  la  qual  morte  per  me  ora  acquisti  : 
Ma  io  non  gli  conobbi  ; anzi  sperai 
Tutto  ’l  contrario  di  ciò  che  tu  bai. 

Or  più  non  posso  ; onde  morrò  dogliosa  ; 
Nè  so  veder  chi  di  morir  mi  tiene. 
Vedendo,  o sposo,  tua  vita  angosciosa 
Istar  per  me , ed  in  cotante  pene  ; 

Oh  me  disventurata,  dolorosa. 

Quanto  mal  vidi , e tu  si  ancora  Atene , 

E quanto  mal  per  te  mi  riguardasti 
Il  giorno  che  di  me  t’innamorasti. 

Ohimè  che  I fiori , I quali  allor  coglieva, 
E ’l  canto , anzi  fu  pianto , eh*  io  cantava , 
Erinni , o lassa , tutto  ciò  moveva  ; 

Ed  io  il  sentii , che  talora  tremava 
Pallida , e la  caglon  non  conosceva , 

Nè  le  future  cose  immaginava  : 

Or  le  conosco , chè  son  nel  periglio , 

Nè  posso  porre  ad  esse  alcun  consiglio. 

Ed  ora , caro  sposo , mi  comandi 
Che  tu  mancato , i'  prenda  Palemone  1 
Certo  le  tue  parole  mi  son  grandi , 

E debbo  quelle  per  ogni  ragione 
Servar , più  che  gli  eccelsi  c venerandi 
Iddìi  ch'ora  m’oOendon,  nè  cagione 
Non  a’  hanno;  ed  io  cosi  le  scrveraggio 


In  quella  guisa  ched  io  ti  diraggio. 

Io  so  che  Palemon  m'  ha  tanto  amata 
Quant'  uom  gentil  nessuna  donna  amasse  ; 
Di  che  io  non  gli  voglio  essere  ingrata , 
Ed  eziandio  se  Giove  il  comandasse  ; 
Chiaro  conosco  che  a chiunque  data 
Fossi,  sed  esso  di  grazia  abbondasse 
D’ ogni  vivente , eh'  io  nei  priverei , 
Tanto  gli  augurj  miei  conosco  rei. 

E s' or  a te  son  io  cagion  di  morte 
E ad  Agate  fui,  l'aver  nociuto 
Al  mondo  tanto  assai  gravosa  sorte 
M' è a pensar  ; nè  quinci  spero  aiuto 
Che  possa  sostener  mia  vita  forte , 

Che  poi  Io  spirto  suo  sarà  partilo 
Che  dietro  a te , per  soperchio  dolore , 
lo  non  venga  seguendone  il  tuo  amore. 

E se  pur  fia  la  mia  disavventura 
Di  vivere  oltre  a te,  non  vo' donare 
A Palemone  della  mia  sciagura, 

Là  dove  esso  per  fedele  amare 
Ila  meritato;  ma  sola  mia  cura 
Ne’  boschi  Ile  Diana  seguitare , 

E ne’ suoi  tempj  vergine  vestita 
Serverò  sempre  mal  celibe  vita. 

E se  Teseo  vorrà  pur  ched  i'  sia 
D' alcuno  isposa,  agli  nimici  sui 
Mi  mandi , acciò  che  la  sciagura  mia 
Ad  essi  noccia,  e sia  utile  a lui  : 
Palemone  è poi  tal , che  s’  e’  desia 
D'avere  isposa,  troverà  egli  altrui 
Che  gii  sarà  più  non  sare'  1’  felice  : 

Ciò  manifesto  puro  11  cor  mi  dice. 

Gli  stremi  baci , omè , gii  qua'  dolente 
MI  cerchi,  ti  darò  volonterosa, 

E prenderogli  ancora  parimente 
A mio  poter,  dopo  gli  qua’ mai  cosa 
Non  fia  eh’  lo  baci  più  certanamente  : 

E la  mia  bocca  sempre  come  sposa 
Dì  te  co’  baci , che  le  donerai , 
Guarderò,  mentre  in  vita  sarò  mai. 

E quinci  quasi  furiosa  fatta. 
Piangendo  con  altissimo  romore, 

Sopra  lui  corse  in  guisa  d’una  matta, 
Dicendo  : Caro  e dolce  mio  signore. 
Ecco  colei  che  per  te  fie  disfatta. 

Ecco  colei  che  per  te  trista  more. 
Prendi  gli  baci  estremi , dopo  1 quali 
Credo  finire  i miei  eterni  mali. 

E pose  11  viso  suo  In  su  quel  d’ Arcita , 
Pallido  già  per  la  morte  vicina. 

Nè  ’l  toccò  prima , eh’  ella  tramortita 
In  su  la  faccia  cadde  risupina  : 


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g POEMI 

Ma  poi  appresso  si  fu  risentila, 
Piangendo  cominciò  : Orni'  tapina, 

Son  questi  i baci  i quali  io  aspettava 
Da  Arcita,  il  qual  vie  più  die  me  amava? 

Alle  nemiche  mie  cotal  baciare, 

0 disputali  Iddìi,  sia  riserbato. 

Arcita,  che  nei  elei  esser  gli  pare , 
li  bianco  collo  teneva  abbracciato , 
Dicendo  : Mal  non  credo  mal  andare , 
Tal  viso  essendo  al  mio  ora  accostato  : 
Qualora  piace  ornai  all’  alto  Giove , 

Di  questa  vita  mi  tramuti  altrove. 

Quivi  era  si  gran  pianto  c si  doglioso 
Di  donne,  di  signori  c d'altra  gente. 
Che  vedean  questo  ; onde  ciascun  piatoso 
Era  assai  più  elio  di  stretto  parente  : 
Che  non  si  crede  si  fosse  noioso 
Allor  che  Febo  si  mostrò  dolente , 
Tornando  addietro  nel  tempo  che  Atreo 
Mangiar  i figli  ai  suo  Tieste  fco. 

Ed  essa  allora , siccom'  esso  volle , 

E come  volle  Ippolita,  drizzossl, 

E sé  e lui  aveva  tutto  molle 
Di  lagrimari  da’  begli  occhi  mossi , 

Nè  più  nè  men  come  il  Menalo  colle 
Quando  che  per  Ariete  riscaldossi, 

E consumala  sua  veste  nevosa. 

Mostrò  la  faccia  sua  tutta  guazzosa. 

E quel  di  lutto  quanto  si  posare, 
Sanza  più  rinnovare  altro  dolore; 
Benché  nel  cor  l’avessono  si  amaro, 
Quanto  potea  esser  più  a tulle  l’ore  : 

E con  parole  assai  riconfortare 
Emilia  c Arcita , e ’l  corrotto  furore 
Lor  temperare  con  soavi  detti , 

Lena  rendendo  a*  disolati  petti. 

Nove  fiate  s' era  dimostrato 
li  Sole,  ed  altrettante  sotto  l'onde 
D'Esperia  s’era  col  carro  tulfato, 

Po'  si  mutare  le  cose  gioconde 
Per  lo  cader  d’ Arcita  in  tristo  stato, 
Quando  nel  tempo  che  tutto  nasconde, 
D’Emilia  avendo  il  di  I baci  avuti. 

Parlò  Arcita  a'  suoi  più  conosciuti  : 

Amici  cari,  lo  me  ne  vo  di  certo, 
Perchè  a Mercurio  vorrei  pur  litare. 
Acciò  ched  esso,  per  si  fatto  merlo. 

In  luogo  ameno  piacciagli  portare 
Lo  spirto  mio,  po’  che  gli  Qa  offerto; 

E vorrei  questo  domattina  fare  : 

Però  vittime  degue  ed  olocausti 
Ne  parccchiate  a lui  decenti  e fausti. 

Palemon  eh’  era  a questo  dir  presente 


EROICI. 

Come  quel  che  da  lui  non  si  partia , 

Fe'  apprestar  tutto  ciò  Immantenente 
Ched  a cotal  mesticr  si  convenla  ; 

E sangue  e latte  nuovo  di  bidente 
Gregge,  ed  armenti,  quali  all’ara  pia 
Si  richiedcan  di  cosi  fatto  Iddio, 

Per  adempire  d’ Arcita  il  disio. 

Il  giorno  venne  oscuro  e nuboloso, 

E questi  Febo  s’avea  messo  avanti 
Al  viso,  acciocché  al  morire  angustioso 
D'  Arcita  non  vedesse  i tristi  pianti 
D'Emilia  bella,  de' qua’ assai  piatoso 
Si  mostrò  il  giorno , gli  suoi  luminanti 
Raggi  celando  in  fra  le  nebbie  iscure, 
Vedendo  chiaro  le  cose  future. 

Allora  l'ara  fu  apparecchiata, 

E'  fuochi  accesi,  e gl’incensi  donati, 

E ciascun’  altra  offerta  a ciò  portata, 

E'  sacerdoti  versi  ebber  cantati 
Con  voce  assai  tra  l' altre  trasmutata , 

E fumi  furon  tutti  a’  cieli  andati  : 
Arcita  piano  cominciò  egli  a dire 
In  guisa  tal  che  si  potette  udire  : 

0 caro  Iddio  di  Proserplna  figlio , 

A cui  l’ anime  sta  di  là  portare 
De’  corpi , e quelle , secondo  il  consiglio 
Che  da  te  prendi , le  puoi  allegrare  ; 
Piacciati  trarnil  di  questo  periglio 
Soavemente  per  le  tue  sante  are , 

Le  quali  ancora  calde  per  me  sono, 
Chè  a te  su  quelle  offersi  eletto  dono. 

E quinci  mene  tra  l' anime  pie. 

Le  qua’  sono  in  Eliso , mi  trasporta  ; 
Chè  se  tu  miri  ben  l’ opere  mie. 

Non  hanno  fatto  me  dell'aura  morta 
Degno , siccome  furon  1’  alme  rie 
De'  miei  maggiori , a qua’  crudele  scorta 
Fece  Giunone  adirata  con  loro, 

Con  ragion  giusta  a lor  donando  ploro. 

Io  non  uccisi  il  sagrato  serpente 
Alialo  a Marte  ne’  campi  dlrcei, 

Come  fe'  Cadmo  della  nostra  gente 
Avol  primario  ; nè  nell!  baccci 
Sagriflci  tolsi  fieramente 
La  vita  ai  mio  figlluoi,  come  colei 
Che  dopo  li  danno  riconobbe  il  fallo, 
Nè  potè  poi  con  lagrime  emendano. 

Nè  siccome  Semclc  in  ver  Giunone 
Mai  operai , nè  si  come  Atamante 
Contra  la  prole  divenni  fellone  : 

Nè  uccisi  il  padre  mio , e non  amante 
Della  mia  madre  fui,  la  nazione 
Nel  sen  materno  indietro  ritornante 


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TESEIDE. 


Siccome  Edippo  ; ni  i miei  fratri  uccisi , 
Nè  mai  regno  occupai , nè  mal  commisi. 

Nè  di  Creonte  1‘  aspra  crudeltate 
Mi  piacque  mai , nè  mai  altrui  )'  usai  : 

E s' arme  furon  giè  per  me  pigliate 
Incontro  a Pale  mori , male  operai , 

Ed  io  ben  ho  le  pene  meritate  : 

Ma  certo  i’  non  le  aerei  prese  giammai , 
Sed  esso  non  mi  avesse  a ciò  recato  ; 
Pere  li’  era  siccom'  io  innamorato. 

Dunque  tra  neri  spiriti  non  deggio, 
Piatoso  Iddio,  a quel  eh'  io  creda,  andare  : 
lo  del  elei  non  son  degno,  ed  io  noi  cheggio, 
M è negli  Elisi  caro  sol  di  stare  : 

Di  ciò  ti  prego , e di  ciò  ti  riclieggio , 
Sed  esser  può  che  tu  mel  debba  fare  : 
So  che’l  farai,  se,  come  suo',  se’  pio, 

E come  credo , venerando  Iddio. 

Detto  eh'  ebbe  cosi , con  più  dogliosa 
Voce  parole  mosse , dove  stava 
Ippolita  ed  Emilia  valorosa, 

E i greci  re  e ciascuno  l' ascoltava , 

E Palcmon  con  anima  angosciosa 
Tanto  del  tristo  caso  gli  pesava  : 

Ed  esso  con  parola  vinta  e trista 
Disse  cosi  con  dolorosa  vista  : 

Or  mancherà  la  vita , ora  il  valore 
D'Arcita  finirà,  ora  avrà  fine 
V acerbo  inespugnabile  suo  amore  ; 

Ora  vedrà  d’ Acheronte  vicine 
la:  triste  ripe , ora  saprà  il  furore 
Delle  nere  ombre,  misere  tapine; 

Ora  se  ne  va  Arcita  Innamoralo 
Del  mondo  a forza  isbandito  c cacciato. 

Oh  lasso  me,  che  l’età  giovinetta 
Lascio  si  tosto , alla  quale  sperava 
Ancor  mostrar  dov'è  virtù  perfetta; 

Tale  speranza  l’ardir  mi  mostrava  : 

Oraè  che  troppo  la  Morte  s' affretta , 

E più  che  in  nessun  altro  in  me  è prava  : 
In  me  si  sforza , in  ver  me  la  sua  ira 
Mostra  quant'  ella  puotc  c mi  martira  : 

Dov'è,  Arcila,  la  tua  forza  fuggita? 
Dove  son  l'armi  già  cotanto  amate? 
Come  non  le  hai , per  la  dolente  vita 
Dalla  morte  rampare,  ora  pigliate? 

Oimè  ch’ella  s'  è tutta  smarrita, 

Nè  più  potricn  da  me  esser  guidate  : 
Perchè  ornai  io  me  le  rendo , o lasso , 

E per  piò  non  poter  oltre  trapasso. 

.0  bella  Emilia,  del  mio  cor  disio, 

0 bella  Emilia,  da  me  sola  amata, 

0 dolce  Emilia , cuor  del  corpo  mio , 


Ora  sarai  da  me  abbandonata  : 

Oimè  lasso , non  so  mai  quale  Iddio 
In  ciò  mi  noccia  con  voglia  turbata  : 

Chè  per  te  sola  m'è  noia  il  morire, 

Per  te  non  sarò  mai  sanza  languire. 

Deh  che  farò  io  allora  che  vedere 
Più  non  potrottl , donna  valorosa  ? 
Seconda  morte  non  potrò  lo  avere , 
Benché  la  cheggia  per  men  dolorosa  : 

Nè  so  ancora  che  luogo  mi  tenere 
Debba  di  là  nella  vita  dubbiosa  : 

Ma  se  con  Giove  sanza  te  mi  stessi. 

Non  credo  che  giammai  gioia  n'avessi. 

Dunque  angoscia  n'avrò  dovunque  irag- 
Sempre  sanza  di  te,  mia  luce  chiara:  [gio 
Nè  egli  mi  sarà  il  secondo  viaggio 
A qui  tornar  concesso,  o donna  cara, 
Come  Pcleo  dal  suo  slgnoraggio 
Già  mel  concesse , allora  ched  amara 
Vita  traeva  in  Egina,  lontano 
Dal  suo  voler,  bella  donna , sovrano. 

Lagrime  sempre  ed  amari  sospiri 
Ornai  attende  l’ anima  dolente 
Per  giunta,  lasso,  alli  nuovi  martìri. 
Ch’avrò  io  forse  ili  tra  la  morta  gente; 
Gli  qua'  tanti  non  fien,  che  i mici  distri 
DI  te  veder  faccian  cessar  niente  : 

Ma  sempre  te  nell'eterna  fornace 
Per  donna  chiamerò  della  mia  pace. 

Oimè  dove  lascio  io  i cari  amici  ? 

Dove  le  feste  ed  il  sommo  diletto? 

Ove  I cavalli , ornai  fatti  mendlcl 
Del  lor  signore?  ove  quel  ben  perfetto 
Che  amor  mi  dava , qualora  i pudici 
Occhi  d’ Emilia  vedeva  e l’ aspetto  ? 

Ed  ove  lascio  Palemon  grazioso 
Meco  d'amor  parimente  focoso? 

E Pcritoo  ancor,  cui  similmente 
Più  che  la  vita  con  ragione  amava? 

Ove  li  regi , c l' altra  buona  gente 
Che  loro  a’ miei  servigi  seguitava? 

Ove  Teseo,  nobll  signor  possente, 

Che  più  che  caro  frate!  mi  onorava? 

Or  dove  lascio  li  reverendo  Egeo  ? 

Dove  il  mio  caro  c buon  signor  Peleo? 

Certo  gli  lascio  dove  rimanere , 

S’ esser  potesse , vorrei  volentieri , 

In  giuoco,  In  festa,  in  riso  ed  in  piacere. 
Con  principi , con  donne  c cavalieri  : 
Sicché  del  rimaner  di  lor  mestieri 
Non  m'è  dolermi;  ma  sol  mi  son  fieli 
Gli  aspri  pensier,  clic  a me  ne  mostran  tanti 
Perder  dovere , e me  e tutti  quanti. 


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10  POEMI 

Poscia  ch’egli  ebbe  queste  cose  dette, 
Di  cor  giltò  un  profondo  sospiro 
Amaramente,  e di  parlar  ristette; 

E In  verso  Emilia  I suoi  occhi  s’ aprirò, 
Mirando  lei , e mirandola  stelle 
Un  poco,  e poscia  gli  rivolse  in  giro  : 

E ciascun  vide  che  piangeva  forte. 
Perocché  a lui  s’ appressala  la  morte. 

La  quale  In  ciascun  membro  era  venuta 
Da’  piedi  in  su , venendo  verso  11  petto , 
Ed  ancor  nelle  braccia  era  perduta 
La  vital  forza;  sol  nello  Intelletto 


EROICI. 

E nel  cuore  era  ancora  sostenuta 
La  poca  vita , ma  gli  sì  ristretto 
Eragli  *1  tristo  cor  del  mortai  gelo, 

Che  agli  occhi  fe'  subitamente  velo. 

Ma  po’  ch’egli  ebbe  perduto  il  vedere. 
Con  seco  cominciò  a mormorare , 

Ognor  mancando  più  del  suo  podere  : 

Né  troppo  fece  in  dò  lungo  durare; 

Ma  il  mormorare  trasportato  In  vere 
Parole , con  assai  basso  parlare , 

Addio  Emilia!  e più  oltre  non  disse, 

Ché  l’anima  convenne  si  partisse. 

(Canto  X.) 


FAZIO  DEGLI  UBERTI. 


D1TTAM0ND0 

LIBRO  PRIMO. 


CAPITOLO  I. 

Non  per  trattar  gli  affanni,  di'  io  soffersi 
Nel  mio  lungo  cainmiu , né  le  paure, 

Di  rima  in  rima  tesso  questi  tersi  ; 

Ma  per  voler  cantar  le  cose  oscure , 
Ch'io  vidi , ch’io  udii , che  son  si  nuove, 
Che  a creder  pareranno  forti  e dure. 

E se  non  che  di  ciò  son  vere  prove 
Per  più  e più  autori , che  saranno 
Per  i miei  versi  nominati  altrove. 

Non  presterei  alla  peuna  la  mano 
Per  notar  ciò , eh’  io  vidi , con  temenza 
Perché  non  fosse  da  altri  casso  e vano  ; 

Ma  la  lor  chiara  e vera  esperienza 
MI  assicura  nel  dir,  come  persone 
Degne  di  fede  ad  ogni  gran  sentenza. 

Di  nostra  eli  sonda  già  la  stagione , 
Che  all’anno  si  pon  poi  che  il  sol  passa 
In  fronte  a virgo , e che  lassa  il  leone  ; 

Quando  m'accorsi  eh' ogni  vita  è cassa, 
Salvo  che  quella , che  contempla  Iddio , 

‘ La  natura  di  questo  poema  é assai  poco 
determinata  ; alcuno  il  chiamò  didascalico, 
ma  pih  che  altra  cosa  egli  è narrativo , e 


0 che  alcun  pregio  dopo  morte  lassa. 

E questo  fu , onde  accesi  il  desio 
Di  volermi  affannare  in  alcun  bene, 

Clic  fesse  frutto  dopo  il  tempo  mio. 

Poi  pensando  nel  qual , fermai  la  spene 
D’ andar  cercando  e di  voler  vedere 
Lo  mondo  lutto , e la  gente  eh’  ei  dette  ; 

E di  voler  udire  e di  sapere 
Il  dove  e come  e chi  furo  coloro 
Che  per  virtù  cercar  più  di  valere. 

E imaginato  il  mio  grave  lavoro. 
Drizzai  i piè , come  avea  il  pensiero , 

E cercai  del  cantatiti  senza  dimoro. 

lo  era  ancor  dentro  dal  mal  sendero , 
Per  lo  quai  disvialo  era  ilo  adesso , 

Con  gli  occhi  cliiusi , e l’ animo  leggero. 

Onde  al  partir  si  mi  pungevan  spesso 
Gli  andehi  pruni , che  come  uotn  stanco 
Mi  sedei  tra  più  fior,  che  m'eran  presso. 

Basso  era  il  sol,  che  s'accendca  nei  fianco 
Del  montone , onde  io  per  più  riposo 
Tutto  mi  stesi  sopra  il  lato  manco. 

Poscia  m' addormentai  cosi  pensoso  , 

però  il  poniamo  fra  i poemi  eroici  ai  quali 
lo  accosta  altresì  )a  continua  dignità  delle 
idee  • dello  stile. 


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DlTT  AMONDO. 


Ed  appartemi  cose  nel  dormire, 

Per  ch'io  alla  mia  Impresa  fui  più  oso. 

Chè  una  donna  vedea  ver  me  venire 
Con  l’ale  aperte,  si  degna  ed  onesta, 
Che  per  esemplo  appena  il  saprei  dire. 

Bianca , qual  neve  par,  avea  la  vesta  ; 
E vidi  scritto  in  forma  aperta  e piana 
Sopra  una  coronetta,  che  avea  In  testa  ; 

lo  son  Virtù,  per  cui  la  gente  umana 
Vince  ogni  altro  animai;  io  son  quel  lume. 
Che  onora  il  corpo , e che  1*  anima  sana. 

Molte  donne,  aleggiando  in  varie  piarne. 
Si  vedean  tranquillar  ne’ suoi  splendori, 
Come  pesci  d’estate  in  chiaro  fiume. 

E giunta  sopra  me,  tra  quei  bei  fiori , 
Parca  dir  : Non  giacer,  anzi  sta  suso, 

E il  tempo,  ch’hai  perduto,  si  ristori. 

Non  più  restare  In  questo  bosco  chiuso, 
Non  più  cercar  di  su  la  mala  spina 
Coglier  la  rosa , siccome  se’  uso. 

Pensa,  che  qual  più  là  giù  peregrina, 
Da  poi  che  giunge  all’  ultimo  di  suo , 

11  lutto  gli  par  mcn  d’ima  mattina. 

E fame,  e sete,  e sonno  al  corpo  tuo 
Soffrir  convien , se  onore  c prò  desiì , 

E seguir  me,  che  qui  tcco  m’ induo. 

E guardar  ben , che  più  non  ti  desvii  : 
Pensa , si  come  1 compagni  d’ l’ilsse 
Fur  con  Circe,  onde  a pena  lo  li  partii. 

E pensa  ancor  come  perduto  risse 
Con  la  sua  Cleopatra  oltre  a due  anni 
Colui , a cui  ’l  Roman , prima  voi  disse. 

Onor  si  acquista  per  soffrire  affanni. 
Purché  l’affanno  sia  in  cosa  degna, 

E darsi  all’ozio  è vergogna  con  danni. 

Ancora  fa  che  sempre  U sovvegna 
Aver  di  sofferenza  buone  spalle , 

Siccome  Job  e Jacob  ne  insegna. 

Perchè  se  vuoi  veder  di  valle  in  valle 
11  mondo  tutto,  senza  lei  non  puoi 
Cercar  di  mille  il  ventesimo  calie. 

Qui  non  spiar  per  tema  1 fati  tuoi , 

Se  non  come  Catone  In  Libia  volse 
Chieder  responso , pregato  da’  suou 

Tutti  non  son  Papirio.  Indi  si  tolse, 

E spirò  nel  mio  petto,  e non  si  mosse; 
Onde  il  mio  sonno  appunto  si  disciolse. 

Come  la  sua  virtù  nel  cor  percosse. 


CAPITOLO  II. 

Dal  sonno  sciolto  e sviluppato  m’ era , 


Quando  udii  risonar  tra  verdi  rami 
La  dolce  melodia  di  primavera. 

Al  vago  canto  subito  voltami. 
Rimembrando  il  piacere , il  gran  valore . 
Per  Io  qual  già  soffersi  e seti  e fami. 

Qui  provai  io  il  ver,  che  poiché  amore 
S’ è barbalo  nel  core , a gran  fatica 
Si  può  schiantar,  che  non  germogli  il  fiore. 

Ma  pur  non  punse  si  la  dolce  ortica , 
Ch’  io  non  tornassi  a quel  desio  proposto, 
Del  qual  in  me  già  granava  la  spica. 

E , come  meco  fui  altresì  tosto , 

Tolsi  l’udir  da  quel  soave  canto. 

Tolsi  l’imaginar,  ch’io  v’avea  posto. 

E levai  gii  occhi , e vidi  che  già  tanto 
Era  alto  il  sol,  che  sopra  l’orizzonte 
Parca  salito  II  tauro  tutto  quanto. 

Poi  ritornai  verso  terra  la  fronte. 

Per  rimembrare  il  sogno , e le  parole 
Di  questa  donna  siccome  le  ho  conte. 

E chi  se  dò  mi  piacque  Intender  vuole. 
Pensi  quanto  fu  lieto  allor  Joseppo , 

Che  ’l  sogno  fc’  delia  luna  e del  sole. 

I’mi  levai  diritto  sopra  nn  ceppo. 

Per  divisar  qual  fosse  il  mio  cammino , 

E d’ ogni  parte  ni’  era  il  bosco  e il  greppo. 

E come  avvien  talora  ai  peregrino, 
Ch’ha  perduta  la  strada,  e che  non  vede 
Cui  dimandare,  nè  per  sè  è indovino; 

Che  ricorre  a quel  Ben , eh’  egli  ama  e 
E , con  pura  e devota  intenzione , [crede, 
E consiglio  e soccorso  gii  richiede. 

Cosi  mi  posi  allora  in  ginocchione , 

Le  mani  giunte , e con  fermo  desio 
Incominciai  colale  orazione  : 

0 somma , o prima  luce , o vero  Iddio, 
Che  in  Ararat  salvasti , e dirigesti 
L’ arca , c Noè , quando  ogni  altro  pedo  ; 

E il  popol  tuo  del  mare  a piè  traesti. 
Nutricando!  di  manna  infin  che  appresso 
Nella  terra  promessa  il  conducesti  ; 

E che  a Tobia  Rafael  per  messo 
E per  guida  mandasti , onde  pervenne 
A più,  che  il  padre  non  gli  aveva  coni* 
messo; 

E che  Abraam  salvasti,  quando  tenne 
Per  campar  Loto , dietro  degli  Siri 
Con  la  gran  fede , e con  le  poche  penne. 

Fa,  che  per  grazia  tanta  luce  spiri 
Dagli  occhi  tuoi  ne’  miei , che  scusa  velo 
Del  mondo  i’  scorga  tutti  quanti  i girl. 

Te  padre,  Invoco,  te  fattor  del  cielo 
Come  solean  gli  antichi  a sii» il  peso 


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POEMI  EROICI. 


li 

Chiamar  Apollo,  Jupiter,  e Belo. 

E come  l’ slava  al  prego  si  sospeso , 
Agli  occhi  un  lume  subito  m’apparve, 
Qual  par  balen,  che  vien  per  l’ acre  acceso. 

E giunto  altresì  tosto  via  disparve. 
Vero  è,  ch’esso  apparendo,  in  mia  presenza 
lina  voce,  che  disse,  udir  mi  parve  : 

Paura,  vanitate  e negligenza, 

Fa,  che  tu  sdegni,  ed  in  cui  pregiti,  spera, 
Se  vuoi , di  quel  che  brami , esperienza. 

Cosi  la  grazia  delia  somma  spera 
M' aperse  l’ intelletto  oscuro  e bruno , 
Confortando  la  donna , clic  quivi  era. 

E dove  pria  pur  era  bosco  e pruno, 
Vidi  si  sciolta  ed  aperta  la  strada, 

Ch’  i’  rendei  grazie  a Quel  eh’  è tre  ed  uno. 

0 vivo  amore  ! Come  cieco  bada , 

Qual  fugge  (e , e pone  sua  speranza 
Nei  ben  mondan,  che  son  men  clic  rugiada! 

Lettor,  pensa  per  te,  quanta  baldanza 
A seguir  la  mia  impresa  presi  allora, 
Chè  non  tei  saprei  dir  per  simiglianza. 

Su  mi  levai,  c più  non  fei  dimora, 

E trovai  me  a seguitar  la  voglia 
Tanto  legger,  che  me  ne  segno  ancora. 

Non  spino  ai  piè  , nè  anco  agli  ocelli  fo- 
M1  Iacea  noia , orni’  io  seguiva  il  passo  [glia 
Senza  fatica  alcuna  c senza  doglia. 

Dinanzi  ad  una  croce,  a piè  d'un  sasso 
Un  romito  trovai,  che  nell' aspetto 
Per  lunga  etade  era  pallido  c lasso. 

La  bianca  barila  gli  listava  il  petto , 

E i cigli  tanto  gli  cadovan  gioso, 

Che  gli  erano  alla  vista  gran  difetto. 

0 padre , che  vi  stale  si  nascoso 
In  questo  bosco  in  tanta  penitenza, 

Solo  per  acquistar  l’alto  riposo, 

Da  poi  che  Dio  nella  vostra  presenza 
Condotto  ni'  ha  da  loco  si  lontano , 
Piacciavi  darmi  di  voi  conoscenza. 

Cosi  il  pregai , ond’  elio  con  la  mano 
Le  ciglia  prese , e la  vista  scoperse , 

Poi  mi  guardò  con  volto  onesto  e piano. 

Appresso  disse  : Da  parti  diverse 
Son  qui  venuto,  qual  piace  a Colui, 

Che  per  noi  morte  In  la  croce  sofferse. 

Paulo  è il  mio  nome,  e onde,  c chi  gii  fui, 
Di  più  non  dico  ; ma  tu  come  vai 
Si  sol  per  questi  boschi  oscuri , c bui  ? 

La  vita , e la  mia  mossa  io  gli  narrai 
A parte  a parte , ond’  egli  a me  ne  venne , 
E con  dolci  parole  e care  assai 

La  notte  seco  ad  albergar  mi  tenne. 


CAPITOLO  III. 

Entrati  nel  suo  povero  abitacolo , 
Sarebbe  lungo  a dir  le  cose  strane , 
Ch'ei  mi  contò  d’ uno  in  altro  miracolo. 

I j cena  nostra  fu  solo  acqua  e pane , 
E il  letto  d’orso  una  pelle  pelosa; 

E cosi  stemmo  Dno  alla  domane. 

Era  la  mente  mia  grave  e pensosa , 
Volendo  ricordar  ciascun  peccato. 

Che  fatto  i’  avea  nella  vita  noiosa. 

Quando  quel  padre , eli’  era  già  levalo 
Per  dir  sue  ore,  mi  disse  : Che  hai, 

Clic  si  sospiri,  e mostri  tribolato? 

Ed  io  risposi  : Ilo  dei  peccati  assai , 
Dubbiosi  e grav  i ; e mi  tacciti  appresso. 
E nel  tacer  languendo  lacrimai. 

In  questo  tuo  cammin  se'  tu  confesso? 
Risposi  : No  ; ma  trovandomi  vosco , 
Questo  era  quel,  di  eh’  io  piangeva  adesso. 

Figliuol  mio,  disse , il  mondo  è come  un 
Pien  di  serpenti  e di  fieri  animali , [bosco, 
E ciascun  porla  (svariato  tosco; 

E noi  siam  tutti  mobili  e mortali .' 
Onde  vegliar  conviene,  c stare  attenti, 
Per  sapersi  guardar  dalli  lor  mali. 

Se  il  primo  nostro  e de’  nostri  parenti 
Padre  avesse  provveduto  a questo , 

Ei  ci  vedrebbe  liberi  c conienti. 

Ma  di’,  chè  al  tuo  voler  son  fermo  e 
Ed  lo  al  suo  voler  tutto  devoto,  [presto. 
Ciascun  peccato  gli  fei  manifesto. 

Ma  poiché  di  me  fu  ben  chiaro  e noto, 
Dicmmi  la  penitenza  tanto  dura. 

Quanto  voleva  a lavar  tanto  loto. 

Giù  venia  il  sol  per  alcuna  fessura 
Del  romilor,  quando  per  camminare 
Mi  apparecchiava,  e dovami  rancura. 

Quand’ei  mi  disse  : Dimmi,  che  vuoi 
Io  gli  risposi  : Alleviar  quel  carco,  [fare? 
Che  scarcar  mi  convien  sol  coll’  andare. 

Tu  credi  forse , che  quinci  sia  un  varco 
Sccuro,  come  se  fossi  a Vinegia, 

E dovessi  ir  da  Rialto  a San  Marco? 

Già  fu  cosi,  ma  tal  più  non  si  pregia  : 
Chè  per  tutto  le  strade  son  qui  tronche. 
Coperte  d’ erba  c di  prun  clic  le  fregia. 

II  monte  Gif  non  ha  tante  spelonche, 
Quante  si  trovan  per  questo  cammino. 
Nè  tante  oscure , nè  profonde  conche. 

E non  dir,  i'  son  povcr  peregrino, 

Chè  i bacherozzo!  non  guardano  a quello. 


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DEL  D1TTAM0NDO, 


Purché  porean  far  male  a lor  domino. 

Per  lutto  posso  dir,  eh’ è baccanello, 
E però  la  tua  voglia  qui  sia  stretta , 
Tanto  che  attempi  il  sol , che  vicn  novello. 

Chè  molte  volte  l’uom  per  troppa  fretta, 
Volendo  far,  disfi;  e dico  ancora, 

Che  quel  sa  guadagnar,  che  tempo  aspetta, 

0 chiaro  lume  mio,  risposi  allora. 
Poco  sapria , chi  dal  vostro  consiglio 
Si  dilungasse  il  minuto  d'  un'ora. 

E cosi  per  fuggir  morte  e periglio, 
Credetti  a lui , come  credere  de’ 
Ammaestrato  da  buon  padre  il  figlio. 

Dolce  diletto  c caro  ancora  m' è, 
Quando  rimembro  le  sante  parole , 

Che  allor  mi  disse  della  nostra  fé. 

Già  era  al  cerchio  di  meriggio  il  sole, 
Quando  parlai  con  grande  reverenza  : 
L’andar  mi  sprona,  e ’l  partire  mi  dote. 

Quel  padre  pien  di  tutta  conoscenza 
M’ intese , e disse  con  soave  voce  : 
Tempo  è bene  ornai  per  mia  credenza. 

Indi  mi  trassi  al  sasso  della  croce , 

Gli  occhi  portando  ove  il  cammino  mio 
Mi  divisò  di  una  in  altra  foce. 

Devotamente  il  commendai  a Dio; 

Ed  egli  ; Or  va , che  come  salvò  Elia 
Nel  carro,  si  te  salvi  al  tuo  desio. 

Mlsirai  allor  per  la  mostrata  via , 
Avendo  sempre  attenti  gli  occhi  e ’l  viso, 
Se  alcuna  cosa  avanti  m' apparta. 

E mentre  ch'io  guardava  tanto  fiso, 
lina  femmina  scorsi  assai  da  lunge 
SI  sozza,  ch'io  ne  fui  quasi  conquisd. 

E come  avvien,  che  la  paura  punge 
L' uom  talor,  si  che  tragge  il  sangue  al  coro, 
E l’ altre  vene  per  lo  corpo  munge; 

E da  poi  eh'  è ristretto  il  suo  valore , 
In  fra  sé  di  sé  stesso  si  rimembra , 

Onde  racquista  il  perduto  colore  ; 

Si  persi  lo  il  sangue  per  le  membra 
Subitamente , c poi  cosi  raccolsi 
In  me  virtute  con  colore  insembra. 

E quanto  i passi  miei  più  ver  lei  volsi , 
Ed  ella  i suoi  ver  me , vieppiù  brutta 
A membro  a membro  la  sembianza  colsi  ; 

Pensa,  qual  parve  a figurarla  tutta. 

CAPITOLO  IV. 

Siccome  presso  fui  a quella  strega , 
Vidi  la  faccia  sua  livida  c smorta, 


Qual  preso  pare,  a cui  le  man  si  lega. 

Vecchia  mostrava  e in  su  le  gambe 
Arricciava  la  carne  c ciascun  pelo,  [storta, 
Come  porco  per  tema  talor  porla. 

Tutta  tremava,  e nelle  labbra  un  gelo 
Mostrava  tal,  che  non  copriva  i denti. 
Ed  era  scapigliata  c senza  velo. 

Gli  occhi  smarriti  in  qua  e là  moventi 
Avca  la  trista,  e cosi  sbalordita 
Borbottando  dicea  : Perché  consenti , 

Perchè  consenti  a perder  la  tua  vita  ? 
Certo  tu  ne  morrai,  se  non  t'avvedi 
Di  lasciar  questa  impresa  tanto  ardita. 

Non  per  morir,  ma  per  campar  mi  diedi 
A seguir  tanto  ardire , e da  più  senni 
Confortato  ne  son , che  tu  noi  credi. 

Ben  so  chcal  mondo  per  tal  patto  venni, 
Ch’io  dovessi  morir,  c bene  stimo 
Che  contro  ciò  tutti  I pensicr  son  menni. 

E si  so  ancor,  ch'io  non  sarò  il  primo 
Nè  ’l  derctan , che  de’  far  questa  via , 
Chè  tutti  ne  comici!  tornare  al  limo. 

E bestiai  cosa  sarebbe  e follia 
Di  temer  quel,  che  non  si  può  fuggire. 
Questa  colai  fu  la  risposta  mia. 

Ben  io  t'  ho  inteso,  ma  tu  non  del  Ire, 
Sperimentando  si  la  tua  ventura, 

In  estrani  paesi  per  morire. 

Oh , rispos’  io , già  non  è più  dura 
Di  fuor  la  morte,  che  in  casa  si  senta. 

Ed  ella  : Tu  non  avrai  sepoltura,  [menta, 

Questo  che  fa?  Chè  il  corpo  non  tor- 
Nè  trova  cosa , clic  gli  faccia  guerra , 
Poiché  la  luce  sua  del  tutto  è spenta. 

E se  non  fia  coperto  dalla  terra. 

Il  cielo  il  coprirà;  nè  con  più  degno 
Coperchio  nlun  corpo  mai  si  serra. 

Trovo  non  fu  delle  tombe  lo  ingegno, 
Acciocché  i morti  ne  avesser  dolcezza , 
Ma  per  1 vivi , eh’  è d' onore  un  segno. 

Dissemi  allor  : Morrai  in  giovinezza. 
Per  eh’  io  risposi  : Questa  è minor  doglia , 
Che  l'aspettar  di  morir  in  vecchiezza. 

Chè  allor  fa  buon  morir  quando  si  ha 
Di  viver,  e quel  viver  tengo  reo  [voglia 
Dove  l’ uom  senso  a senso  si  dispoglia. 

Di  ciò  s’ avvide  il  forte  Macabeo , 

Di  ciò  s' avvide  il  forte  Greco , il  Magno, 
E il  buon  Troian  clic  tanto  d'arme  feo. 

Il  ben  morire  è al  mondo  un  guadagno, 
E il  viver  male  è peggio  che  la  morte  ; 
Faccia  uom  che  de',  e non  si  dia  più  lagno. 

E quella  a me  : E tu  puoi  per  tal  sorte 


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14 


POEMI  EROICI. 


Cadere  In  povertate  infermo  e frale , 

E non  sarà  chi  ti  aiuti  e conforte. 

Di  questo , rispos*  lo , poco  mi  cale , 
Chè  delle  due  converrà  esser  1*  una , 

0 il  mal  vincerà  me , o io  il  male. 

La  povertate  e i ben  della  fortuna 
Per  tutto  veggio  ; e trovo  1*  un  di  grande 
Tal  che  poi  l’altro  con  fame  digiuna. 

Già  fu  chi  visse  di  fronde  e di  ghiande  : 
Nostra  natura,  quando  si  contenta. 

Poco  cura  di  veste  o di  vivande. 

Più  son  le  cose,  onde  P uom  si  spaventa, 
Che  pur  non  fanno  mal , che  quelle  assai 
Che  con  danno  c percosse  lo  tormenta. 

Ed  ella  a me  : Or  pensa , se  tu  vai 
In  luogo  acerbo,  strano  e sconosciuto 
E non  sappi  la  lingua,  che  farai? 

Le  mani  e l piè  natura  per  aiuto 
Mi  ha  dato,  dissi,  e l'argomento  tutto, 
Perchè  sarò  i'  più  là,  che  qui  un  muto. 

Ed  ella  : Vuo'tu  un  buon  consiglio  a- 
Pensa  di  vi  ver  qui,  e stare  in  pace,  [sdutto? 
E di  quel , eh'  hai,  prendi  diletto  c frutto. 

Lo  tuo  parlar,  rispos' lo,  non  mi  piace, 
Però  ch’egli  è consiglio  da  cattivo. 

Che  mangia  e beve  c sulla  piuma  giace. 

Chè  1'  uom  non  de'  pur  dir,  i*  pappo, 
Come  nel  prato  fan  le  pecorelle  ; [e  vivo, 
Ma  cercar  farsi , dopo  morte , divo. 

Ornai  va  via , chè  delle  tue  novelle 
Ammaestrato  fui,  e,  poi  m’annoia 
Ch'  hai  le  fazìon  che  non  somiglian  belle. 

Poiché  la  si  pardo  dolente  e croia, 

Ed  i’  rimasi , qual  riman  colui , 

Che  fa  fra  sè  di  sua  vittoria  gioia , 

E poiché  sviluppato  da  lei  fui. 

Lettor,  e vidi  me  disciolto  e libro, 

Presi  il  cammin  tanto  dubbioso  altrui, 

Come  vedrai  dal  terzo  al  sesto  libro. 


CAPITOLO  V. 

Come  il  nocchicr,  cb’è  stato  In  gran 
tempesta , 

Che  se  vede  da  lungi  piaggia  o porto , 
Affretta  i remi,  e fa  letizia  e festa; 

Cosi  arcnd’io  da  lontano  scorto 
Uno,  in  ch’i'  sperava  alcun  consiglio, 
Accrebbi  i passi  con  lieto  conforto. 

Appena  era  ito  un  terzo  di  miglio, 

Ch*  lo  gli  fui  presso,  e tanto  il  vidi  degno, 
Che  l*  Inchinai  con  la  man  sopra  il  ciglio. 


Poco  del  corpo,  lettor,  tei  disegno, 
Bianco  era  e biondo,  e la  sua  faccia  onesta, 
Con  piccoletta  bocca,  « d’alto  ’ngegno. 

Qual  vuol  Mercurio , tal  parca  la  vesta, 
Un  libro  avea  nella  sinistra  mano, 

E nella  dritta  lenoa  una  sesta. 

E giunto  a me  costui,  più  che  umano 
Rispose  al  cenno,  e disse  : In  chi  ti  fidi , 
Che  vai  si  sol  per  luogo  si  lontano? 

Senno  non  fai , se  non  hai  chi  ti  guidi. 
Perocché  tanto  è diverso  il  cammino , 
Che  più  appena  alcun  giammai  ne  vidi. 

Per  cercar,  mi  son  mosso  peregrino. 
Del  mondo  quel  che  ne  concede  II  sole, 
E più , se  11  poter  fosse  al  mio  domino. 

E qual  non  può  In  tutto  ciò  che  vuole , 
Far  gli  convlen  secondo  eh’  ha  la  possa. 
Cotal  risposta  fon  le  mie  parole,  [mossa 

Poi  soppraggiunsl  a lui  : Questa  mia 
Non  credere  si  lieve,  che  per  fermo, 
Udendo  il  ver,  non  tl  parrà  si  grossa. 

Perchè  a fuggir  la  morte  , ov’era  infer- 
ii ardir  mi  prese , che  a follia  tenete , [mo, 
E per  consiglio  l’ebbi  d’altrui  sermo. 

l’non  avea  d* udirti  si  gran  sete, 
Quando  eh’  I’  tl  scontrai,  qual  mi  seni*  ora. 
Che  m’  hai  preso  il  pensler  in  altra  rete; 

E però  non  t’ incresca  dirmi  ancora 
Più  chiaramente,  acciocché  me’  compren- 
Dovc  tu  vai  ; e un  poco  qui  dimora  [da, 

E se  starai , non  creder  clic  si  spenda 
Indarno  il  tempo,  e foni’ è tua  ventura 
Avermi  qui  trovato,  c ch’io  t’intenda, 

Ch’  io  so  del  mondo  il  modo  e la  misura, 
E so  dei  cieli , c sotto  quale  clima 
Andar  si  puote,  c dov’è  gran  paura. 

0 caro  padre  ! Il  tempo  non  sì  stima 
Per  me , dissi , com’  è vostra  credenza 
E quanto  piace  a voi , fia  la  mìa  rima. 

Allor  gli  feci  in  tutto  conoscenza 
Del  lungo  tempo  mio  senza  fren  corso, 

E senza  lume , e senza  provvidenza  ; 

E come  me  vedendo  tanto  scorso , 
Vergogna  ed  ira  punse  lo  ’ntellctto, 

E fu  del  fallo  mio  grave  il  rimorso  ; 

E che  per  ristaurar  tanto  difetto, 

E non  morir  nel  mondo  come  belva, 
Presi  H cammin  colai , come  ho  già  detto  ; 

Poi  come  dentro  della  trista  selva 
Una  donna  gentil  m’era  apparita, 

E destò  il  cor,  il  quale  ancor  s’inselva. 

Tutta  gli  dissi  appunto  la  mia  vita,  [sa 
Ond’egli  a me  : Figli uol,  questa  tua  hnpre- 


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DITTAMONDO. 


Assai  mi  par  da  essere  gradita. 

Ma  guarda , che  tu  sia  di  tanta  spesa 
Fornito,  quanta  a tal  cammin  bisogna , 
Si  che  il  troppo  voler  non  torni  offesa. 

Cbè  spesso  avvicn,  eh’  uom  riceve  ram- 
pogna 

Di  folle  impresa , onde  sarebbe  il  meglio 
Lasciarla  star,  ebe  portarne  vergogna. 

Ed  lo  a lui  : Pur  mo’a  ciò  mi  sveglio, 
Come  v'  ho  detto , e seguirò  nei  core 
La  pecchia  per  esempio , e per  (speglio  ; 

Che  va  cogliendo  d’uno  in  l’altro  fiore 
La  dolce  manna  per  luoghi  diversi , 

Di  che  poi  vive,  c donde  acquista  onore. 

Cosi  pens’io  per  paesi  sporsi 
Ragunare  con  pena  e con  fatica  [versi. 
Quel  mcl,  che  a me  sia  dolce  ed  al  miei 

Quando  nell’  uomo  un  buon  voler  s’abbl- 
E mancagli  il  poter,  rispose  adesso,  [ca 
Alar  si  de’,  come  la  cosa  amica,  [messo, 

E però  all’  alta  impresa , in  che  sei 
Giovar  ti  voglio  di  alcuna  moneta , 

Si  die  ti  aiuti  a tempo  per  te  stesso. 

D' alpi , di  mari , e di  fiumi  s’ Inreta 
La  terra,  perchè  l’uomo  alcuna  volta 
G è preso,  come  verme,  che  s' inseta. 

Onde  se  non  t’annoia,  ora  m’ascolta. 
Sicché  se  trovi  manco  d’ alcun  passo , 
Veggi  da  lo  perchè  la  via  t’è  tolta. 

Cosi  come  a lui  piacque,  fermai  ’l  passo. 


CAPITOLO  VII. 

Poich'Io  mi  vidi  rimaso  si  solo. 

Presi  a pensar,  sopra  I dubbiosi  carmi , 
Il  gran  cammin  dall’  uno  all'  altro  polo. 

E ricordando,  non  sapea  che  farmi, 

I molti  rischi  e la  si  lunga  via, 

0 dell' andar  innanzi , o delio  starmi. 

Quando  la  douna,  che  mi  destò  pria 
Nel  tristo  bosco,  mi  disse  : Che  pensi? 
Fa  quei  che  dei , e poi  ciò  che  vuol  sia. 

Sempre  il  cattivo  da  vili  e melensi 
Pensieri  è vinto,  e tal  costui  è detto, 
Quale  una  bestia , eh’  abbia  manchi  I sensi. 

Così  cotesta  cacciò  dal  mio  petto 
Ogni  paura , come  da  Boezio 
Filosofia  le  triste  dal  suo  letto,  [screzio 

Spento  ogni  mio  pensler  che  motea 
E dubbio  al  mio  andar,  subito  presi 
Consiglio  tal , del  quale  ancor  mi  prezio. 

Ond’  lo  co!  core  e con  gli  occhi  sospesi 


16 

Chiamai  a giunte  mani  In  verso  il  ciclo 
Colui , che  mai  non  ebbe  di  uè  mesi. 

0 sempre  uno  e tre , a cui  non  celo 
Il  gran  bisogno , e l’ acceso  destre  , 
Perocché  tutto  il  vedi  senza  velo! 

Soccorrimi , chè  solo  non  so  ire. 

Ed  appena  ebbi  finito  quei  prego, 

Ch’Io  mi  vidi  uno  dinanzi  apparire. 

Qui  con  più  fretta  I piedi  a terra  frego 
Inverso  lui,  e poiché  mi  fu  chiaro, 

Con  riverenza  tutto  a lui  mi  piego. 

Con  un  vago  latin  onesto  e caro, 
Dimmi  chi  se’,  mi  disse,  e dove  vai? 

Poi  gli  occhi  suol  In  poco  s’abbassaro. 
Com’ei  si  tacque,  cosi  incominciai; 

10  mi  son  un  novellamente  desto. 

E ’l  dove  c ’l  quando , tutto  gli  narrai. 

Appresso  anello  gli  feci  manifesto 
Dì  quel  romito,  a cui  la  barba  lista, 

Cli' era  a veder  si  vecchio  e tanto  onesto. 

Poi  della  scapigliata  magra  e trista. 

La  qual  per  dare  sturbo  alla  mia  impresa, 
M’era  apparila  con  si  orribil  vista  : 

E siccom’lo  dopo  lunga  contesa 
L'avea  cacciata,  e trovato  colui, 

11  qual  del  mondo  I dubbj  mi  palesa  : 

E che  poiché  partito  da  lui  fui, 

L’Impresa  mia  si  facea  vile  c scema  : 

E il  conforto  eh’  lo  presi  ; e ciò  da  cui. 
Ciascun  d' entrar  nella  battaglia  ha 
tema , 

Se  non  è matto,  e quello  è più  pregiato, 
Che  poiché  v’è,  più  vede  e meno  trema. 
Ma  non  dubbiar,  poiché  m'  hai  qui 
trovato. 

Ch'io  non  ti  guidi  per  tutto  11  cammino, 
Purché  dal  Sommo  il  tempo  ti  sia  dato. 

Così  mi  disse , ed  lo  : 0 peregrino , 
Dimmi , chi  se’  ? Ed  el  rispose  adesso  : 
Anticamente  fui  detto  Solino. 

Solin,  diss'io,  sc'tti  quel  proprio  desso, 
Che  divisò  11  principio,  li  fine,  il  mezzo 
Del  mondo  e l' abitato , e ciò  eh’  è In  esso  ? 

Colui  son  io.  Onde  allora  un  ribrezzo 
Colai  mi  prese,  qual  lalor  li  verno 
A chi  sta  fermo  mal  vestito  ai  rezzo. 

Per  meraviglia  al  padre  sempiterno 
Mi  trassi , e dissi  : Indarno  onor  procaccia. 
Qual  te  non  prega  c vuol  per  suo  governo. 

Poscia  rivolsi  al  mio  Solin  la  faccia, 

E dissi  : 0 caro,  o buon  soccorso  mlol 
Del  tutto  qui  mi  do  nelle  tue  braccia. 
Senza  più  dire  allora  ci  si  pardo , 


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18  POEMI 

Ed  io  appresso , sempre  dande  ’l  loco , 
Acceso  caldamente  d’  un  desio. 

Orni’  egli  accorto  : Per  sfogare  il  foco , 
Mi  disse , fa  die  svampi  fuor  la  fiamma , 
Cliè  l’andar  sema  il  dir  varrebbe  poco. 

Allor,  come  il  flgliuol  che  alla  sua  mani- 
Con  riverenza  parla,  dissi  : 0 sole,  [ma 
In  cui  non  manca  di  mia  voglia  dramma  ; 

Quel  che  da  te  prima  l’ animo  vuole. 
Sì  e d’aver  partito  per  rubrica 
11  mondo;  e queste  fur  le  mie  parole. 

Ed  egli  a me  ; Nella  mia  età  antica 
Tutto  il  notai,  bench'ora  mal  s’incappa 
L'  noni , perchè  non  intende  quel  di'  lo 

E però  loco  formerò  una  mappa , [dica. 
Tal  che  l' intenderanno,  nn  i che  tue, 
Color  che  sanno  appena  ancor  dir  pappa. 

Acciòchc  andando  listarne  purnoi  due, 
E trovandoci  a’ porti  ed  alle  rive , 

Sappi , quando  saremo  giù  c sue. 

E tu , coni' io  lei  conto,  tal  lo  scrive. 


CAPITOLO  XI. 

Ili  breve  I'  ho  assai  chiaro  discoperto 
Del  mondo  l’abitato,  c come  giace; 
Benché  ’l  veder  te  ne  farà  più  spedo. 

Cosi  mi  disse , ed  io  : Forte  mi  piace 
Il  tuo  parlar;  ma  in  più  d'  un  punto  bra- 
che lo'nlellctlo  mio  riposi  in  pace,  [mo, 

Dimmi  : Quel  luogo , onde  cacciato  Ada- 
Con  Èva  fu , dov’  è , chè  tu  noi  poni  [mo 
Nè  sulla  terra  , nè  mostri  alcun  ramo  ? 

Ed  egli  a me  : Diverse  opinioni 
State  vi  son , ma  suso  in  Oriente 
Per  la  più  parte  par  che  si  ragioni. 

E questo  è un  monte  ignoto  a tutta  gente 
Alto,  che  giunge  sino  al  primo  cielo, 
Onde  il  puro  acre  il  suo  bel  grembo  sente. 

Quivi  non  è giammai  freddo  nè  gelo , 
Quivi  non  per  fortuna  onor  si  spera , 
Quivi  non  pioggia,  o di  nuvolo  è velo. 

Quivi  è F arbor  di  vita , e primavera 
Sempre  con  gigli , con  roso  c con  fiori , 
Adorno  c picn  d’una  e d'altra  riviera. 

Quivi  tanti  piacer  di  vaghi  odori 
Vi  sono , c tanta  dolce  melodia , 

Che  par  che  quel  che  v’è  vi  s’innamori. 

Vecchiezza  c infermità  non  sa  che  sia 
Giammai  colui , che  dentro  ivi  giunge  : 

E questo  prova  Enoc  ed  Kli^  [ punge. 

Ma  muovi  i passi  ornai,  ch'altro  mi 


EROICI. 

Ed  lo  : Va  pur,  chè  dietro  alle  tue  spalle 
Non  mi  vedrai  più  d' un  passo  da  lunge. 

E così  mi  guido  di  calle  in  calle 
Tanto , che  noi  giugnemmo  sopra  un  fiu- 
Che  si  spandea  per  una  bella  valle  ; [me , 
Sopra  la  quale  per  lo  chiaro  lume 
Del  sol,  eli' era  alto,  ivi  una  donna  scorsi: 
Vecchia  era  In  vista,  e trista  per  costume. 

Gli  occhi  da  lei,  andando,  mai  non  torsi  ; 
Ma  poiché  presso  le  fui  giunto  tanto , 
Ch’io  l'avvisava  senza  nessun  forsi. 

Vidi  11  suo  volto , eh'  era  picn  di  pianto. 
Vidi  la  vesta  sua  rotta  e disfatta, 

E raso  c guasto  il  suo  vedovo  manto. 

E con  tutto  che  fosse  cosi  fatta , 

Pur  nell'  abito  suo  onesto  e degno 
Mostrava  uscita  di  gentile  schiatta. 

Tanto  era  grande , c di  nobil  contegno, 
Ch’  io  diceva  fra  me  : Ben  fu  costei , 

E pare  ancor  da  posseder  bel  regno. 

Maravigliando  più  mi  trassi  a lei, 

E dissi  : Donna , per  Dio  non  vi  noi 
Di  soddisfare  alquanto  a’  desìr  miei; 

Ch'  io  riguardo  dall'  una  parte  voi , 

Che  negli  alti  mostrale  si  gentile  , 

Ch'  io  dico  : il  elei  qui  porse  i raggi  suoi. 

Poi  d'altra  parte  parete  si  vile. 

Si  dispregiala , c con  nero  vestire , 

Che  mio  pcnsler  rivolgo  ad  altro  stile. 

Qual  piange  sì,  che  vuole  e non  può  dire, 
Cosi  costei  alquanto  si  disciolse 
Bagnandosi  nell’ acqua  del  martire  : 

Ma  poiché  il  core  alquanto  lena  colse  , 
E che  sfogata  fu  la  molta  voglia, 

SI  rispondendo  inverso  me  sì  volse  : 

Non  ti  maravigliare  s'io  ho  doglia , 
Non  ti  maravigliar  se  trista  piango , 

Nè  se  me  vedi  in  si  misera  spoglia  ; 

Ma  fatti  maraviglia,  ch’io  rimango, 

E non  divento,  qual  divenne  Ecuba, 
Quando  gitiava  altrui  le  pietre  e il  fango. 

Perchè  men  suon  non  diè  già  la  mia  tuba, 
Nè  minor  fui  di  sposo  c di  figliuoli. 

Nè  meno  ho  sostenuto  danno  c ruba. 

Onde  quando  mi  trovo  in  tanti  duoli , 
E ricordo  lo  stalo  in  che  già  fui , 

Clic  governava  il  mondo  co'  miei  stuoli , 
Piango  fra  me,  chè  qui  non  ho  con  cui. 
Ori’  ho  risposto  a quel , che  mi  chiedesti, 
Forse  con  versi  troppo  chiusi  e bui. 

Se  quel  clic  tutto  regge  ancor  vi  presti 
Tanto  di  grazia  per  la  sua  piotate , 

Che  degli  antichi  onori  vi  rivesti , 


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DEL  D1TTAM0ND0.  IT 


Fatemi  ancora  tanto  di  bontale, 

Ch’io  oda,  come  in  vostra  giovinezza 
Foste  cresciuta  in  tanta  degnitate , 

E fino  a cui  salio  vostra  grandezza , 

E la  cagion  perchè  da  tanto  onore 
Caduta  siete  in  cotanta  bassezza. 

Questo  prego  le  fcì  con  tanto  amore , 
Ch'ella  rispose  : Al  tuo  piacer  soli  presta, 
Ma  non  Se  il  ricordar  senza  dolore. 

Poi  cominciò , e la  Torma  Tu  questa  : 


CAPITOLO  XII. 

Nel  tempo  che  nel  mondo  la  mia  spera 
Apparve  in  prima  qui  dove  noi  stiamo , 
Dopo  il  diluvio  ancor  poca  gente  era. 

Noè,  che  si  può  dire  un  altro  Adamo, 
Navigando  per  mar  giunse  ai  mio  iito, 
Come  piacque  a Colui , eli’  io  credo  ed 

E tanto  gli  Tu  dolce  questo  sito , [amo  ; 
Che  per  riposo  alla  sua  fine  il  prese 
Con  darmi  più  del  suo,  eh'  io  non  ti  addilo. 

Giano  appresso  a dominarmi  intese, 

E costui  mi  adornò  d' una  corona , 
Insieme  con  Jafet  e con  Camese. 

Italo  poi  un'altra  me  ne  dona. 

SI  Te’  Saturno , che  di  Creti  venne , 

Lo  qual  molto  onorò  la  mia  persona. 

Ercole , quel  che  nelle  braccia  tenne 
Paliante , per  lo  suo  valor,  non  meno 
Che  gli  altri , fece  ciò  che  si  convenne. 

Evandro  con  gii  Arcadj  ricco  e pieno 
Una  ne  fabbricò  nel  nome  mio , 

Maggiore  assai  che  gii  altri  non  mi  feno. 

Roma , A ventino , e Glauco  non  oblio , 
I quai  men  fenno  tre , tal  che  ciascuna 
Per  sua  beltà  in  gran  pregio  salio. 

E si  ni’  era  allor  dolce  la  fortuna , 

Che  da  Oriente  a me  venne  il  re  Tibrl , 
Al  quai  piacendo  ancor,  me  ne  fe'  una. 

Ma  perchè  d’ogui  dubbio  ti  dclibri , 

E sappi  ragionar,  se  inai  t'alfroiui 
Con  genica  cui  diletti  legger  libri, 

Piacemi  ancor  che  piu  chiaro  ti  conti. 
Sappi , queste  corone  eh'  io  ti  dico , 

Mi  fur  donate  dentro  a sette  monti. 

Ma  qui  ritorno  a Giano  mio  antico , 
Del  qual  ti  ho  dello , che  dopo  Noè 
Gli  piacque  il  luogo  dove  i’  mi  nutrico. 

De'  Latin  fu  costui  il  primo  re , 

Pien  di  scienza  c cotanta  virlute. 

Che  di  molte  gran  cose  al  mondo  fè. 


Costui  trovò  le  gemi  si  perdute 
D’ogni  argomento,  che  a fredde  vivande 
Vivevan , come  bestie  matte  e mute. 

Chiare  fontane  ed  erbe  crude  e ghiande 
Eran  lor  cibo , ed  abitavan  sparti 
A libilo  ne'  boschi  e per  le  laude. 

Esso  li  raguuò  da  tutte  parti , 

E raddrizzolli  nel  vivere  alquanto, 
Mostrando  loro  e disgrossando  Farli. 

Della  sua  morte  si  fece  gran  pianto , 
Sette  e venti  anni  regnò,  e tra  lor  era 
Tenuto,  come  è or  fra  noi  un  santo. 

E s'io  debbo  seguir  ben  mia  matera , 
E del  caldo  desio , del  quale  asseti , 
Trarli  la  brama,  come  1’  hai,  intera. 

Dir  mi  conviene  siccome  da  Creti 
Saturno  sen  foggio  e venne  a Giano, 
Perchè  il  figliuol  noi  prendesse  in  le  reti. 

Crudele  e pronto  a mal  tratto  villano , 
Avaro , si  che  sempre  il  pugno  serra , 
Costui  dipingo  e con  la  falce  in  mano. 

Tre  figliuoli  ebbe,  lddii  nomati  In  terra, 
Nettuno  l’un,  qual  si  dice  marino. 

Dal  mar  sorbito  nella  trista  guerra; 

L’altro  fu  Pluto,  del  quale  il  destino 
Fu  tal , che  avendo  un  paese  in  governo 
Sabatico,  boscoso  e pellegrino , 

Lo  padre  suo  per  gola , s’ io  dlscerno , 
Del  regno,  il  fe'  morire  a tradimento  , 

E nominato  fu  Dio  dell’inferno; 

Giove  regnava,  secondo  ch’io  sento. 
Sotto  l'Olimpo,  che  pria  prova  il  gelo 
Cheli  sol  del  tutto  a Virgo  scaldi  T mento. 

Costui , perdi'  ebbe  ognor  diletto  e zelo 
Nell'alto  monte,  ed  attese  a virtute. 

Si  disse  dopo  morte  il  Dio  del  cielo. 

Ora  vedendo  le  mortai  ferule 
De'  suoi  fratelli , il  padre  cacciò  via , 

Si  per  vendetta  c si  per  sua  salute. 

Di  qua  fuggio , come  ti  ho  detto  pria , 
Nascoso  stava , e quando  Gian  niorio , 
Rimase  solo  a lui  la  signoria; 

E benché  fosse  tanto  avaro  e rio , 
Nondimen  era  scaltro  ed  intendente, 

E sottil  molto  ad  ogni  macslrio. 

Costui  mostrò  di  far  navi  alla  gente , 
Scudi , moneta  e di  terra  lavoro , 

Che  prima  ne  sapean  poco  o niente. 

A questa  età  si  disse  età  dell'  oro, 
Perchè  la  gente  viveva  in  comuno 
Sobria , casta  e libera  fra  loro , 

Semplice,  pura  c senza  vizio  alcuno. 


POEMI  EROICI. 


1» 

Ora  Io  cielo  che  ogni  cosa  chiama 
Ad  ordinato  tempo , li  suoi  lumi 
Volse  Ter  me  per  darmi  onore  e fama. 

I due  gemelli  che  per  bei  costumi 
Nomare  potrei  Castore  e Polluce , 

E di  beltà,  per  quei  eh"  avviso,  numi, 
S’ innamorar  della  mia  bella  luce  ; 

Ma  I"  un  fu  morto , e qui  si  tace  il  come , 
L’ altro  rimase  sol  signore  e duce. 

Dal  nome  di  costui  presi  il  mio  nome  : 


E certamente  il  primo  sposo  fuc. 

Che  sentisse  il  piacer  del  mio  bel  pome. 


Tonando  la  tempesta  cadde  gine  , 

E comcchò  rapito  o morto  fosse  , 

I’cr  me  dappoi  non  si  rivide  piuc. 

Se  di  lui  m"  arse  il  core , e se  mi  cosse , 
Pensar  lo  dei , cliè  a dirlo  sarebbe 
Un  ri  novare  duolo  alle  mie  angosce, 

E dir  non  lei  saprei , si  me  n'  increbbe. 


POLIZIANO. 


STANZE 

PER  LA  GIOSTRA  DEL  MAGNIFICO 

GIULIANO  DI  PIERO  DE’ MEDICI. 

LIBRO  PRIMO. 


Le  gloriose  pompe  c 1 fieri  ludi 
Della  città  che  "1  freno  allenta  c stringe 
A"  magnanimi  Toschi  ; e i regni  crudi 
Di  quella  Dea  che  "1  terzo  ciel  dipinge  ; 
E 1 premj  degni  agli  onorali  studi , 

La  mente  audace  a celebrar  mi  spinge , 
Sì  che  i gran  nomi,  c 1 fatti  egregi  e soli 
Fortuna  o morte  o tempo  non  Involi. 

0 bello  Dio,  eh’  al  cor  per  gli  occhi  spiri 
Dolce  desir  d"  amaro  pensicr  pieno , 

E pasciti  di  pianto  e di  sospiri , 

Nutrisci  l’ alme  d’ un  dolce  veneno  ; 
Gentil  fai  divenir  ciò  che  tu  miri , 

Ni  può  star  cosa  vii  dentro  al  tuo  seno  ; 
Amor , del  quale  i’  son  sempre  suggello , 
Porgi  or  la  mano  al  mio  basso  intelletto. 

Sostlen  tu  ’l  fascio  die  a me  tanto  pesa  ; 
Reggi  la  lingua,  Amor,  reggi  la  mano; 
Tu  principio,  tu  fin  dell'alta  impresa: 
Tuo  fie  l’ onor  ; s' io  già  non  prego  invano. 
Di’  Signor , con  che  lacci  da  te  presa 
Fu  l' alta  mente  del  baron  toscano , 

Piò  gtoven  figlio  dell'etnisca  Leda; 


Che  reti  fumo  ordite  a tanta  preda. 

E tu , ben  nato  Laur , sotto  il  cui  velo 
Fiorenza  lieta  in  pace  si  riposa , 

Nè  teme  i venti , o '1  minacciar  dei  deio , 
0 Giove  irato  in  vista  più  crucciosa , 
Accogli  all’  ombra  dd  tuo  santo  ostdo 
La  voce  umil , tremante , e paurosa  ; 
Principio  e fin  di  tutte  le  mie  voglie  , 
Clic  sol  vivon  d’ odor  delle  tue  foglie. 

Deh  sarà  mai  che  con  più  alle  note. 
Se  non  contrasti  al  mio  voler  fortuna , 
Lo  spirto  delle  membra  che  devote 
Ti  fur  da'  fati  insin  già  dalia  cuna , 
Risuoni  tc  dai  Numidi  a Boote, 

Dagl’Indi  al  marche  '1  nostro  ciel  imbruna; 
E,  posto  '1  nido  in  tuo  felice  tigno, 

Di  roco  augel  diventi  un  bianco  cigno  T 

Ma  fin  eh'  all*  atta  impresa  tremo  e bra- 
E son  tarpati  i vanni  al  mio  disio , [mo , 
Lo  glorioso  tuo  fratei  cantiamo , 

Che  di  nuovo  trofeo  rende  giullo 
il  chiaro  sangue , e di  secondo  ramo. 
Comien  che  sudi  in  questa  polverio: 


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STANZE. 


Or  muori  prima  tu  mie'  versi , Amore , 
Che  ad  alto  volo  impenni  ogni  vii  core. 

E se  quassù  la  lama  Q ver  rimbomba, 
Che  d*  Ecuba  la  figlia , o sacro  Achille , 
Poi  che  '1  corpo  lasciasti  entro  la  tomba , 
T accenda  ancor  d' amorose  faville  ; 
Lascia  tacer  un  po'  tua  maggior  tromba, 
Ch'Io  fo  squillar  per  l’ italiche  ville , 

E tempra  tu  la  cetra  a nuovi  carmi , 
Mente' io  canto  l' amor  di  Giulio,  e Tarmi, 

Nel  vago  tempo  di  sua  verde  elale. 
Spargendo  ancor  pel  volto  11  primo  fiore. 
Nè  avendo  il  bel  Giulio  ancor  provale 
Le  dolci  acerbe  cure  che  di  Amore , 
Vivessi  lieto  in  pace.  In  liberiate, 

Talor  frenando  un  gentil  corridore , 

Che  gloria  fu  de'  ciciliani  armenti  ; 

Con  esso  a correr  contendea  co’  venti  : 

Ora  a guisa  saltar  di  leopardo , 

Or  destro  fea  rotarlo  in  brievc  giro  : 

Or  fea  ronzar  per  l' aer  un  lento  dardo , 
Dando  sovente  a fere  agro  martiro  : 
Colai  vivessi  '1  giovane  gagliardo  : 

Nè  pensando  al  suo  fato  acerbo  e diro, 
Nè  certo  ancor  de’  suol  futuri  pianti, 
Solea  gabbarsi  degli  afflitti  amanti. 

Ab  quante  Ninfe  per  lui  sospiromol 
Ha  fu  si  altero  sempre  li  giovinetto. 

Che  mai  le  Ninfe  amanti  Io  plcgorno  ; 
Mal  poli  riscaldarli  *1  freddo  petto. 
Pacca  sovente  pe’  boschi  soggiorno  ; 
Incubo  sempre , e rigido  In  aspetto  : 

Il  volto  difendea  dal  solar  raggio 
Con  ghirlanda  di  pino,  o verde  faggio. 

E poi  quando  nel  del  parean  le  stelle , 
Tutto  gioioso  a sua  magion  tornava , 

E ’n  compagnia  delle  nove  Sorelle , 
Celesti  versi  con  disio  cantava  ; 

E d’ antica  virtù  mille  fiammelle 
Con  gli  alti  carmi  ne'  petti  destava  : 

Cosi  chiamando  amor  lascivia  umana , 

Si  godea  con  le  Muse , o con  Diana. 

E se  talor  nel  cieco  labirinto 
Errar  vedeva  un  miscredo  amante. 

Di  dolor  carco,  di  pietà  dipinto 
Seguir  de  la  nemica  sua  le  piante; 

E dove  Amore  il  cor  gii  avesse  av  vinto , 
Li  pascer  l’alma  di  due  iud  sante  , 

Preso  nelle  amorose  crudo!  gogne  ; 

Si  l’ assaliva  con  agre  rampogne  : 

Scuoti,  meschin,da!  petto  il  cieco  errore 
Ch'a  le  stesso  ti  fura,  ad  altrui  porge: 
Non  nutrir  di  lusinghe  un  van  furore 


Che  di  pigra  lascivia  e d’ orlo  sorge. 
Costui  che  1 volgo  errante  chiama  Amore, 
È dolce  Insania  a ehi  più  acuto  scorge. 

Si  bel  tftol  d' amore  ha  dato  'I  mondo 
A una  deca  peste , a un  mal  giocondo. 

Quanto  è meschin  colui  che  cangia  voglia 
Per  donna,  o mal  per  lei  s’ allegra,  o dole 
E qual  per  lei  di  libertà  si  spoglia, 

0 crede  a'  suol  sembianti,  o a sue  parole  ! 
Chè  sempre  è più  leggier  ch’ai  vento  foglia, 
E mille  volte  II  di  v uole  e disvuole  : 
Segue  clil  fugge , a chi  la  vuol  s'asconde  ; 
E vanne  e vien  come  alla  riva  1*  onde. 

Giovane  donna  sembra  veramente 
Quasi  sotto  un  bel  mare  acuto  scoglio, 
Ovvcr  tra’  fiori  un  giovinoci  serpente 
Uscito  pur  mo  fuor  del  vecchio  scoglio. 
Ah  quanl’è  fra’  più  miseri  dolente 
Chi  può  soffrir  di  donna  il  fiero  orgoglio  ! 
Chè  quanto  ha  il  volto  più  di  beltà  pieno, 
Più  cela  Inganni  nel  fallace  seno. 

Con  esso  gli  occhi  giovenill  invesca 
Amor , che  ogni  penslcr  maschio  vi  fura  : 
E quale  un  tratto  Ingozza  la  dolce  esca , 
Mal  di  sua  propria  libertà  non  cura; 

Ma,  come  se  pur  Lete  Amor  vi  mesca, 
Tosto  obbllate  vostra  alta  natura  ; 

Nè  poi  viril  pensiero  In  voi  germoglia: 
Si  del  proprie  valor  costui  vi  spoglia. 

Quanto  è più  dolce,  quanto  è più  sicuro 
Seguir  le  fere  fuggitive  in  caccia 
Fra  boschi  antichi  fuor  di  fossa  o muro, 
E spiar  lor  covil  per  lunga  traeda! 
Veder  la  valle  e '1  colle  e l’ aer  puro, 
L’crbe,  I fior, l’acqua  viva  chiara  c ghiaccia! 
Udir  gli  augei  svernar,  rimbombar  l' onde, 
E dolce  al  vento  mormorar  le  fronde! 

Quanto  giova  a mirar  pender  da  un’  erta 
Le  capre,  e pascer  questo  e quel  vir- 
gulto ; 

E ’l  montanaro  all’ombra  più  conserta 
Destar  la  sua  zampogna  e ’l  verso  inculto  ! 
Veder  la  terra  di  pomi  coperta , 

Ogni  arbor  da’  suo'  frutti  quasi  occulto  ; 
Veder  cozzar  monton , vacche  mugghiare 
E le  biade  ondeggiar  come  fa  il  mare  ! 

Or  delle  pecorelle  11  rozzo  mastro 
Si  vede  alla  sua  torma  aprir  la  sbarra  : 
Poi  quando  muove  lor  col  suo  vincastro. 
Dolce  è a notar  come  a ciascuna  garra  : 
Or  si  vede  il  vlllan  domar  col  rastro 
Le  dure  zolle , or  maneggiar  la  marra  : 
Or  la  contadlnella  scinta  e scalza 


io  POEMI 

Star  con  l’ oche  a filar  sotto  una  balia. 

In  cotal  guisa  già  l' antiche  genti 
Si  crede  esser  godute  al  secol  d' oro  : 

Nè  latte  ancor  le  madri  eran  dolenti 
De'  morti  figli  al  marzia!  lavoro  : 

Nè  si  credeva  ancor  la  vita  a'  venti. 

Nè  del  giogo  dolcasl  ancora  il  toro. 

Lor  casa  era  fronzuta  quercia  e grande  , 
Ch'avea  nel  tronco  mcl,  ne’ rami  ghiande. 

Non  era  ancor  la  scellerata  sete 
Del  crude!  oro  entrata  nel  bel  mondo  : 
Vlveansi  in  libertà  le  genti  liete; 

E non  solcalo,  Il  campo  era  fecondo. 
Fortuna  invidiosa  a lor  quiete 
Ruppe  ogni  legge,  c pietà  mise  in  fondo. 
Lussuria  entrò  ne’  petti , e quel  furore 
Cbe  la  meschina  gente  chiama  amore. 

In  colai  guisa  rimordea  sovente 
L’altiero  giovinetto  i sacri  amanti; 

Come  lalor  chi  sè  gioioso  sente. 

Non  sa  ben  porger  fede  agli  altrui  pianti  : 
Ma  qualche  misercllo  a cui  l'ardente 
Fiamme  struggeano  i nervi  tutti  quanti , 
Gridava  al  del  : Giusto  sdegno  ti  muova , 
Amor,  chè  costui  creda  alinen  per  prova. 

Nè  fu  Cupido  sordo  al  pio  lamento; 

E ’ncomlnciò  crudelmente  ridendo: 
Dunque  non  sono  Iddio  ? dunque  è già 
spento 

Mio  foco,  conche  tulio  il  mondo  accendo? 
Io  pur  fei  Giove  mugghiar  fra  l’ armento , 
Io,  Febo  dietro  a Dafne  gir  piangendo  : 
Io  trassi  Plulo  dell'  internai  seggo  : 

E chi  non  ubbidisce  alla  mia  legge! 

Io  fo  cadere  al  tigre  la  sua  rabbia , 

Al  leone  il  ficr  roggio , al  drago  il  fischio. 
E quale  è uom  di  si  secura  labbia , 

Che  fuggir  possa  il  mio  tenace  vischio? 
E che  un  superbo  in  si  vii  pregio  m'abbla, 
Che  di  non  esser  Dio  vengo  a gran  rìschio? 
Orvcggiam  se  '1  meschin  eh’ Amor  ri- 
prende , 

Da  due  begli  occhi  sè  stesso  difende. 

Zefiro  già  di  bei  fioretti  adorno 
Avea  da'  monti  tolta  ogni  pruina  : 

Arca  fatto  al  suo  nido  già  ritorno 
La  stanca  rondinella  peregrina; 

Risonava  la  selva  intorno  intorno 
Soavemente  all'ora  mattutina  : 

E l'ingegnosa  pecchia  al  primo  albore 
Giva  predando  or  uno  or  altro  fiore. 

L’ardito  Giulio,  al  giorno  ancora  acerbo, 
Allor  ch’ai  tufo  toma  la  civetta, 


EROICI. 

Fatto  frenare  II  corrldor  superbo. 

Verso  la  selva  con  sua  gente  eletta 
Prese  il  cammino,  e sotto  buon  riserbo, 
Seguia  de'  fedcl  can  la  schiera  stretta , 

Di  ciò  che  fa  mestieri  a caccia  adorni , 
Con  archi  c lacci  e spiedi  e dardi  e comi. 

Già  circondata  avea  la  lieta  schiera 
Il  folto  bosco;  c già  con  grave  orrore 
Del  suo  covll  si  destava  ogni  fiera  : 

Givan  seguendo  i bracchi  '1  lungo  odore. 
Ogni  varco  da'  lacci,  e can  chiuso  era: 
Di  stormir , d' abbaiar  cresce  il  romore  : 
Di  fischi  e bussi  tutto  il  bosco  suona: 

Del  rimbombar  de’  corni  11  elei  rintrona. 

Con  tal  romor,  qualor  l’aer  discorda, 
Dì  Giove  il  foco  d’alta  nube  piomba: 

Con  tal  tumulto,  onde  la  gente  assorda, 
Dall'alto  cataratlc  il  Mi  rimbomba: 

Con  tal  orror  del  latin  sangue  ingorda 
Sonò  Megera  la  tartarea  tromba. 

Qual  animai  di  stizza  par  si  roda; 

Qual  serra  al  ventre  la  tremante  coda. 

Spargesl  tutta  la  bella  campagna. 

Altri  alle  reti , altri  alla  via  più  stretta. 
Chi  serba  in  coppia  i can , chi  gli  scom- 
pagna , [e  allctta. 

Chi  già  il  suo  ammette,  chi  ’l  richiama, 
Chi  sprona  il  buon  destrier  per  la  cam- 
elli l'adirata  fera  armato  aspetta,  [pagna. 
Chi  si  sta  sopra  un  ramo,  a buon  riguardo, 
Chi  ha  In  man  lo  spiede , c chi  s’ acconcia 
il  dardo. 

Già  le  setole  arriccia , e arruola  i denti 
Il  porco  entro  II  burron  : già  d' una  grotta 
Spunta  gìùllcavriol  : già  i vecchi  armenti 
De'  cervi  van  pel  pian  fuggendo  in  frotta. 
Timor  gl'inganni  delle  volpi  ha  spenti  : 
Le  lepri  al  primo  assalto  vanno  in  rotta. 
Di  sua  tana  stordita  esce  ogni  belva*. 
L’astuto  lupo  vie  più  si  rinselva: 

E rinselvalo , le  sagaci  nare 
Del  picciol  bracco  pur  teme  il  meschino: 
Ma  il  cervo  par  del  veltro  paventare; 

De’ lacci 'I  porco,  o del  fiero  mastino. 
Vedesi  lieto  or  qua  or  là  volare  [ grino  : 
Fuor  d'ogni  schiera  il  giovan  pelle* 
Pel  folto  bosco  11  ficr  cavai  mette  aie  ; 

E trista  fa , qual  fera  Giulio  assale. 

Qual  11  Ccntaur  per  la  nevosa  selva 
Di  Pelio  o d' Emo  va  feroce  in  caccia , 
Dalle  lor  tane  predando  ogni  belva; 

Or  l' orso  uccide , or  il  Don  minaccia. 
Quanto  è più  ardita  fera,  più  s’inselva  : 


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STANZE. 


Il  sangue  a tutte  dentro  al  cor  s’agghiaccia. 
La  selva  trema , e gli  cede  ogni  pianta  : 
Gli  arbori  abbatte  o sveglie , o rami 
schianta. 

Ah  quanto  a mirar  Giulio  è Aera  cosa! 
Rompe  la  via  dove  più  il  bosco  è follo , 
Per  trar  di  macchia  la  bestia  crucciosa , 
Con  verde  ramo  intorno  al  capo  avvolto, 
Con  la  chioma  arrulTata  e polverosa , 

E d'onesto  sudor  bagnato  il  volto. 

Ivi  consiglio  a sua  bella  vendetta 
Prese  Amor,  clic  ben  loco  e tempo  aspetta. 

E con  sue  man  di  lieve  aer  compose 
L' immagin  d' una  cena  altiera  e bella , 
Con  alta  fronte,  con  corna  ramose. 
Candida  tutta , leggiadrctta , e snella  : 

E come  tra  le  fere  paventose 
Al  giovan  cacciator  si  offerse  quella , 
Lieto  spronò  il  destrier  per  lei  seguire , 
Pensando  in  breve  darle  agro  martire. 

Ma  poi  che  invan  dal  braccio  il  dardo 
Del  foder  trasse  fuor  la  fida  spada , [scosse , 
E con  tanto  furor  il  corslcr  mosse , 

Che  ’1  bosco  follo  sembrava  ampia  strada. 
La  bella  fiera , come  stanca  fosse , 

Più  lenta  tuttavia  par  che  scn  vada  : 

Ma  quando  par  che  gii  la  stringa  o tocchi, 
PlccioI  campo  riprende  avanti  agli  occhi. 

Quanto  più  slegue  invan  la  vana  effigie, 
Tanto  più  di  seguirla  invan  s'accende  : 
Tuttavia  preme  suo  stanche  vestigio , 
Sempre  la  giugne;  e pur  mal  non  la  prende. 
Qual  fino  al  labbro  sta  nell' onde  stigie 
Tantalo,  e’I  bel  giardin  vlcin  gli  pende  : 
Ma  qualor  T acqua  o '1  pome  vuol  gustare, 
Subito  l’acqua  o'I  pome  via  dispare. 

Era  gii  dietro  alla  sua  disianza 
Gran  tratto  da' compagni  allontanato; 

Nè  pur  d'un  passo  ancor  la  preda  avanza; 
E gii  tutto  il  destrier  sente  affannato. 

Ma  pur  seguendo  sua  vana  speranza , 
Pervenne  in  un  fiorito  e verde  prato  : 

Ivi  sotto  un  vel  candido  gli  apparve 
Lieta  una  Ninfa  ; e via  la  fiera  sparve. 

La  fiera  sparse  via  dalle  sue  ciglia. 

Ma  il  giovan  della  fiera  ornai  non  cura , 
Anzi  ristringe  al  corridor  la  briglia , 

E lo  raffrena  sopra  alla  verdura. 

Ivi  tutto  ripten  di  maraviglia 
Pur  della  Ninfa  mira  la  figura  : 

Parglì  che  dal  bel  viso  e da’  begli  occhi 
Una  nuova  dolcezza  al  cor  gli  fiocchi. 

Qual  tigre,  a cui  dalla  petrosa  tana 


Ha  tolto  il  cacciator  suoi  cari  figli , 
Rabbiosa  il  segue  per  la  selva  irrana, 
Chè  tosto  crede  insanguinar  gli  artigli  : 
Poi  resta  d'uno  specchio  all' ombra  vana, 
All'ombra  che  I suoi  nati  par  somigli  : 
E mentre  di  tal  vista  s’innamora 
La  sciocca,  il  piedator  la  via  divora. 

Tosto  Cupido  entro  a'  begli  ocelli  ascoso 
Al  nervo  adatta  del  suo  strai  la  cocca, 
Poi  tira  quel  col  braccio  poderoso 
Tal  che  raggiugne  l'una  all’altra  cocca. 
La  man  sinistra  col  ferro  focoso, 

La  destra  poppa  con  la  corda  tocca  ; 

Nè  prima  fuor  ronzando  esce  il  quadrello, 
Che  Giulio  dentro  al  cor  sentito  ha  quello. 

Ah  qual  divenne  tali  come  al  giovanetto 
Corse  il  gran  foco  in  tutte  le  midolle  ! 
Che  tremilo  gli  scosse  il  cor  nel  petto! 
D'un  ghiaccialo  sudore  era  giù  molle; 

E fatto  ghiotto  del  suo  dolce  aspetto 
Giammai  gli  ocelli  dagli  occhi  levar  puollc  ; 
Ma  tutto  preso  dal  vago  splendore 
Non  s’ accorge  il  meschin  che  quivi  è 
Amore;  [rnato 

Non  s’accorge  che  Amor  11  dentro  è ar- 
Per  sol  turbar  la  sua  lunga  quiete  ; 

Non  s’accorge  a che  nodo  è già  legalo; 
Non  conosce  sue  piaghe  ancor  secrcte. 

Di  piacer,  di  desir  tulio  è Invescato; 

E cosi  il  cacciator  preso  è alla  rete. 

Le  braccia  fra  sè  loda , e 'I  viso  c 'I  crino , 
E’n  lei  discerne  non  so  clic  divino. 

Candida  è ella,  e candida  la  vesta. 

Ma  pur  di  rose  c fior  dipinta  e d'erba  ; 
Lo  innanellato  crin  dell' aurea  testa 
Scende  in  la  fronte  umilmente  superba. 
Ridete  attorno  tutta  la  foresta , 

E quanto  può  sue  cure  disacerba. 
Nell'atto  regalmente  è mansueta; 

E pur  col  ciglio  le  tempeste  acqueta. 

Folgoran  gli  occhi  d’ un  dolce  sereno , 
Ove  sue  faci  tien  Cupido  ascose  ; 

L’aer  d'intorno  si  fa  tutto  ameno, 
Ovunque  gira  le  luci  amorose. 

Di  celeste  letizia  il  volto  ha  pieno 
Dolce  dipinto  di  ligustri  e rose. 

Ogni  aura  tace  al  suo  parlar  divino, 

E canta  ogni  augelletlo  in  suo  latino. 

Sembra  Talia,  se  in  man  prende  la  cetra  ; 
Sembra  Minerva.se  in  man  prende  l'asta: 
Se  T arco  ha  in  mano,  al  fianco  la  faretra, 
Giurar  potrai  clic  sia  Diana  casta. 

Ira  dal  volto  suo  trista  s'arretra, 


}1  POEMI 

E poco  avanti  a lei  superbia  basta. 

Ogni  dolce  virtù  l'è  in  compagnia  : 

Beiti  la  mostra  a dito  e leggiadria. 

Con  lei  scn  va  onestate  umile  e piana. 
Che  d’ ogni  chiuso  cor  volge  la  chiave  : 
Con  lei  va  gentilezza  in  vista  umana, 

E da  lei  impara  il  dolce  andar  soave. 
Non  puù  mirarle  in  viso  aima  villana, 

Se  pria  di  suo  fallir  doglia  non  ave. 
Tanti  cori  Amor  piglia,  fere  e ancide. 
Quanto  ella  o dolce  parla  , o dolce  ride. 

Ella  era  assisa  sopra  la  verdura 
Allegra,  e gliirlandelta  avea  contesta; 

Di  quanti  fior  creasse  mai  Natura , 

Di  tanti  era  dipinta  la  sua  vesta. 

E come  in  prima  al  giovan  pose  cura, 
Alquanto  paurosa  alzò  la  lesta  : 

Poi  con  la  bianca  man  ripreso  il  lembo , 
Bevessi  in  piè  con  di  fior  pieno  un  grembo. 

Gii  s' inviava  per  quindi  partire 
La  Ninfa  sopra  l’erba  lenta  lenta. 
Lasciando  il  giovanetto  in  gran  martire  ; 
Chè  fuor  di  lei  nuli’ altro  a lui  talenta. 

Ma  non  posscndo  il  miser  ciò  soffrire , 
Con  qualche  priego  d’ arrestarla  tenta; 
Perchè , tutto  tremando  e tutto  ardendo. 
Cosi  umilmente  incominciò  dicendo  : 

0 qual  che  tu  ti  sia,  vergin  sovrana, 

0 Ninfa,  oDca  [ma  Dea  mi  sembri  certo  : 
Se  Dea  ; forse  clic  se’  la  mia  Diana  : 

Se  pur  mortai;  chi  tu  sia  fammi  aperto; 
Chè  tua  sembianza  è fuor  di  guisa  umana  ; 
Nè  so  giù  io  qual  sia  tanto  mio  merlo , 
Qual  del  del  grazia,  qual  slamica  stella, 
Ch’  io  degno  sia  veder  cosa  si  bella. 

Volta  la  Ninfa , al  suon  delle  parole 
Lampeggiò  d’ un  si  dolce  e va^o  riso , 
Che  i monti  avria  fatto  ir,  restare  il  sole; 
Chè  ben  parve  s’ aprisse  un  paradiso. 

Poi  formò  voce  fra  perle  e viole 

Tal , eh’  un  marmo  per  mezzo  avria  diviso, 

Soave , saggia , e di  dolcezza  piena , 

Da  innamorar,  non  eh’  altri , una  Sirena. 
Io  non  son  qual  tua  mente  invano  augu- 
ria; 

Non  d’aitar  degna , non  di  pura  vittima  ; 
Ma  là  sopr’Arno  nella  vostra  Etruria 
Sto  soggiogata  alla  teda  legittima  ; 

Mia  natal  patria  è nell’  aspra  Liguria 
Sopr’  una  costa  alla  riva  marittima, 

Ove  fuor  de’  gran  massi  intorno  gemere 
SI  sente  il  fier  Nettuno,  c irato  fremere. 
Sovente  In  questo  loco  mi  diporto  : 


EROICI. 

Qui  vengo  a soggiornar  tutta  soletta. 
Questo  è de’  miei  pensieri  un  dolce  porto  ; 
Quil’erba,!  Dori,  e’ifrcscoaer  rr.’ alletta. 
Quinci  ’l  tornare  a mia  magion  è corto  ; 
Qui  lieta  mi  dimoro  Simonetta 
All’  ombre,  a qualche  chiara  e fresca  linfa, 
E spesso  in  compagnia  d’ alcuna  Ninfa. 

lo  soglio  pur  negli  oziosi  tempj , 
Quando  nostra  fatica  s’interrompe. 
Venire  a’  sacri  aitar  ne’  vostri  tempi 
Fra  l’allre  donne,  con  l’usate  pompe. 
Ma  perch’io  iti  tutto  ilgran  desir  C adempì, 
E ’l  dubbio  tolga  die  tua  mente  rompe. 
Maraviglia  di  mie  bellezze  tenere 
Non  premier  già  ch’i’  nacqui  in  grembo 
a Venere. 

Or  poi  die  ’i  sol  sue  rote  in  basso  cala  , 
E da  quest’  arbor  cade  maggior  l' ombra , 
Già  cede  al  grillo  la  stanca  cicala. 

Già  il  rozzo  zappator  del  campo  sgombra} 
E già  dall’  alte  ville  il  fumo  esala; 

La  villanella  all’  uotn  suo  il  desco  ingoa- 
Omai  riprenderò  mia  via  più  corta:  [bra; 
E tu  lieto  ritorna  alla  tua  scorta. 

Poi  con  ocelli  più  lieti  e più  ridenti. 
Tal  cbe’l  del  tutto  asserenò  d’ intorno. 
Mosse  sopra  l’erbetta  i passi  lenti 
Con  atto  d’  amorosa  grazia  adorno. 
Fcciono  i boschi  allor  dolci  lamenti , 

K gli  augclietti  a pianger  coininciorno  : 
Ma  l’erba  verde  sotto  i dolci  passi 
Bianca , gialla , vermiglia  , azzurra  fassi. 
Che  de’  far  Giulio?  ahimè  che  pur  de- 
sidera 

Scguirsua  stella  ; c pur  temenza  il  tiene  ; 
Sta  come  un  forsennato , e ’l  cor  gli  assi- 
dera, 

K gli  s*  agghiaccia  il  sangue  entro  le  vene  : 
Sta  come  un  marmo  fiso , c pur  considera 
Lei  die  sen  va , nè  pensa  di  sue  pene  ; 

Fra  sè  lodando  ii  dolce  andar  celeste, 

E il  ventilar  dell’  angelica  veste. 

E par  che  ’lcor  del  petto  se  gli  schianti, 
E che  del  corpo  I*  alma  via  si  fugga , 

E clic  a guisa  di  brina  al  sol  davanti 
In  pianto  tutto  si  consumi  e strugga. 

Già  si  sente  esser  un  degli  altri  amanti , 

E pargli  che  ogni  vena  Amor  gli  sugga , 

Or  teme  di  seguirla , or  pure  agogna  : 

Qui  il  tira  Amor,  quinci  ’l  ritrae  vergogna. 

U’  sono  or,  Giulio,  le  sentenzie  gravi , 
Le  parole  magnifiche c i precetti. 

Con  che  i miseri  amanti  molestavi? 


STANZE.  23 


Perchè  pur  di  cacciar  non  li  diletti  ? 

Or  ecco  eh’  una  donna  ha  in  man  le  chiavi 
I)'  ogni  tua  voglia,  e tutti  io  lei  ristretti 
Tien,  miscredo,  i tuoi  dolci  pensieri  : 
Vedi  che  or  non  se’  chi  pur  diami  eri. 

Dianzi  eri  di  una  fiera  cacciatore  : 

Più  bella  fiera  or  P ha  ne’  lacci  involto. 
Dianzi  eri  tuo , or  se’  fatto  d’ Amore  : 
Se’  or  legato , e dianzi  eri  disciolto. 

Dov’  è tua  liberti  1 dov’  è tuo  core  1 
Amore  ed  una  donna  te  1’  han  tolto  : 

Ed  acciocché  a te  poco  creder  deggi , 

Ve’  che  a virtù,  a fortuna  Amor  ponteggi. 

La  notte , che  le  cose  ci  nasconde , 
Tornava  ombrata  di  stellato  ammanto , 

E ’l  lusignluol  sotto  l’ amate  fronde 
Cantando  ripelea  l’ antico  pianto. 

Ma  solo  a suoi  lamenti  Ecco  risponde  ; 
Ch’  ogn’  altro augei  queUto  avea  gii  il  can- 
Dalla  cimmeria  valle  uscian  le  torme  [to. 
De'  Sogni  negri  con  diverse  forine. 

I giovan  che  restati  nel  bosco  erano , 
Vedendoli  ciel  gii  le  sue  stelle  accendere. 
Sentito  il  segno , al  cacciar  fine  imperano. 
Ciascun  s’  affretta  a lacci  e reti  stendere. 
Poi  con  la  preda  in  un  sentier  si  schiera- 
li] s’  attende  sol  parole  a vendere;  [no  : 
Ivi  menzogne  a «il  prezzo  sì  mcrcano. 

Poi  tutti  dei  bel  Giulio  fra  sè  cercano. 

Ma  non  reggendo  il  car  compagno  in- 
Agghiaccia  ognun  di subirapaura,  torno, 
Che  qualche  dura  fiera  U suo  ritorno 
Non  impedisca , od  altra  ria  sciagura. 
Chi  mostra  fochi , e chi  squilla  ii  suo  cor- 
chi forte  il  chiama  perla  selva  oscura,  [no; 
Le  lunghe  voci  ripercosse  abbondano  ; 

E Giulio  parche  le  valli  rispondano. 

Ciascun  si  sta  per  la  paura  incerto. 
Gelato  tutto  ; se  non  che  pur  chiama , 
Veggendo  ii  ciel  di  tenebre  coperto , 

Nè  sa  dove  cercare , ed  ognun  brama. 
Pur,  Giulio , Giulio , suona  il  gran  diserto  ; 
Non  sa  che  farsi  ornai  la  gente  grama. 

Ma  poi  che  molta  notte  Indarno  spesero , 
Dolenti  per  tornare  il  camrnin  presero. 

Cheti  sen  vanno  ; e pur  alcun  col  vero 
La  dubbia  speme  alquanto  riconforta , 
Che  sia  reddito  per  altro  sentiero 
Al  loco  ore  s’ invia  la  loro  scorta,  [siero, 
Ne’  petti  ondeggia  or  questo  or  quel  pen- 
Chc  fra  paura  e speme  il  cor  trasporta. 
Cosi  raggio  che  specchio  mobil  feria , 
Per  la  gran  sala  or  qua  or  U si  scherza. 


Ma  il  giovili , che  provato  avea  gii  l’ arco 
Ch’  ogn’  altra  cura  sgombra  fuor  del  petto, 
D’  altre  spemi  c paure  e pensier  carco. 
Era  arrivato  alla  magio»  soletto. 

Ivi  pensando  ai  suo  novello  incarco 
Stava  in  forti  pensier  tutto  ristretto. 
Quando  la  compagnia  piena  di  doglia 
Tutta  pensosa  cntrù  dentro  alla  soglia. 

Ivi  ciascun  più  da  vergogna  involto 
Per  gli  alli  gradi  sen  va  lento  lento. 

Qual  il  pastnr  a cui  T Iter  lupo  ha  tolto 
II  più  bel  loro  del  cornuto  armento; 
Tornansi  al  lor  signor  con  basso  volto  ; 
Nè  s’ a rdiscon  d’ entrare  all’  uscio  drento: 
Stan  sospirosi , e di  dolor  confusi  ; 

E ciascun  pensa  pur  come  si  scusi. 

Ma  tosto  ognuno  allegro  alzò  le  ciglia 
Veggendo  salvo  il  si  caro  pegno; 

Tal  si  fé’  poi  che  la  sua  dolce  figlia 
Ritrovò  Ccres  giù  nel  morto  regno. 

Tutu  festeggia  la  lieta  famiglia  : 

Con  essa  Giulio  di  gioir  fa  segno; 

E quanto  può  nel  cor  preme  sua  pena , 

E ii  volto  di  letizia  rasserena. 

Ma  fatto  Amor  la  sua  bella  vendetU , 
Mossesi  lieto  per  l’ acre  a volo, 

E ginne  al  regno  di  sua  madre  in  fretta, 
Ov’  è de’  picciol  suoi  fralci  Io  stuolo. 

Al  regno  ove  ogni  Grazia  si  diletta  ; 

Ove  BcIU  di  fiori  al  crin  fa  brolo  ; 

Ove  tutto  lascivo  dietro  a Fiora 
Zefiro  vola , c la  verde  erba  infiora. 

Or  canu  meco  un  po’  del  dolce  regno , 
Erato  bella , che  il  nome  hai  d’ Amore. 
Tu  sola,  benché  casta,  puoi  nei  regno 
Sicura  entrar  di  Venere  e d’  Amore. 

T u de’  versi  amorosi  hai  sola  ii  regno  : 
Tcco  sovente  a cantar  viensl  Amore; 

E posta  giù  dagli  omcr  la  faretra. 

Tenta  le  corde  di  tua  bella  cetra. 

Vagheggia  Cipri  un  dilettoso  monte. 
Che  del  gran  Nilo  i sette  corni  vede 
Al  primo  rosseggiar  deli’  orizzonte, 

Ove  poggiar  non  lice  a mortai  piede. 

Nel  giogo  un  verde  colle  alza  la  fronte  ; 
Soli’  esso  aprico  un  lieto  pratel  siede  ; 

L"  scherzando  tra’  fior  lascive  aurcttc. 
Fan  dolcemente  tremolar  1’  erbette. 

Corona  un  muro  d’  or  l’ estreme  sponde 
Con  valle  ombrosa  di  schietti  arboscelli , 
Ove  in  su’  rami  fra  novelle  fronde 
Cantan  gii  loro  amor  soavi  augelli. 
Sditesi  un  grato  mormorio  dell'  onde 


24  POEMI 

Che  fan  duo  freschi  e lucidi  ruscelli , 
Versando  dolce  con  amar  liquore , 

Ore  arma  I'  oro  de'  suoi  strali  Amore. 

Nè  mal  le  chiome  del  giardino  eterno 
Tenera  brina,  o fresca  neve  imbianca  i 
Ivi  non  osa  entrar  ghiacciato  Verno; 

Non  vento  I'  erbe , o gli  arboscelli  stanca  ; 
Ivi  non  volgon  gli  anni  il  lor  quaderno; 
Ma  lieta  Primavera  mai  non  manca , 

Che  I suoi  crln  biondi  e crespi  all’  aura 
E mille  fiori  in  ghirlandata  lega,  [spiega , 

Lungo  le  rive  I frati  di  Cupido, 

Che  solo  usati  ferir  la  plebe  Ignota , 

Con  alte  voci  e fanciullesco  grido 
Aguzzan  lor  saette  ad  una  cola. 

Piacere , Insidia  posati  In  su  '1  lido 
Volgono  il  perno  alla  sanguigna  rota  : 

Il  fallace  Sperar  col  van  Disio 
Spargon  nel  sasso  1'  acqua  del  bel  rio. 

Dolce  Paura  , e timido  Diletto, 

Dolci  Ire,  e dolci  Paci  Insieme  vanno  : 

Le  Lagrime  si  lavan  tutto  il  petto, 

E ’1  fiumiccllo  amaro  crescer  fanno  : 
Pallore  smorto , e paventoso  Alletto 
Con  Magrezza  si  duole , c con  Affanno  : 
VigilSospetto  ogni  sentiero  spia  : 

Letizia  balla  in  mezzo  della  via. 

Voluttà  con  Bellezza  si  gavazza  ; 

Va  fuggendo  il  Contento, e siede  Angoscia: 
11  cieco  Errore  or  qua  or  li  svolazza  : 
Percotesi  II  Furor  con  man  la  coscia  : 

La  Penitenzia  misera  stramazza , 

Che  del  passato  errar  s’ è accorta  poscia  : 
Nel  sangue  Crudeltà  lieta  si  ficca , 

E la  Disperazion  sè  stessa  impicca. 

Tacito  Inganno,  e simulato  Riso 
Con  Cenni  astuti , messaggicr  de'  cuori , 

E fissi  Sguardi  con  pietoso  Viso 
Tendon  lacciuoli  a'  giovani  tra'  fiori. 
Stassi  coi  volto  in  su  la  palma  assiso 
11  Pianto  in  compagnia  de'  suoi  Dolori  : 

E quinci  c quindi  vola  senza  modo 
Licenzia  non  ristretta  In  alcun  nodo. 

Cola)  milizia  1 tuoi  figli  accompagna, 
Venere  bella,  madre  degli  Amori, 

Zeliro  il  prato  di  rugiada  bagna  , 
Spargendolo  di  mille  vaghi  odori  : 
Ovunque  vola,  veste  la  campagna 
DI  rose,  gigli,  violette  e fiori  : 

L'  erba  di  sua  bellezza  ha  maraviglia  ; 
Bianca,  cilestra,  pallida  e vermiglia. 

Trema  la  mammolelta  verginella 
Con  occhi  bassi  onesta  e vergognosa  : 


EROICI. 

Ma  vie  più  lieta , più  ridente  c bella 
Ardisce  aprire  il  seno  al  sol  la  rosa  : 
Questa  di  verdi  gemme  s' incapella  : 
Quella  si  mostra  allo  sporte!  vezzosa, 

L' altra  che  ’n  dolce  fuoco  ardea  pur  ora , 
Languida  cade , e ’1  bel  pratello  Infiora. 

L’  alba  nutrica  d’  amoroso  nembo 
Giallcsanguigne  candide  viole  : [grembo; 
Descritto  ha  il  suo  dolor  Giacinto  In 
Narciso  al  rio  si  specchia  come  suole  : 

In  bianca  vesta  con  purpureo  lembo 
Si  gira  Clizia  pallidetta  al  Sole  : 

Adon  rinfresca  a Venere  il  suo  pianto  : 
Tre  lingue  mostra  Croco,  e ride  Acanto. 

Mal  rivesti  di  tante  gemme  1’  erba 
La  novella  siagion  clic  ’l  mondo  avviva. 
Sovr'  esso  il  verde  colle  alza  superba 
L’ ombrosa  chioma , u'  il  Sol  mai  non  ar- 
E sotto  vel  di  spessi  rami  serba  [riva  : 
Fresca  e gelata  una  fontana  viva, 

Con  si  pura  tranquilla  e chiara  vena , 
Che  gli  occhi  non  olfesi  al  fondo  mena. 

L'  acqua  da  viva  pomice  zampilla  , 

Che  con  suo  arco  il  bel  monte  sospende  ; 
E per  fiorito  solco  indi  tranquilla 
Pingendo  ogni  sua  orma  al  fonte  scende  : 
Dalle  cui  labbra  un  grato  umor  distilla , 
Chc’l  premio  di  lorombreagliarbor  ren- 
Ciascun  si  pasce  a mensa  non  avara;  [de. 
E par  che  1’  un  dell'  altro  cresca  a gara. 

Cresce  l' abelo  schietto  e senza  nocchi , 
Da  spander  l'alea  Borea  in  mezzo  i'onde  : 
L' elee , che  par  di  mel  tutta  trabocchi  ; 

E 11  laur,  che  tanto  fa  bramar  sue  fronde  : 
Bagna  Cipresso  ancor  pel  cervo  gli  occhi. 
Con  chiome  or  aspre  or  giù  distese  e 
bionde  : 

Ma  l’ arbor  clic  giù  tanto  ad  Ercol  piacque. 
Col  piatati  si  trastulla  intorno  all'  acque. 

Surge  robusto  il  ccrro , ed  alto  il  faggio. 
Nodoso  il  cornio , e '1  salcio  umido  e lento, 
L’ olmo  fronzuto,  e '1  frassin  piùselvaggio. 
Il  pino  alletta  con  suo  fischio  il  vento, 

L’  avornio  tesse  ghirlandette  al  Maggio  ; 
Ma  l’  acer  d’  un  color  non  è contento. 

La  lenta  palma  serba  pregio  a’  forti  : 

L’  edera  va  carpon  co'  piè  distorti. 

Mostransi  adorne  le  viti  novelle 
D'  abiti  vari,  e con  diversa  faccia. 

Questa  gonfiando  fa  crepar  la  pelle  ; 
Questa  racquista  le  perdute  braccia  : 
Quella  tessendo  vaghe  c liete  ombrelle 
Pur  con  pampiuee  fronde  Apollo  scaccia 


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STANZE. 


25 


Quella  ancor  monca  piange  a capo  chino, 
Spargendo  or  acqua,  per  versar  poi  vino. 

Il  chiuso  e crespo  bosso  al  vento  on- 
E fa  la  piaggia  di  verdura  adorna  : [deggia, 

Il  mirto , clic  sua  Dea  sempre  v agheggia , 

Di  bianchi  fiori  i verdi  capelli  orna. 

Ivi  ogni  fiera  per  amor  vaneggia  : 

L’ un  ver  l'altro  i montoni  armanlccoma; 

L’ un  l’ altro  cozza , e l' un  l' altro  martella 
Davanti  all’  amorosa  pecorella. 

I muggii ianti  giovenchi  appiè  del  colle 
Fan  vie  più  cruda  e disperala  guerra 
Col  collo  e '1  petto  insanguinato  c molle , 
Spargendo  al  ciel  co'  piè  l’ erbosa  terra. 
Pien  di  sanguigna  schiuma  il  cinghiai 
bolle , 

Le  targhe  zanne  arruola , c ’1  grifo  serra , 

E rugge  e raspa , e per  armar  sue  forze 
Frega  il  calloso  cuoio  a dure  scorze. 

Provan  lor  pugna  1 daini  paurosi , 

E per  I'  amata  druda  ardili  fansì  : 

Ha  con  pelle  vergala  aspri  e rabbiosi 
I Ugrl  infuriali  a ferir  vansi. 

Sbatton  le  code , e con  occhi  focosi 
Ruggendo  II  Ber  leon  di  petto  dansi. 

Zufola  e soffia  il  serpe  per  la  biscia , 

Mentr’  ella  con  tre  lingue  al  Sol  si  liscia. 

Il  cervo  appresso  alla  Massilia  fera 
Co’  piè  levati  la  sua  sposa  abbraccia  : 

Fra  1’  erba  ove  piu  ride  Primavera, 

L’  un  coniglio  coli  1’  altro  s’  accovaccia. 

Le  semplicette  capre  vanno  a schiera 
Da'  can  sicure  all’  amorosa  traccia  ; 

Si  I’  odio  antico , e T naturai  timore 
Ne’  petti  ammorza,  quando  vuole,  Amore. 

1 muti  pesci  in  frotu  van  notando 
Dentro  al  vivente  e tenero  cristallo , 

E spesso  intorno  al  fonte  roteando 
Guidan  felice  e dilettoso  ballo  : 

Tal  volu  sopra  1’  acqua  un  po’  guizzando. 
Mentre  l’ un  1’  altro  segue , escono  a gallo  : 
Ogni  lor  atto  sembra  festa  e giuoco  ; 

Nè  spengon  le  fredde  acque  il  dolce  foco. 

Gli  augellettl  dipinti  Intra  le  foglie 
Fan  l' aere  addolcir  con  nuove  rime  ; 

E fra  più  voci  un’  armonia  s’  accoglie 
Di  sì  beate  note , e si  sublime  , 

Che  mente  involta  in  queste  umane  spoglie 
Non  potria  sormontare  alle  sue  cime  s 
E dove  Amor  gli  scorge  pel  boschetto, 
Saltan  di  ramo  In  ramo  a lor  diletto. 

Al  canto  della  selva  Ecco  rimbomba  : 
Ma  sotto  I’  ombra  che  ogni  ramo  annoda 


La  passerella  gracchia , e attorno  romba  ì 
Spiega  11  pavon  la  sua  gemmata  coda  : 

Bacia  il  suo  dolce  sposo  la  colomba  : 

I bianchi  cigni  fan  sonar  la  proda  : 

E presso  alla  sua  vaga  tortorella 

II  pappagallo  squittisce  e favella. 

Quivi  Cupido,  e 1 suol  pennuti  frati. 

Lassi  già  di  ferire  uomini  e Dei , 

Prcndon  diporto,  e con  gli  strali  aurati 
Fan  sentire  alle  fiere  1 crudi  omei. 

La  Dea  Ciprigna  fra’  suoi  dolci  nati 
Spesso  sen  viene , e Pasitea  con  lei , 
Quotando  in  lieve  sonno  gli  occhi  belli 
Fra  1’  erbe  e’  fiori  e’  gioveni  arboscelli. 

Move  dal  colle  mansueta  e dolce 
La  schiena  del  bel  monte , e sopra  1 crini, 
D’ oro  e di  gemme  un  grati  palazzo  folce. 
Sudato  già  nei  cicilian  cammini. 

Le  tre  Ore , che  ’n  cima  son  bobolce , 
Pascon  d'  ambrosia  i fior  sacri  e divini  : 

Nè  prima  dal  suo  gambo  un  se  ne  coglie, 
Ch’  un  altro  al  ciel  più  apre  le  sue  foglie. 
Raggia  davanti  all’ uscio  una  gran  pian* 
ta, 

Che  fronde  ha  di  smeraldo , e pomi  d' oro  ; 

E pomi  eh’  arrestar  femo  Atalanta  , 

Che  ad  Ippomenc  dierno  il  verde  alloro. 
Sempre  sovr’  essa  Filomena  canta  ; 
Sempre  solt’  essa  è delle  Ninfe  un  coro. 
Spesso  Imeneo  col  suon  di  sua  zampogna 
Tempra  lor  danze , c pur  le  nozze  agogna. 

La  regia  casa  il  sereno  aer  fende , 
Fiammeggiante  di  gemme  e di  fin  oro, 
Che  chiaro  giorno  a mezza  notte  accende 
Ma  vinta  è la  materia  dal  lavoro. 

Sopra  colonne  adamantine  pende 
Un  palco  di  smeraldo,  in  cui  già  foro 
Aneli  e stanchi  dentro  a MongiboUo 
Slcrope  e Brente  ed  ogni  lor  martello. 

Le  mura  attorno  d’  artificio  miro 
Forma  un  soave  c lucido  berillo. 

Passa  pel  dolce  orientai  zaffiro 
Nell’  ampioalbergo  il  di  pure  e tranquillo  ; 
Ma  il  letto  d’ oro  in  cui  1’  estremo  giro 
Si  chiude  contea  Febo  apre  il  vessillo. 
Per  varie  pietre  il  pavimento  ameno 
Di  mlrabil  pittura  adorna  il  seno. 

Mille  e mille  color  forman  le  porte , 

Di  gemme  c di  si  vivi  Intagli  chiare , 

Che  tutte  altre  opre  sarian  rozze  c morte , 
Da  far  ili  s è Natura  vergognare. 

Nell’  una  è sculla  l’ infelice  sorte 
Del  vecchio  Celio  ; e in  visto  Irato  pare 
2 


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26  POEMI 

Suo  figlio,  c con  la  falce  adunca  sembra 
Tagliar  del  padre  le  feconde  membra. 

hi  la  Terra  con  distesi  ammonti  [glia; 
Par  eh*  ogni  goccia  di  quel  sangue  acco- 
Ondc  nate  le  Furie  e 1 fier  Giganti 
Di  sparger  sangue  in  rista  mostran  voglia. 
D’  un  seme  stesso  in  diversi  sembianti 
Paion  le  Ninfe  uscite  senza  spoglia , 

Pur  come  snelle  cacciatrici  in  selva , 

Gir  saettando  or  una  or  altra  belva. 

Nel  tempestoso  Egeo  in  grembo  a Teli 
Si  vide  il  fusto  genitale  accolto, 

Sotto  diverso  volger  di  pianeti  [volto; 
Errar  per  P onde  in  bianca  schiuma  av- 
E dentro  nata  in  atti  vaghi  e lieti 
Una  donzella  non  con  uman  volto. 

Da*  Zefiri  lascivi  spinta  a proda , [goda. 
Gir  sopra  un  nicchio;  e par  che  ’l  ciel  nc 

Vera  la  schiuma , e vero  il  mar  direste, 
Il  nicchio  ver,  vero  il  soffiar  de’  venti. 

La  Dea  negli  ocelli  folgorar  vedreste , 

E *1  elei  riderle  attorno  e gli  clementi  : 

L*  Ore  premer  1*  arena  in  bianche  veste , 
L’  aura  increspar  11  crin  distesi  c lenti  : 
Non  una,  non  diversa  esser  lor  faccia, 
Come  par  che  a sorelle  ben  confacela. 

Giurar  potresti  che  dell’  onde  uscisse 
La  Dea  premendo  con  la  destra  il  crino, 
Con  1*  altra  il  dolce  pomo  ricoprisse; 

E stampata  dal  piè  sacro  c divino, 

D’  erba  c dì  fior  la  rena  si  vestisse  ; 

Poi  con  sembiante  lieto  e pellegrino 
Dalle  tre  Ninfe  in  grembo  fosse  accolla , 
E di  stellato  vestimento  involta. 

Questa  con  ambe  man  le  licn  sospesa 
Sopra  I*  umide  trecce  una  ghirlanda 
D’  oro  c di  gemme  orientali  accesa  : 
Quella  una  perla  agli  orecchi  accomanda  : 
L*  altra  al  bel  petto  c bianchi  omeri  intesa 
Par  che  ricchi  monili  intorno  spanda, 
De’  qua*  solcati  cerchiar  le  proprie  gole 
Quando  nel  ciel  guidavan  le  carole. 

Indi  paion  levale  in  ver  le  spere 
Seder  sopra  una  nu\ola  d’  argento  : 

L’  aer  tremante  ti  parria  vedere 

Nel  duro  sasso , c tutto  ’l  ciel  contento  : 

Tutti  li  Dii  di  sua  beltà  godere, 

E del  felice  letto  aver  talento  : 

Ciascun  sembrar  nel  volto  maraviglia. 
Con  fronte  crespa  e rilevate  ciglia. 

Nello  estremo  sè  stesso  il  divin  Fabro 
Formò , felice  di  si  dolce  palma  , 

Ancor  delia  fucina  irsuto  e scabro , 


EROICI. 

Quasi  obbliando  per  lei  ogni  salma, 

Con  disire  aggiungendo  labro  a labro, 
Come  tutta  d’  amor  gli  ardesse  I*  alma  : 

E par  via  maggior  foco  acceso  in  elio , 
Che  quel  eh*  avea  lasciato  In  Mongibello. 

Nell*  altra,  in  un  formoso  e bianco  tauro 
Si  vede  Giove  per  amor  converso 
Portarne  il  dolce  suo  ricco  tesauro , 

E le!  volgere  II  viso  al  li  lo  perso 
In  atto  paventosa;  cl  be’  crin  d’  atiro 
Scherzan  nel  petto  per  lo  vento  avverso  : 
La  vesta  ondeggia  e indietro  fa  ritorno; 
L’ una  man  lien  al  dorso,  e I*  altra  al  corno. 

Le  ignudo  piante  a sè  ristrette  accoglie , 
Quasi  temendo  *1  mar  che  non  le  bagne  : 
Tale  atteggiata  di  paure  e doglie 
Par  chiami  in  van  le  sue  dolci  compagne; 
Le  quali  assise  tra  fioretti  c foglie 
Dolenti  Europa  ciascheduna  piagne. 
Europa  sona  il  filo,  Europa,  riedì  : 
il  toro  nota,  c talor  bacia  i piedi,  [d’oro; 

Or  si  fa  Giove  un  cigno,  or  pioggia 
Or  di  serpente,  or  di  pastor  fa  fede, 

Per  fornir  1*  amoroso  suo  lavoro; 

Or  trasformarsi  in  aquila  si  vede , 

(ionie  Amor  vuole,  e nel  celeste  coro 
Portar  sospeso  il  suo  bel  Ganimede; 

Lo  quale  ha  di  cipresso  il  capo  avvìnto , 
Ignudo  tutto,  e sol  d*  erbetta  cinto. 

Passi  Nettuno  un  lanoso  montone; 
Passi  un  torvo  giovenco  per  amore  : 
Passi  un  cavallo  il  padre  di  Ghironc  : 
Diventa  Febo  in  Tessaglia  un  pastore; 

E *n  picciola  capanna  si  ripone 
Colui  eh’  a tutto  ’l  mondo  dà  splendore; 
Nè  gli  giova  a sanar  sue  piaghe  acerbe, 
Perchè  conosca  le  virtù  dell’  erbe. 

Poi  segue  Dafne,  c *n  sembianza  si  lagna 
Come  dicesse:  O Ninfa,  non  ten  gire  : 
Ferma  il  piè  , Ninfa , sopra  la  campagna, 
Gli’  io  non  li  seguo  per  farti  morire  : 
Così  cerva  Icon , cosi  lupo  agua , 
Ciascuno  H suo  nemico  suol  fuggire; 

Me  perchè  fuggi , o donna  del  mio  core , 
Cui  di  seguirti  è sol  cagione  amore  ? 

Dall’  altra  parte  la  bella  Arlauna 
Con  le  sorde  acque  di  Teseo  si  dolo, 

E dell’  aura  c del  sonno  che  la  inganna  ; 
Di  paura  tremando , come  sole 
Per  piccioi  vcntolin  palustre  canna  : 

Par  che  in  atto  abbia  impresse  lai  parole  s 
Ogni  fiera  di  tc  meno  è crudele  : 

Oguun  di  te  più  mi  saria  fedele. 


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STANZE.  57 


Vien  sopra  un  carro  d’  ellera  e di  pam- 
[pino 

Coperto  Bacco , Il  qual  duo  tigri  guidano , 
E con  lui  par  che  I*  alta  rena  stampino 
Satiri  e Bacche,  e con  voci  alte  gridano, 
Quei  si  Tede  ondeggiar;  quel  par  eh’  in- 
ciampino ; [ridano  : 

Quel  con  un  cembai  bee  : quei  par  che 
Qual  fa  d’  nn  corno,  e qual  delle  man 
ciotola , 

Qual  ha  preso  unaNinfa , e qual  si  rotola. 

Sopra  T asln  Silen , di  ber  sempre  avido. 
Con  vene  grosse , nere , e dì  mosto  umide 
Marchio  sembra,  sonnacchioso,  e gravido; 
Leluci  badi  vin  rosse , enfiate  e tumide  : 
L’  ardite  Ninfe  1'  asinel  suo  pavido 
Pungon  col  tirso  ; ed  ei  con  le  man  tumide 
A’  crin  s' appiglia  ; e mentre  si  l’ attizzano, 
Casca  nei  collo , e 1 Satiri  lo  rizzano. 

Quasi  in  un  tratto  vista . amata , e tolta 
Dal  fiero  Pluto  Proserpina  pare  [sciolta 
Sopra  un  gran  carro,  e la  sua  chioma 
A’  zefiri  amorosi  ventilare; 

La  bianca  vesta  In  un  bel  gremboaecolta 
Sembra  i colti  fioretti  giù  versare  : 

Si  percuote  ella  il  petto , e in  vista  piagne. 
Or  la  madre  chiamando,  or  le  compagne. 

Posa  giù  dei  leone  il  fiero  spoglio 
Ercole , e veste  femminina  gonna  : 

Colui  che  ’l  mondo  da  grave  cordoglio 
Avea  scampato  ; ed  or  serve  una  donna. 
E può  soffrir  d' Amori’  indegno  orgoglio. 
Chi  con  gli  omcr  gii  fece  al  elei  colonna , 

E quella  man  con  che  era  a tenere  uso 
La  clava  poderosa , or  torce  un  fuso. 

Gli  omer  setosi  a Polifemo  ingombrano 
L’  orribil  chiome , e nel  gran  petto  ca- 
scano; [brano; 

E fresche  ghiande  1’  aspre  tempie  adom- 
Presso  a sè  par  sue  pecore  che  pascano  ; 
Nè  a costui  dai  cor  giammai  disgombrano 
Li  dolci  acerbi  lai , che  d’  amor  nascano  ; 
Anzi  tuttodì  piantocdolormacero  [cero. 
Seggia  in  un  freddo  sasso  appiè  d’  un  a- 
Daii’  una  all’  altra  orecchiami  arco  face 
Il  ciglio  irsuto  lungo  ben  sei  spanne  : 
Largo  sotto  la  fronte  il  naso  giace  ; 

Paion  di  schiuma  biancheggiar  le  zanne. 
Tra’  piedi  ha  il  cane  ; e sotto  il  braccio  tace 
Una  zampogna  ben  di  cento  canne,  [note 
E guarda  il  mar  eh’  ondeggia , e alpestre 
Par  canti , e mova  le  lanose  gote. 

E dica  eh’  ella  è bianca  più  che  il  latte , 


Ma  più  superba  assai  eh’  una  vitella  ; 

E che  molte  ghirlande  le  ha  già  fatte , 

E serbale  una  cerva  molto  bella , 

Un  orsacchln  clic  gii  col  can  combatte  t 
E che  per  lei  si  macera  e flagella  ; 

E che  ha  gran  voglia  di  saper  notare 
Per  andare  a trovarla  Infili  nel  mare. 

Duo  formosi  delfini  un  carro  tirano; 
Sovr*  esso  è Galatea,  che’l  fren  corregge  : 
E quei  notando  parimente  spirano; 
Ruotasi  attorno  più  lasciva  gregge. 

Qual  le  salse  onde  sputa.e  qual  s’ aggi  rano, 
Qual  parche  per  amor  giuochi  e vanegge. 
La  beila  Ninfa  con  le  suore  fide 
Di  si  rozzo  cantar  vezzosa  ride. 

Intorno  al  bel  lavor  serpeggia  acanto 
Di  rose  e mirti  e lieti  fior  contesto, 

Con  vari  auge!  si  fatti , che  il  ior  canto 
Pare  udir  negli  orecchi  manifesto  : 

Nè  d'  altro  si  pregiò  Vulcan  mai  tanto. 
Nè  ’l  vero  stesso  ha  più  del  ver  clic  questo: 
E quanto  1’  arte  Intra  sè  non  comprende. 
La  mente  immaginando  chiaro  intende. 

Questo  è il  loco  che  tanto  a Vener  piac- 
A Vener  bella,  alla  madre  d’ Amore,  [que, 
Qui  l' arder  fraudolente  In  prima  nacque , 
Che  spesso  fa  cangiar  voglia  c colore  : 
Quei  che  soggioga  II  del,  la  terra  e l’acque, 
Cile  tende  agli  occhi  reti , e prende  il  core  ; 
Dolce  In  sembianti , in  atto  aceri»  e fello , 
Giovane  nudo,  e faretrato  augello. 

Or  poi  che  ad  ali  tese  ivi  pervenne , 
Forte  le  scosse , c giù  calossi  a piombo , 
Tutto  serrato  nelle  sacre  penne, 

Come  a suo  nido  fa  lieto  colombo. 

L'  acr  ferrato  assai  stagion  ritenne 
Della  pennuta  striscia  il  forte  rombo. 

Ivi  racquete  le  trionfanti  ale, 
Superbamente  Invcr  la  madre  saie. 

Trovolla  assisa  in  Ietto  fuordel  lembo 
Pur  mo  di  Marte  sciolta  dalle  braccia, 

Il  qual  rovescio  le  giaceva  in  grembo 
Pascendo  gli  occhi  pur  deila  sua  faccia. 
Di  rose  sopra  Ior  pioveva  un  nembo 
Per  rinnovargli  all’  amorosa  traeda  : 

Ma  Vener  dava  a lui  con  voglie  pronte 
Mille  baci  negli  occhi  e nella  fronte. 

Sopra  e d’ intorno  I pleelolett!  Amori 
Schcrzavan  nudi  or  qua  or  la  volando , 

E qnal  con  alt  di  mille  colori 
Giva  le  sparte  rose  ventilando  : 

Qual  la  faretra  emptea  di  freschi  fiori , 
Poi  sopra  il  Ietto  la  venta  versando  : 


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28  POEMI 

Qual  la  cadente  nuvola  rompea 
Fermo  in  su  P ali , e poi  giù  In  scotea  : 
Come  avea  dalle  penne  dato  un  crollo , 
Cosi  P erranti  roso  cran  riprese  : 

Nessun  del  vaneggiare  era  satollo. 
Quando  apparve  Cupido  ad  ali  tese 
Ansando  tutto , e di  sua  madre  al  collo 
Giltossi , e pur  co’  vanni  il  cor  le  accese 
Allegro  in  vista,  e si  lasso,  che  appena 
Potea  ben  per  parlar  riprender  lena. 


EROICI. 

Onde  vien’ , figlio?  o quai  n’apporti  no- 
Vencr  gli  disse , e lo  baciò  nel  volto  ; [ve? 
Ond’  eslo  tuo  sudor  ? quai  fa  t le  hai  prove  ? 
Qual  Dio, qual  uom  hai  ne’  tuoi  lacci  in- 
volto ? 

Fai  tu  di  nuovo  In  Tiro  mugghiar  Giove  ? 
0 Saturno  ringhiar  per  Delio  folto? 

Quel  che  ciò  sia  , non  uuiil  cosa  parmi , 

0 figlio , o sola  mia  potenzia  ed  armi. 


LIBRO  SECONDO. 


Eran  già  tutti  alla  risposta  attenti 

I pargoletti  intorno  all’aureo  letto. 
Quando  Cupido  con  occhi  ridenti 
Tutto  protervo  nel  lascivo  aspetto 

Si  stringe  a Marte,  e con  gli  strali  ardenti 
Della  faretra  gli  ripunse  li  petto, 

E con  le  labbra  tinte  di  veleno 
Baciollo,  c ’l  foco  suo  gli  mise  In  seno. 

Poi  rispose  alla  madre  : E’  non  è vana 
La  cagion  che  si  lieto  a te  mi  guida , 
Ch'io  ho  tolto  dal  coro  di  Diana 

II  primo  conduttor,  la  prima  guida. 
Colui  di  cui  gioir  vedi  Toscana , 

Di  cui  già  infin  ai  del  la  fama  grida , 

Infili  agl'indi,  infìn  al  vecchio  Mauro, 
Giulio,  minor  fralcl  del  nostro  Lauro. 

L'antica  gloria  e '1  celebrato  onore 
Chi  non  sa  della  Medica  famiglia? 

E del  gran  Cosmo,  italico  splendore. 

Di  cui  la  patria  sua  si  chiamò  figlia? 

E quanto  Pietro  al  paterno  valore 
Aggiunse  pregio,  e con  qual  maraviglia 
Dal  corpo  di  sua  patria  rimosse  abbia 
Le  scellerate  man,  la  crude!  rabbia? 

Di  questo  e della  nobile  Lucrezia 
Nacquenc  Giulio,  e pria  ne  nacque  [.auro  ; 
Lauro,  eh’ ancor  della  bella  Lucrezia, 
Arde  ; c dura  ella  ancor  si  mostra  a Lauro  ; 
Rigida  più  eh’ in  Roma  già  Lucrezia, 

0 in  Tessaglia  colei  eh* è fatta  un  lauro; 
Nè  mai  degnò  mostrar  di  Lauro  agli  occhi 
Se  non  tutta  superba  l suoi  begli  occhi. 

Non  priego,  non  lamento  al  mescliin  va- 
Ch'ella  sta  fissa  come  torre  al  vento;  [le 
Perch'io  lei  punsi  col  piombato  strale, 
E col  dorato  lui  ; di  che  or  mi  pento. 

Ma  tanto  scolerò , madre , queste  ale , 


Che  foco  accenderollc  al  petto  drcnto. 
Richiede  ormai  da  noi  qualche  restauro 
La  lunga  fedeltà  del  franco  Lauro. 

Gilè  tultor  parmi  pur  veder  pel  campo 
Armato  lui,  armato  il  corridore, 

Come  un  fier  drago  gir  menando  vampo, 
Abbatter  questo  c quello  a gran  furore  : 
L'armi  lucenti  sue  spargere  un  lampo 
Clic  facciali  tremar  l’aere  di  splendore  ; 
Poi  fatto  di  virtulc  a tutti  esempio, 
Riportarne  il  trionfo  al  nostro  tempio. 

E che  lamenti  già  le  Muse  forno  1 
E quanto  Apollo  s’è  già  moto  dolio. 
Ch'io  tenga  il  lor  poeta  in  tanto  scherno! 
Ed  io  con  che  pietà  suoi  versi  ascolto! 
Ch’Io  1*  ho  già  visto  al  più  rigido  verno, 
Pien  di  pruina  I crln , le  spalle  e '1  volto 
Dolersi  con  le  stelle  e con  la  luna 
Di  lei , di  noi , di  sua  crude!  fortuna,  [te  : 
Per  tutto  il  mondo  ha  nostre  laudi  spar- 
Mai  d’altro,  mai,  se  non d’ amor  ragiona; 
E polca  dir  le  tue  fatiche,  o Marte, 

Le  trombe  c l’arme  e '1  furor  di  Bellona: 
Ma  volle  sol  di  noi  vergar  le  carte, 

E di  quella  gentil  eh' a dir  lo  sprona. 
Ond’ io  lei  farò  pia,  madre,  al  suo  amante; 
Gilè  pur  son  tuo,  non  nato  d’adamante. 

Io  non  son  nato  di  ruvida  scorza. 

Ma  di  te,  madre  bella,  e son  tuo  figlio; 
Nè  crudele  esser  deggio  ; ed  ci  mi  sforza 
A riguardarlo  con  pietoso  ciglio; 

Assai  provato  ha  l’ amorosa  forza  , 

Assai  giaciuto  è sotto  il  nostro  artiglio. 
Giusto  è ch’ei  faccia  ornai  co’  sospir  tregua; 
E del  suo  buon  servir  premio  consegua. 
I Ma  il  bel  Giulio,  ch’a  noi  stato  è ribello, 
> E sol  di  Delia  seguito  ha  il  trionfo , 


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STANZE.  29 


Or  dietro  all’  orme  del  suo  buon  fratello 
Yien  catenato  innanzi  al  mio  trionfo  : 

Nè  mostrerò  giammai  pietate  ad  elio 
Fio  che  ne  porterà  nuovo  trionfo  ; 

Ch’io  gli  ho  ne!  core  dritta  una  saetta 
Dagli  occhi  della  bella  Simonetta. 

E sai  quanto  nel  petto  e nelle  braccia , 
Quanto  sopra  il  destriero  è poderoso  : 
Pur  mo  lo  vidi  si  feroce  In  caccia , 

Che  parca  il  bosco  di  lui  paventoso; 
Tutta  aspreggiata  avea  la  bella  faccia , 
Tutto  adirato,  tutto  era  focoso. 

Tal  vld’io  te  là  sopra  al  Termodonte 
Cavalcar,  Marte,  e non  con  està  fronte. 

Quest’è,  madre  gentil , la  mia  vittoria; 
Quinci  è *1  mio  travagliar,  quinci  è ’l  su- 
Cosi  va  sovr  ’ al  ciel  la  nostra  gloria , [dorè  ; 
Il  nostro  pregio,  il  nostro  antico  onore  : 
Così  mai  cancellala  la  memoria 
Di  te  non  fia,  nè  del  tuo  figlio  Amore; 
Cosi  canterali  sempre  c versi  e cetre 
Gli  strai,  le  fiamme,  gli  archi  c le  faretre. 

Fatta  ella  allor  più  gaia  nel  sembiante, 
Balenò  intorno  uno  splendor  vermiglio, 
Da  fare  un  sasso  diventare  amante. 

Non  pur  te,  Marte  : e tale  ardea  nel  ciglio, 
Qual  suol  la  bella  Aurora  fiammeggiante: 
Poi  tutto  al  petto  si  ristringe  il  figlio; 

E trattando  con  man  sue  chiome  bionde, 
Tutto  il  vagheggia  ; e lieta  gli  risponde  : 
Assai,  bel  figlio,  il  tuo  desir  ni’  aggrada, 
Chè  nostra  gloria  ognor  più  l’ale  spanda. 
Chi  erra , torni  alla  verace  strada  : 
Obbligo  è di  servir  chi  ben  comanda. 
Purcomien  che  di  nuovo  in  campo  vada 
Lauro,  c si  cinga  di  nova  ghirlanda; 
Chè  virtù  negli  affanni  più  s’  accende, 
Come  l’oro  nel  foco  più  risplende. 

Ma  in  prima  fa  mestier  clic  Giulio  s'arml, 
Sì  clic  di  nostra  fama  il  mondo  adempì  : 
E tal  del  forte  Achille  or  canta  Tanni, 

E rinnova  in  suo  stil  gli  antichi  tempi , 
Che  diverrà  testor  de’  nostri  carmi , 
Cantando  pur  degli  amorosi  esempi  ; 
Onde  la  nostra  gloria,  o bel  figliuolo, 
Vedrern  sopra  le  stelle  alzarsi  a volo. 

E voi  altri,  mici  figli,  al  popol  tosco 
Lieti  volgete  le  trionfanti  ale  : 

Gite  tutti  fendendo  T aer  fosco  ; 

Tosto  prendete  ognun  l’arco  e lo  strale: 
Di  Marte  il  fiero  ardor  sen  venga  vosco. 
Or  vedrò,  figli,  qual  di  voi  più  vale  : 
Gite  tutti  a ferir  nel  toscan  coro; 


Ch*  i’  serbo  a chi  fier  prima  un  arco  d’oro. 

Tosto  al  suo  dire  ognun  arco  e quadrella 
Riprende,  e la  faretra  al  fianco  alloga; 
Come  al  fischiar  del  comlto  sfrondila 
La  nuda  ciurma , e I remi  mette  in  voga. 
Già  per  Taer  ne  va  la  schiera  snella  : 
Già  sopra  alla  città  calan  con  foga. 

Cosi  i vapor  pel  bel  scren  giù  scendono, 
Che  paion  stelle,  mentre  l’aer  fendono. 

Vanno  spiando  gli  animi  gentili , 

Che  son  dolce  esca  all’amoroso  foco: 
Sovr’ essi  batton  forte  i lor  fucili, 

E fangli  apprender  tutti  a poco  a poco: 
L’ardor  di  Marte  ne'  cuor  giovenill 
S' affigge  e quelli  infiamma  del  suo  giuoco: 
E mentre  stanno  Involti  nel  sopore , 
Pare  a’  giovai:  far  guerra  per  Amore. 

E come  quando  il  Sole  l Pesci  accende, 
Di  sua  virtù  la  terra  è tutta  pregna; 

Gilè  poscia  Primavera  fuor  si  stende 
Mostrando  al  ciel  verde  c fiorita  insegna  : 
Cosi  ne’  pelli  ove  lor  foco  scende. 
S'abbarbica  un  disio  che  dentro  regna; 
Un  disio  sol  d’eterna  gloria  c fama, 

Clic  T infiammale  nienti  a virtù  chiama. 

Esce  sbandita  la  viltà  d’ogni  alma, 

E,  benché  tarda  sia,  pigrizia  fugge  : 

A libcrtate  l’ima  e l’altra  palma 
Lcgan  gii  Amori  ; c quella  irata  rugge. 
Solo  in  disio  di  gloriosa  palina 
Ogni  cor  giovcnil  s’accende  e strugge: 

E dentro  al  petto  sopito  dal  sonno 
Gli  spiriti  d' Amor  posar  non  ponno. 

E così  mentre  ognun  dormendo  langue, 
Ne’  lacci  è involto,  onde  giammai  non  esce: 
Ma  come  suol  fra  l’erba  il  picciol  angue 
Tacito  errare,  o sotto  Tonde  il  pesce, 

Si  van  correndo  per  Tossa  c pel  sangue 
Gli  ardenti  spiritelli , c ’l  foco  cresce. 

Ma  Vener,  come  I presti  suoi  corrieri 
Vide  parlili , mosse  altri  pensieri. 

Pasitca  fe’  chiamar,  del  Sonno  sposa, 
Pasilea  delle  Grazie  una  sorella, 

Pasilea,  che  dell’ altre  è più  famosa, 
Quella  che  sopra  tutte  è la  più  bella; 

E disse  : Muovi,  o Ninfa  graziosa. 

Trov  a il  consorte  tuo  veloce  e snella  : 

Fa  clic  mostri  al  bel  Giulio  tale  inimago. 
Che  ’l  faccia  dimostrarsi  al  campo  vago. 

Cosi  le  disse  ; e già  la  Ninfa  accorta 
Correa  sospesa  per  T aria  serena  : 

Quote  senz* alcun  rombo  Tale  porta, 

E lo  ritrova  in  men  che  non  balena  : 


30  POEMI 

Al  carro  della  Nolte  lacca  scorta , 

E l'aria  intorno  avea  di  Sogni  piena 
Di  varie  (orme , e stranier  portamenti  ; 

E Iacea  racquetare  i fiumi  e I venti,  [ve. 
Come  la  Ninfa  a’ suoi  gravi  occhi  apjiar- 
Gol  folgorar  d’ un  riso  glieli  aperse  : 

Ogni  nube  dal  ciglio  via  disparve, 

Cbè  la  forza  del  raggio  non  sofferse. 
Ciascun  de'  Sogni  dentro  alle  lor  larve 
Gli  sì  fe’  incontro,  e ’l  viso  discoperse: 
Ma  poi  ch’ella  Morfeo  tra  gli  altri  scelse, 
Lo  chiese  al  Sonno-,  e tosto  indi  si  svelse. 

Indi  si  svelse , e di  questo  convenne 
Tosto  ammonirlo  ; e parti  senza  posa. 
Appena  Unto  il  ciglio  alto  sostenne , 

Che  fatU  era  già  tutu  sonnacchiosa. 
Yassen  volando  senza  mover  penne , 

E ritorna  a sua  Dea,  lieta  c gioiosa. 

Gli  scelti  Sogni  ad  obbedir  s'affrettano, 
E sotto  nuove  fogge  si  rassettano. 

Quali  i soldati  che  di  fuor  s’attendono, 
Quando  senza  sospetto  par  che  giacciano. 
Per  suon  di  tromba  al  guerreggiar  s' ac- 
cendono , 

Vestonsi  le  corazze , e gli  elmi  allacciano  ; 
E giù  dal  fianco  le  spade  sospendono  , 
Grappali  le  lance , e i forti  scudi  imbrac- 
E cosi  divisati  i dcstricr  pungono  [ciano: 
Tanto , ciie  la  nemica  schiera  giungono. 

Tempo  era  quando  l' alba  s’ avvicina , 
E divien  fosca  l'aria,  ov’era  bruna  ; 

E giù  il  carro  stellato  Icaro  inchina , 

E par  nel  volto  scolorir  la  Luna  ; 

Quando  ciò  eh'  al  bel  Giulio  il  elei  destina 
Mostrano  i Sogni  e sua  dolce  Fortuna  ; 
Dolce  al  principio,  al  fin  poi  troppo  amara; 
Perocché  sempre  dolce  al  mondo  è rara. 

Pargli  veder  feroce  la  sua  donna , 
Tutu  nel  volto  rigida  e proterva 
Legar  Cupido  alla  verde  colonna 
Della  felice  pianta  di  Minerva , 

Annata  sopra  alla  candida  gonna , 

Che  ’l  casto  petto  coi  Gorgon  conserva , 
E par  che  tutte  gli  spennacchi  l’ali , 

E che  rompa  ai  ineschili  l’arcoe  gli  strali. 

Ahimè  ! quanto  era  muUto  da  quello 
Amor , che  me  tornò  tutto  gioioso  ! 

Non  era  sopra  l'ale  altiero  c snello, 

Non  del  trionfo  suo  punto  orgoglioso: 
Anzi  mercè  chiamava  il  meschineilo 
Miseramente,  e con  volto  pietoso  ; 
Gridando  a Giulio:  Miserere  uiei; 
Difendimi , o boi  Giulio , da  costei. 


EROICI. 

E Giulio  a lui  dentro  al  fallace  sonuo 
Parca  risponder  con  mente  confusa  : 
Come  poss'  io  ciò  far,  dolce  mio  donno! 
Chè  nell'  armi  di  Palla  è tutta  chiusa. 
Vedi  i miei  spirti,  che  sofTrir  non  ponno 
La  terribU  sembianza  di  Medusa, 
li  rabbioso  fischiar  delle  ceraste , 

E ’l  volto  e l' elmo  e '1  folgorar  dell-  aste. 
Alza  gii  occhi,  alza,  Giulio,  a quella 
fiamma  [bra: 

Che  come  un  sol  col  suo  splendor  t’adom- 
Qulvi  è colei  che  l’aite  menti  infiamma, 
E che  da'  petti  ogni  vilU  disgombra. 

Con  essa , a guisa  di  semplice  damma , 
Prenderai  questa,  ch’or  nel  cor  l’ingom- 
Tanta  paura,  e t’invilisce  l'alma,  [bra 
Ch'ella  ti  serba  sol  trionfai  palma. 

Cosi  dicea  Cupido  ; c gii  la  Gloria 
Scendca  giù  folgorando  ardente  vampo: 
Con  essa  Poesia , con  essa  Istoria 
Volatati  [ulte  accese  del  suo  lampo. 
Costei  parea  che  ad  acquìsUr  vittoria 
Rapisse  Giulio  orribilmente  in  campo; 

E che  l'arme  di  Palla  alia  sua  donna 
Spogliasse,  e lei  lasciasse  in  bianca  gonna. 

Poi  Giulio  di  sue  spoglie  armava  tutto, 
E tutto  fiammeggiar  lo  facea  d’auro  : 
Quando  era  al  fin  del  guerreggiar  con- 
dii ito , 

Al  capo  gl'  intrecciava  oliva  e lauro  : 

Ivi  tornar  parca  sua  gioia  in  lutto; 
Yedcasi  tolto  il  suo  dolce  tcsauro  : 
Vcdea  sua  Ninfa  in  trista  nube  avvolta 
Dagli  occhi  crudelmente  essergli  tolta. 

L'aria  tutta  parca  divenir  bruna, 

E tremar  tutto  dell’  abisso  il  fondo  : 
Parea  sanguigna  in  ciel  farsi  la  luna , 

E cader  giù  le  stelle  nei  profondo. 

Poi  vedea  lieta  In  forma  di  Fortuna 
Sorger  sua  Ninfa;  e rabbellirsi  il  mondo  t 
E prender  lei  di  sua  vita  governo  ; 

E lui  con  seco  far  per  fama  eterno. 

Sotto  cotali  ambagi  al  giovanetto 
Fu  mostro  de’  suoi  fati  U leggier  corso , 
Troppo  felice  , se  nel  suo  diletto 
Non  melica  Morte  acerba  il  crudel  morso. 
Ma  die  puote  a Fortuna  esser  disdetto  1 
Ch'  a nostre  cose  allenta  e stringe  il  morso; 
Nè  vai  perdi' altri  la  lusinghi  o morda, 
Ch’a  suo  modo  ci  guida,  e sta  pur  sorda. 

Adunque  il  tanto  lamentar  che  giova  ? 
A che  di  pianto  pur  bagnlam  le  gote  ! 

Se  pur  convien  eh’  ella  ne  guidi  e muova  ; 


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STANZE.  3 


Se  mortai  forza  contra  lei  non  puote, 

Se  con  sue  penne  il  nostro  mondo  cova; 
E tempra  e volge  come  vuol  le  ruote. 
Beato  qual  da  lei  suoi  pensier  solve, 

E tutto  dentro  alla  Virtù  s' Involse  1 
Oh  felice  colui  che  lei  non  cura, 

E che  a’  suol  gravi  assalti  non  s’arrende , 
Ma  come  scoglio  che  incontro  al  mar  dura, 

0 torre  che  da  Borea  si  difende , 

Suoi  colpi  aspetta  con  fronte  sicura, 

E sta  sempre  provvisto  a sue  vicende  : 
Da  sè  sol  pende  ; in  sò  stesso  si  fida  ; 

Ni  guidato  i dal  caso,  anzi  lui  guida. 

Già  carreggiando  il  giorno  Aurora  lieta 
Di  Pegaso  stringea  l’ ardente  briglia  : 
Surgea  dal  Gange  il  bel  solar  pianeta , 
Raggiando  Intorno  con  l' aurate  ciglia: 
Già  tutto  parea  d’oro  il  monte  Oeta  : 
Fuggita  di  I.aton  era  la  figlia  : 

Surgevan  rugiadosi  in  loro  stelo 

1 fior  chinati  dal  notturno  gelo. 

La  rondinella  sopra  il  nido  allegra 
Cantando  salutava  il  nuovo  giorno  : 

E già  de'  Sogni  la  compagna  negra 
A sua  spelonca  area  fatto  ritorno; 
Quando  con  mente  insieme  lieta  ed  egra 
Si  destò  Giulio,  e girò  gli  ocelli  intorno; 
Gli  occhi  intorno  girò  tutto  stupendo. 
D’amore  c d’un  disio  di  gloria  ardendo. 

Pargli  vedersi  tuttavia  davanti 
La  Gloria  armata  in  su  l'ali  veloce 
Chiamare  a giostra  i valorosi  amanti , 

E gridar,  Giulio,  Giulio,  ad  alta  voce. 
Già  sentir  pargli  le  trombe  sonanti , 

Già  divien  tutto  nell’ armi  feroce. 

Cosi  tutto  focoso  in  piò  risorge , 

E verso  il  ciel  colai  parole  porge  : 

0 sacrosanta  Dea,  figlia  di  Giove, 

Per  cui  il  tempio  di  Giano  s' apre  e serra  ; 
La  cui  polente  destra  serba  c move 
Intiero  arbitrio  c di  pace  c di  guerra , 
Virglne  santa,  che  mirabil  prove 
Mostri  del  tuo  gran  nume  in  ciclo  e ’n  terra, 
Che  1 valorosi  cuori  a virtù  infiammi , 


Soccorrimi  or,  Trllonia,  c virtù  dammi. 

S'Io  vidi  dentro  alle  tue  armi  chiusa 
La  sembianza  di  lei  che  me  a me  fura  : 
S’Io  vidi  il  volto  orribil  di  Medusa 
Farle!  contro  ad  Amor  troppo  esser  dura: 
Se  poi  mia  mente  dal  tremor  confusa 
Sotto  il  tuo  schermo  diventò  sicura  : 

S’ Amor  con  (eco  a grandi  opre  mi  chiama. 
Mostrami  il  porto,  o Dea,  d'eterna  fama. 

E tu  che  dentro  all’ allocata  nube 
Degnasti  tua  sembianza  dimostrarmi, 

E ch’ogni  altro  pensier  dai  cor  ini  rubo, 
Fuor  che  d'amor,  dal  qual  non  posso 
aitarmi  ; 

E m' infiammasti , come  a suon  di  tube 
Animoso  cavai  s’infiamma  all’ armi , 
Fammi  Intra  gli  altri,  oGIoria,  si  solenne, 
Che  Io  balta  ìnfuio  al  ciel  teco  le  penne. 

E s’ io  son,  dolce  Amor,  se  son  pur  degno 
Essere  il  tuo  camplon  contra  costei , 
Contra  costei,  da  cui  con  forza  e Ingegno 
(Se  *1  ver  mi  dice  il  Sonno)  avvinto  sei. 
Fa  si  del  tuo  furor  mio  pensier  pregno, 
Che  spirto  di  pietà  nel  cor  le  crei. 

Ma  virtù  per  sò  stessa  ha  l' ali  corte  ; 
Perché  troppo  è il  valor  di  costei  forte. 

Troppo  forte,  Signor,  ò’I  suo  valore, 
Chè , come  vedi , il  tuo  poter  non  cura 
E tu  pur  suoli  al  cor  gentil , Amore , 
Riparar  come  augello  alla  verdura  : 

Ma  se  mi  presti  il  tuo  santo  furore , 
Leverai  me  sopra  la  tua  natura , 

E farai,  come  suol  marmorea  rota, 

Cli’  ella  uon  taglia , c pure  il  ferro  arrota. 

Con  voi  men  vengo.  Amor,  Minerva, 
e Gloria, 

Chè  ’l  vostro  foco  tutto  il  corm’avvampa: 
Da  voi  spero  acquistar  l’ alta  vittoria  ; 
Chè  tutto  acceso  son  di  vostra  lampa  : 
Datemi  aita  si,  clic  ogni  memoria 
Segnar  si  possa  di  mia  eterna  stampa, 

E faccia  umil  colei  eh'  or  mi  disdegna  ; 
di'  io  porterò  di  voi  nel  campo  insegna. 


32 


POEMI  EROICI. 


TRISSINO. 


ITALIA  LIBERATA. 


LIBRO  IX. 


ARGOMENTO. 


Da  Partcnopo  escilo  il  capitano 
Giunge  a Cassino,  ove  lasciato  il  campo 
Sale  iil]’ osici  d'un  eremita  santo  : 

Ivi  da  lui  condullo  in  uno  speco 
Vede  del  padre  l'ombra,  e per  virtude 
D'un  anget  entra  in  un  llurito  prato. 

Golii  su  due  miragli,  ed  il  passato 
Ed  il  futuro  scorge;  e quindi  l’ombra 
De’  poeti , de’  soli  e do’  guerrieri 
Illustri  un  tempo,  a lui  si  fanno  innanzi. 
Vede  sue  glorie , c dell’  imperio  il  fulo  ; 
Inlìn  che  torna  con  Traiano  al  vallo. 


La  bella  Aurora  da  1’  aurato  letto 
Del  suo  caro  Titon  sì  risurgea , 

Per  apportare  a noi  1'  eterna  luce; 
Quando  ’l  gran  capitallio  de  le  genti, 
Essendo  stato  in  Napoli  tre  giorni , 

Se  n’  usci  fuor  con  tutto  quanto’!  campo, 
E lasclov v'entro  Erodlano  altero 
Con  molta  gente  a guardia  de  le  mura. 
Ed  egli  se  n’  andò  verso  Cassino , 

Per  irsen  quindi  a la  cittì  di  Roma. 

E come  pose  il  quarto  alloggiamento , 
Trovossi  a piè  del  solitario  monte , 
Ov'era  posta  la  sacrata  cella 
Di  Benedetto;  veramente  spirto 
Benedetto  da  Dìo , salubre  al  mondo. 
Quivi  il  buon  capitan  mandando  gli  occhi 
Verso  la  cima,  vide  un  bel  pratcllo  , 
Cinto  di  alcuni  altissimi  cipressi , 

E di  tre  grandi  e ben  fronduti  allori , 
Avanti  ad  una  piccoletta  stanza , 

Tanto  divoto,  c venerando  in  vista, 
Quanto  altra  cosa  mai  che  avesse  scorta. 
Onde  gli  nacque  un  desiderio  ardente 
DI  visitar  quell’  onorata  cella  ; 

Ma  non  ardiva  abbandonare  il  vallo , 
Pcrch'ei  non  era  ancor  tutto  munito. 

E stando  in  quel  pcnsicr,  venne  la  notte  ; 


Poi  la  mattina,  anz'il  spuntar  de  1'  alba 
Gli  apparve  in  sogno  l’ ombra  di  suo  padre, 
Che  spinse  fuor  di  bocca  este  parole  : 
Figliuol  mìo  caro , che  per  tanti  mari, 
E per  tanti  perigli  sei  condotto 
Al  soave  terren  dove  ch'io  nacqui  ; 
Ascendi  ancora  a la  divota  stanza, 

Ch'  ha  quell’ adorno  e bel  pratcllo  avanU. 
Quivi  dimora  un  benedetto  vecchio, 
Tanto  diletto  a Dio,  che  gli  fa  noto 
Tutto  ’l  secreto  suo,  tutto  ’l  futuro. 
Pricgal  soavemente,  ch’c’  il  mostri 
Ciò  che  tu  ilei  schivare  in  questa  impresa, 
E ciò  che  tu  dei  far,  per  ottenere 
Certa  vittoria  de  la  gente  gota. 

E priegaio  anco  ad  impetrarmi  grazia, 
Dal  Padre  onnipotente  de  le  stelle, 

Ch’  io  possa  alquanto  dimorar  con  teco 
Visibilmente  ne  la  propria  forma. 

Cosi  gli  disse  l' ombra  di  suo  padre  ; 

E poi  subitamente  indi  disparve. 

Onde  T gran  capitanio  in  piè  levossi , 

E si  vestì  di  panni,  c poscia  d'armi; 

E tolto  seco  il  callido  Traiano , 

Andò  sul  monte  a la  dlv  ota  cella 
Scnz' altra  compagnia,  senz' altra  scorta. 
E come  fur  tra  quelli  antiqui  allori , 


33 


ITALIA  LIBERATA. 


Che  sono  Intorno  al  prato , un  vecchio 
aperse 

L’ uscio  d’ un  oratorio , e venne  fuora , 
Degno  di  tanta  riverenza  in  vista. 
Quanto  aver  possa  una  terrena  fronte. 
Egli  avea  in  dosso  una  cuculia  bianca , 
Lunga  lino  a la  terra , e la  sua  barba 
Tutta  canuta  gli  copriva  il  petto. 

Questi  andò  contra  Beiisario,  e disse  : 
Capitanio  gentil , quanto  mi  piace 
Vedervi  al  nostro  solitario  albergo. 

Buon  tempo  è , eh’  lo  v'  aspetto  in  queste 
Per  porre  in  liberti  l’ Italia  afflitta.  [ parti , 
Or  sia  lodato  Iddio , che  siete  giunto  ; 
Andiamo  entr'a  lachiesa , a renderprima 
Grazie  cd  onore  al  Re  de  1’  universo, 
Ghc  n’  ha  condotti  a si  felice  giorno , 
Dappoi  ragionerem  de  l’ altre  cose. 

Cosi  diss’  egli , e per  la  mano  il  prese , 
E dolcemente  lo  stringea,  mirando 
La  faccia  sua  con  un  paterno  affetto. 

Poi  lo  menò  ne  l’ oratorio  santo , 

E quivi  udita  una  divota  messa. 

Che  celebrò  quel  benedetto  vecchio , 

Si  poscr  tutti  a ragionare  Insieme  : 

E prima  il  capitan  cosi  gli  disse  : 

Padre  gentil  d' ogni  virtute  adorno , 
Grande  amico  di  Dio , quando  vi  mostra 
E v’  apre  ogni  celato  suo  secreto  ; 
Vedendo , clic  sapete  c quel  eh’  io  sono , 
E 1'  alta  impresa  eh'  lo  son  posto  a fare , 
Penso,  che  ancor  sappiate  ogni  pensiero 
Che  si  rilruovi  chiuso  cnlr’al  mio  petto. 
Pur  vi  discoprirò  con  la  mia  lingua 
L' onesto  mio  desire , e quel  eh'  io  bramo 
Da  la  vostra  santissima  persona. 

Vorrei  saper,  padre  beato , come 
Si  deggia  governar  quest' alta  impresa; 
E ciò  di'  io  debbia  far,  per  ottenere 
Certa  vittoria  de  la  gente  gota. 

Ancor  vi  priego  ad  impetrarmi  grazia 
Dal  Padre  onnipotente  de  le  stelle , 

Che’l  caro  genitor  possa  parlarmi 
Visibilmente  ne  la  propria  forma. 

Deli  fate , padre,  questi  onesti  doni 
Al  divoto  orator,  che  ve  gii  chiede  , 

Cb' agevolmente  gli  potete  fare, 
Sendoco!  Re  dei  del  tanto  congiunto. 
Non  gli  negate  a me , eh'  lo  vengo  a porre 
La  vostra  cara  Esperia  in  libertade 
Con  le  nostre  fatiche , e 'I  nostro  sangue. 

Cosi  disse  il  barone;  a cui  rispose 
Il  buon  servo  di  Dio  con  tal  parole  : 


Illustre  capitan,  voi  dite  II  vero, 
Ch’io  so  l’alta  cagion  eh’ a noi  vi  mena  : 
Perchè  sta  mane , anz’  il  spuntar  de  l’ alba, 
L’angel  Erminio,  e l’ombra  di  Camillo 
Mi  disse  ii  tutto,  c mi  richiese  a farlo: 
Ed  io  liberamente  gli  promisi. 

Ond’  ho  pregato  il  Re  de  l' universo 
Di  queste  grazie , cd  ei  ne  fia  cortese  ; 

Ma  vi  bisogna  entrar  dentr’a  quel  speco 
Senz’aitra  compagnia  che  le  vostr’armc. 
E quest’ almo  signor  starò  qui  fuori , 

Fin  che  s’adempia  il  bel  vostro  desire. 

Cosi  diss’  egli , e prese  una  gran  chiave 
Ch’  avea  da  canto , e disserrò  la  porta 
D'una  profonda  e paventosa  bucca  , 

Tal  clic  ’l  baron  senti  rizzarsi  i peli 
Per  la  persona  a quell'  orribil  vista. 

Pur  entrò  dentro,  e la  ferrata  porta 
Per  sè  medesma  se  gii  chiuse  dietro  : 
Onde  restò  nel  cuor  tutto  confuso. 

Mal'  angelo , che  stava  ad  aspettarlo 
Ne  la  spelonca , gli  toccò  la  testa 
Con  una  verga  che  teneva  In  mano; 

Ond'  ei  fu  preso  da  profondo  sonno , 

E cadde  In  terra , come  fosse  morto. 
Dappoi  lo  tolse  leggermente  in  braccio , 
E lo  portò  sopra  un  erboso  colle 
D'un  più  meraviglioso  e lieto  mondo. 
Questo  è la  faccia  del  Signore  eterno, 

In  cui  descritte  son  tutte  le  cose, 

Clic  son , clic  furo , e che  dovran  venire  ; 
Ma  non  la  può , se  non  per  grazia  estrema, 
Veder  uom  vivo  ; e con  tal  grazia  ancora 
Non  gli  si  mostra  mal  ne  la  sua  forma. 

Ma  voi , che  avete  in  elei  divino  albergo, 
Eterne  Muse , or  mi  donale  aiuto , 

SI  eh’  io  possa  narrar  qual  ei  là  vide. 

Quel  colle  avea  dal  suo  sinistro  canto 
lln  specchio  grande , assai  maggior  che  ’l 
Ov’ eran  tutte  le  passate  cose.  [sole, 
E poi  dai  destro  ne  teneva  un  altro , 
Ch’avca  dipinto  in  sè  lutto  ’l  futuro. 

E per  quel  colle  ogni  presente  effetto, 
Ch’  usciva  fuor  del  destro  albergo,  andava 
Correndo  a l’ altro  con  mirabil  fuga. 

Ma  questi  sono  a Dio  tutti  un  sol  specchio 
Se  ben  paion  diversi  a noi  mortali. 

Or  quivi  adunque  in  un  erboso  prato 
L’ angel  depose  Belisario  ii  grande , 

Ov’  era  allegra  l’ ombra  di  Camillo 
Suo  padre , uscita  del  sinistro  cerchio, 
Per  dimorar  col  suo  figliuol  diletto. 

Ma  come  poi  ih  smisurata  luce, 


Di 


34  POEMI 

Ch'acca  quel  loco,  aperse  gli  occhi  gravi 
Di  Belisario , e gli  disdoisc  li  sonno , 
Conobbe  11  padre  ; e fattoseli  centra 
Per  abbracciarlo , lacrimando  disse  : 

0 caro  padre  mio,  quanto  ni' allegro 
Vedervi  in  questi  fortunati  alberghi , 
Dopo  tante  fatiche  e tanti  affanni  ! 

Cosi  dicca  piangendo  e sospirando  ; 

E poi  voleva  circondarli  il  collo 

Con  le  sue  braccia  ; ma  quell’  ombra  lieve 

Si  risolveva , come  fa  una  spera 

Di  sole , o come  una  compressa  nebbia  ; 

Tal  ebe  le  braccia  non  strlugevan  nulla. 

Edei  piangea dicendo  : Ah  nou  fuggite, 

Lasciatemi  abbracciar  si  care  membra. 

Dopo  queste  accogliente , il  buon  i’a- 
Guardava  Oso  Belisario  io  volto , [ rnillo 
Com’  uom  elio  vede  tutto  il  suo  conlento  ; 
Poi  dolcemente  sospirando,  disse  : 
Diletto  mio  figlino! , che  grave  soma 
T' ha  posto  adesso  il  corrcttor  del  inondo  t 
Guarda  ben , che  sott’  essa  non  trabocchi  ; 
Acciò  che  poi  qualche  fortuna  avversa 
Non  t'adombrasse  le  vittorie  avute. 

L' angelo  Erminio  aiior  segui  dicendo  : 
Dunque,  Camillo  mio,  percU’ei  non 
caselli 

Ne  l’error  che  tu  temi , io  vo’  mostrarli 
Quest’  onorato  specchio  da  man  destra , 
Ch'  ha  in  sé  raccolto  tutto  l'avvenire; 
Qte  ’l  Re  del  del  m' ha  detto,  di'  io  gli  mo- 
Le  cose  che  verran  fin’ a miil'anni,  [stri 
E ch'io  non  debbia  trapassar  quel  segno. 
Ma  perchè  meglio  lo  comprenda , c noli , 
Fla  buon  che  porga  una  leggera  occhiala 
Nel  specchio  a man  sinistra  del  passalo. 

E cosi  dello,  gli  disdoise  il  velo 
Che  l’ incarco  d'Adamo  intorno  gii  occhi 
Gli  aveva  involto  ; e poi  gli  disse  : Or  mira 
L’ anime  ch'cscon  da  la  destra  sfera , 

E se  ne  vari  correndo  a la  sinistra 
Per  questa  nostra  commutabii  parte. 
Questi  son  quei , che  vengono  a la  vita , 
E prendono  un  boccoli  per  ciascun  vaso 
De  i dui,  che  son  ne'  lati  de  la  porta, 

L' un  plcn  di  dolce,  e l’ altro  plen  d' amaro. 
Tenuti  saldi  in  man  da  dui  donzelli  ; 

Nè  ponno  a vita  andar  senza  gustarne.  » 
Mira  colui , che  tol  dal  destro  vaso 
IL  boccon  primo  di  dolcezza  immensa. 
Poi  si  rivolge  con  diletto  a l’altro. 
Perchè  lo  crede  parimente  dolce; 

E pigliane  un  boccon  maggior  del  primo 


EROICI. 

Ma  trova  questo  esser  si  forte  amaro, 
Ch'  a pena  a mal  suo  grado  può  giottirlo. 
Vedi  quell’ altro, che '1  boccon  primiero 
Tol  da  l’amaro  del  secondo  vaso, 

E poi  si  volge  timoroso  a l' altro , 

Perchè  lo  crede  parimente  amaro; 

Onde  piglia  un  boccon  minor  che  '1  primo, 
Dal  vaso  dei  dolcissimo  liquore. 

E però  avvien,  che  questa  vita  umana  [ce. 
Sempre  ha  l'amaro  suo  maggior,  che  1 dol- 
Qucl  giovinetto  poscia , e quella  donna 
Che  dopo  il  manducar  gli  porgon  bere; 
L' uno  è l' Errore,  e l’ altra  è l’ Ignoranza. 
Guarda  quelle  lascive  meretrici , 

Varie  di  veste  e d’ apparenzta  vaga , 

Clic  vanno  intorno  a i giovinetti  incauti , 
E cercano  d' indurii  al  loro  amore  : 
Queste  son  le  diverse  opinioni , 

E le  diverse  voluttà!!  umane , 

Che  reggono  la  vita  de  le  genti  ; 

Mira,  eh' alcuna  guida  i loro  amanti 
A dritto  calle , e l' altre  i scorgon  poi 
A mal  cammino,  c precipizio  orrendo. 
Quelle  tre  belle  giovinette  ignude , 

Che  due  di  loro  a noi  mostrano  il  volto, 
Ma  quella,  cb’  è nel  mezzo,  e tien  le  braccia 
Sul  petto  a i' altre,  volge  In  qua  le  spalle, 
Per  non  mirare  il  beneficio  latto , 

Poi  che  quell’ altre  due  con  vista  allegra 
Risguardan  sempre  al  ricevuto  bene  : 
Queste  son  le  tre  Grazie,  il  cui  bel  nodo 
Conferma  c lega  il  buon  commercio  umano 
Vedi  una  donna  la  sopra  un  gran  sasso 
Quadrato,  e sodo,  quella  è la  Dottrina  : 
E l’ altre  due , che  poi  le  stanno  a canto 
Son  sue  figliuole , e si  dimanda  i'  una 
La  Vcritade  e la  Ragione  è l’altra. 
Quella  eli' è cieca  là  sopra  una  palla 
Rotonda,  c che  non  posa,  è la  Fortuna, 
Ma  le  tre  vecchie  poi , che  insieme  stanno, 
E l’ una  tien  la  rocca , e l' altra  il  fuso , 

I.a  terza  il  stame  tronca , son  le  Parche , 
Che  filano  le  vite  de  i mortali. 

Quella  rbe  è si  superba,  è la  Bellezza; 
L'altra  è la  Nobiltà,  l’ altra  la  Gloria; 

E l' altra  è la  Ricchezza , che  non  cura 
Infamia  ed  odio,  e di  sò  stessa  gode. 
Quel  fanciulli-!  lo  è il  Riso  eh'  è si  allegro  ; 
Quell'  altro  è ’l  Giuoco  poi  che  con  lui 
scherza. 

Vedi  due  belle  donne , e dui  fanciulli , 
Che  I'  una  guarda  il  elei , l’ altra  la  terra  ; 
Quelle  son  le  due  Veneri , e gli  Amori , 


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ITALIA  LIBERATA.  55 


Celesti  P una , e P un  : gli  altri  del  vulgo. 
Quella  che  è II,  tutta  vestila  a verde, 

E mai  non  gli  abbandona , è la  Speranza  : 
E quello  è 11  Sonno  neghittoso  e lento. 
La  donna  poi , che  su  quell’  alto  scoglio 
Siede  gioconda , e tiene  il  scettro  in  mano, 
È la  Feliciti , che  voi  mortali 
Cercate  sempre , e mai  non  la  trovate. 

E quelle  damigelle , eh’  Ivi  intorno 
Stanno  ad  servigio  suo,  son  le  Virtuti. 
Rivolta  gli  occhi  a la  sinistra  parte , 

Mira  quell’  altre  sanguinose  e crude 
Donne , che  paion  ti  feroci  in  vista  ; 

L’  una  t la  Guerra  e l'altra  è la  Vendetta. 
Vedi  la  Povertà , conosci  il  Pianto  ; 

E la  Pena  più  fiera  assai  che  un  drago. 
Conosci  P Avarizia  e la  Vecchiezza , 

E la  Fame  e ’l  Fastidio  e la  Fatica , 

La  Discordia,  P Affanno  e'i  Tradimento, 
E l’empia  Ingratitudine,  eh'  è sola 
Causa  e radice  d’  infiniti  mali. 

Oìmè  ! non  dimoriam  più  lungamente 
Fra  queste  orrende  c venenose  serpi. 
Andiamo,  andiamo  a la  sinistra  sfera. 
Che  ha  le  cose  passate;  entriamo  in  essa. 
Per  starvi  un  poco,  e poscia  andar  ne  Pai- 
Cosi  parlando  l'angelo , menoili  [tra. 
Con  gran  celerità  nel  manco  albergo. 
Quella  amplissima  sfera  avea  tre  porte, 
La  maggior  de  le  quali  era  guardata 
Da  le  figliuole  de  P antico  Cadmo  ; 
Queste  aveano  con  seco  il  bel  Poema , 

E la  gentile  Istoria  sua  consorte  , 

Con  altre  molte  generose  ancelle. 

L’ altre  due  porte  poi , eh’  eran  minori , 
L'  una  lenea  la  Favola  per  guardia , 

L’  altra  la  Statuaria  e la  Pittura  ; 

Ma  quello  eterno  messaggier  del  deio 
Gli  fece  intrar  per  la  primiera  porta , 

De  le  brunette  giovani  Fenid. 

Come  fur  dentro , videro  un  gran  mondo. 
Con  più  bel  lume  assai  che  ’l  nostro  Sole  ; 
Con  altra  Luna  e con  più  chiare  stelle. 
Eranvi  prati,  con  fontane  e rivi, 

E si  cari  arbuscei , si  vaghi  fratti , 

Ch’  era  diletto  estremo  a riguardarli. 
Belisario  stupì  di  quella  vista  ; 

E rivolgendo  gli  occhi  In  ogni  parte , 
Vide  a man  destra  un  bel  fiorito  colie. 
Ne  la  cui  cima  era  una  vaga  fonte , 

Con  più  chiar’acqua.e  di  più  larga  vena, 
Ch'  aere  converso  mai  mostrasse  al  sole. 
Quivi  un  bel  vecchio  con  intonsa  chioma, 


E con  barba  canuta,  ed  occhi  oscuri, 

L' aveva  in  guardia , e dispensava  a tutti 
Il  buon  liquor  de  P onorato  monte. 
Allora  nacque  un  desiderio  immenso 
A Belisario  di  saper  chi  egli  era, 

E dimandonne  a P angelo  in  tal  modo  ; 

Vero  amico  di  Dio,  celeste  messo. 
Non  vi  sia  grave  dir , chi  sia  quei  vecchio 
Che  dispensa  tant’  acqua  ; e quella  gente 
Clie  sitibonda  va  d’ intorno  al  colle. 

A cui  rispose  il  messaggier  del  cielo  : 
Quello  è ’l  di  viti  da  voi  chiamato  Omero, 
Che  parve  cieco  al  mondo  ; ma  più  vide , 
E seppe  più  ch'attr'uom  ebe  fosse  In  terra , 
Per  la  cui  patria  ancora  Atene  e Smirna; 
E cinque  altre  città  fanno  contesa. 

E le  donne  leggiadre , che  d’ intorno 
Gli  stanno  e per  ancelle,  e per  ministre, 
Son  le  da  voi  si  celebrate  Muse  , 

Figlie  de  la  Memoria  e de  P Ingegno. 
Quel  che  tol  l’ acqua  con  si  largo  vaso 
Dal  sacro  vecchio,  e il  buon  Virgilio  vostro, 
Chesegul  priinaSiracttsa,edAscra , 

Per  selve  e campi , e poi  divenne  a l'arme. 
Ecco  Euripide  e Sofocle , ecco  il  Calvo , 
Che  parve  pietra  a quel  volante  uccello  j 
Onde  lasci ovv  i ir  la  testuggìn  sopra , 

Per  lei  spezzare  e lui  condusse  a morte. 
Vedi  con  lor  Pacuvio , ed  Azzlo  ; o Varo , 
Fra  la  non  molta  tragica  caterva. 

Mira  quell’  altra  gente , che  ridendo 
Pigliano  P acqua  ; il  primo  è il  gran  Menati- 
Poi  Filcmo,  Aristofane  e Fratino,  [dro, 
Cecilìo  grave , con  Terenzio  e Pianto. 
Risgttarda  poi  la  lirica  famiglia, 
Pindaro,  Saffo,  Anaereonte,  Alceo, 
Catullo  il  dotto , e poscia  Orazio  e Basso. 
Volgi  la  vista  a la  Elegia , che  mena 
Al  dolce  ber  Callimaco , e Fìleta , 

E Properzio , e Tibullo , Ovidio  e Gallo. 
L’ Egloga  il  suo  Teocrito  conduce , 

Senza  nuli’  altro  Greco;  c l’accompagna 
Il  vostro  Mantovan  da  lunge  alquanto. 

Già  potuta  fine  al  sito  parlare  accorto 
L’ angel  di  Dio , quando  ’l  baron  gli  disse  : 
Deh  grave  non  vi  sia , celeste  messo , 

Di  nominarci  ancor  quella  bell*  ombra , 
Che  par  si  dotta , ed  ha  la  coscia  d’ oro  ; 

E di  quegli  altri  che  gli  stanno  intorno. 

A cui  rispose  il  messaggier  del  cielo  t 
Questi  è il  dotto  Pitagora  da  Samo , 
Quell’  altro  6 Archita , e quello  * quel , che 
Nomò  per  savio  P apollinea  rote , [solo 


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36  POEMI 

Socrate,  ch’ebbe  si  ritrosa  moglie, 

E fu  li  primo  inventor  de  la  morale. 

L*  altro  è ’l  divin  Platone,  e quel  eh’  è seco, 
È il  gran  speculator  de  la  natura , 

Onde  i Peripatetici  ebber  orto. 

E quello  è Zenofontc  attica  musa. 

Vedi  il  buon  Epicuro  e i duri  stoici , 
Che  volean  fare  ogni  peccato  eguale  : 

E Diogene  Cinico  e Aristippo, 

Molto  contrari  ne  le  sette  loro. 

Ecco  Nigidio  Figulo  c Varronc, 

Fra  quella  turba  italica  sì  rara. 

Volgi  la  vista  un  poco  a l'altra  parte , 
Vedi  Ippocrate  medico  eccellente , 

Con  quello  Eccellentissimo  Galeno, 

Clic  vinse  ognun  d’ esperienza,  e d’arte. 
Vedi  Oribasio  c Paulo , clic  ’l  seconda. 
Efrai  Latini  Antonio  Musa  e Celso. 
Risguarda  alquanto  quelli  acuti  ingegni 
Euclide  e Tolomeo , con  quel  da  Porga , 
Che  la  materia  conica  pertratta , 

Con  le  sue  sezlon,  che  sono  il  cerchio, 

E l’ elipsi  e l’iperbole,  con  1’  altra  , 

Che  sola  è differente  dal  cilindro. 

Ma  dove  lasciam  noi  le  chiare  trombe 
Demostene  ed  Escliin  ? guarda  più  in  alto , 
Gilè  gli  vedrai  contendere,  ed  urtarsi, 
Presso  a l’ antico  Isocrate  e Lisia. 

Vedi  quel  Marco  Tullio  fra  i Romani, 
Che  fu  la  idea  de  1’  eloquenzia  vostra. 
Vedi  Messalla,  vedi  il  buon  Sulpizio, 
Antonio  e Crasso  fra  1*  immensa  turba 
Di  tanti  degni  spirili  eloquenti. 

Non  vo’  lasciar  gl'  istorici  da  canto; 

Quel  vecchio,  che  si  sta  fra  quelle  Ninfe , 
Erodoto  è,  Tucidide  ò quell’ altro, 

Che  con  lui  giostra , e ’l  buon  Polibio  è ’l 
VediSalustioc  Cesare  , che  vanno  [terzo; 
Innanzi  a Livio , orni’  ei  gli  guarda  torti. 
Vedi  Plutarco  e Plinio,  c quelli  acuti 
Grammatici,  Apollonio  e Prisciano. 

Ma  non  star  più , baron,  fra  tanti  ingegni  ; 
Chi  cbi  volesse  riguardarli  tutti , 

Non  si  potria  mirar  nuli’  altra  cosa  ; 
Bastiti  avere  i più  famosi  udito, 

Però  volgiamo!  a quei  eh’ ebber  possanza 
Maggiore,  e fur  più  cari  a la  Fortuna , 
Bieca  l’angcl  di  Dio  ; d’ indi  nicnollo 
Ov'  eran  duchi , impcradori  c regi, 
Tutti  divisi  in  tre  vallette  amene. 

E come  giunse  ne  la  prima  valle, 

Si  volse  lieto  a Belisario , e disse  : 

Qui  si  dimoran  1'  ombre  di  coloro, 


EROICI. 

Cli’  ebbero  I regni  gloriosi  In  terra. 
Guarda  colui , eh’  a pena  si  discerne , 
Tanl'  è lontan;  quello  è 1'  antiquo  Nino , 
Cli’  ebbe  ne  l’ Asia  si  famoso  impero  : 

E la  sua  moglie  Babilonia  cinse 
Di  mura  laterizie  con  bitume. 

Quel , che  da  gii  altri  è separalo  alquanto, 
È Moisè,  il  qual  per  volontà  divina 
Condusse  il  popol  suo  fuor  de  l’Egitto; 

E quello  è David  re , che  cantò  i Salmi , 
Che  son  da  voi  si  frequentati  e letti  ; [pio. 
Quell’  altro  ò Salomon , che  fe’  il  gran  tem- 
Rivoita  gli  occhi  ov’è  quella  gran  luce, 
Vedi  Agamennon  re  degli  altri  regi , 

Che  andaro  a Troia  ; c Menelao  suo  frate . 
Quell'altro  è Achille,  che  ne  l’aspre  guerre 
Non  si  polca  nè  vincer,  nè  ferire. 

Vedi  Diomede  , Aiace,  Idomcnco, 
Neslor,  Ulisse  e Stendo , con  gli  altri 
Clic  stcr  dicci  anni  Intorno  a quelle  mura. 
Da  l' altra  parte  è Priamo  ed  Alessandro, 
Ed  Ettor,  quasi  incspugnabil  torre 
De  la  sua  patria , col  fìgliuol  d’ Anchtse , 

E con  Polidamante,  ed  altri  molti , 

Gie  la  difescr  quel  si  lungo  tempo. 

Dopo  costor  mira  11  fìgliuol  di  Marte 
Romulo,  questi  diè  l’ inizio  e *1  nome 
A la  citlà , che  ha  dominato  il  mondo; 

A la  città,  che  la  sua  gloria  innalza 
Fili  al  supremo  cerchio  de  le  stelle  ; 

Ed  ebbe  sotto  il  suo  divino  impero 
Ciò  che  ’1  elei  copre  e che  circonda  il  mare. 
Vedi  dlctroa  costui  Pompilio  eTiillo  [ tro 
Sedere , e Marzio,  cl’un  Tarqulnioe  Pai- 
Che  ’l  sangue  di  Lucrezia  Indi  l'espulse. 
Mira  quel  re , eli*  ha  si  benigno  aspetto  ; 
Quello  è II  gran  Perso,  nominato  Ciro, 
Padre  de  la  milizia  c de  i soldati  ; 

Da  la  cui  vita  ancor  si  tol  la  norma 
D’ acquistar  regni  e governare  imperj.  [de, 
Quel  eh’  è si  ardito , fu  Alessandro  UGran- 
Clic  andò  vincendoli  mondo  lino  a gl’indi. 
Seleuco  e Tolomeo  gli  vanno  dietro, 
Soldati  suoi , poi  re  de  l’Oriente. 

Non  ti  vo' nominar  Catnbis  c Scrsc, 

E Dario,  ed  altri  di  ntinor  virtute, 

Se  ben  fur  regi  sontuosi  c grandi  ; 

Basti  il  notar  le  più  famose  teste. 

Vedi  dui  Macedonici  Filippi , 

Vedi  un  Demetrio  espugnator  di  terre. 
Quello  è Pirro  Epirota , e quello  è il  vec- 
Rc  Massinissa,  e poi  lugurta  e Rocco,  [chio 
Quei  sono  Antioco,  Mitridate  e Perseo, 


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ITALIA 

di’  ebbero  al  loro  ardir  sì  dura  sorte. 
Guarda  color,  che  son  pressoa  l'entrata, 
Atila  II  crudo,  che  Aquilcìa  prese, 

Mosso  dal  dipartir  de  le  cicogne. 

Vedi  Alarico,  che  dopo  mill’anni 
E cento,  e più,  con  ingegnosa  fraudo 
Saccheggia  e prende  la  città  di  Roma; 

E poi  sepulto  fia  presso  a Cossenza 
Sotto  ’l  gran  letto  del  corrente  fiume. 
Dopo  costui  Giscrìeo  a tal  preda 
Corre  chiamato  da  l' irata  Eudossa 
E spoglia  Roma  con  rapina  immensa. 
Vedi  poi  Teodorico,  che  in  Ravenna 
Con  fraude  uccide  II  perfido  Odoacro; 
D’indi  governa  ben  l'Italia  afflitta. 

E quel  clic  gli  vieti  dietro , è suo  nipote 
Teodalo  re,  che  qui  sen  veti'  iersera, 
Deposlo  del  suo  regno , e poscia  estinto. 
Come  fu  nota  l’ ombra  di  Teodato 
A Belisario,  in  lei  guardando,  disse  : 

0 mal  felice  re , quanto  era  meglio 
A non  mandar  la  tua  cugina  a morte, 

E servar  fede  al  correltor  del  mondo  ! 
Perchè  del  mal  non  suole  uscir  mai  Itene. 
Cosi  diss'  egli  ; a cui  rispose  1’  ombra  : 
Ognun  dopo  l’ error  diventa  saggio , 

Se  la  fortuna  al  suo  pensier  ribella. 

Cosi  face'  io,  cosi  farà  colui, 

Che  mi  fece  ire  ani’  il  mio  tempo  a morte. 
Quando  sarà  prigion  ne  le  tue  mani. 

E detto  questo , subito  si  tacque. 
Allora  l’angel  glorioso  disse  : 

Non  è da  star  più  tempo  In  questa  valle. 
Andiamo  a l’altra,  ove  l'imperio  siede, 
Che  solca  tutto  governare  11  mondo. 

Cosi  parlando,  se  n’enlraro  in  essa. 

Poi  l’ angel  seguitò  : Guarda  quell’  ombra, 
Che  par  si  ardente  e si  feroce  In  vista , 
Quello  è’I  gran  dittator.che  vinse  I Galli, 
E poi  ruppe  In  Tessalia  il  gran  Pompeo; 

E si  fe’  serva  la  città  di  Roma , 

Che  l’ avea  generato , ond’  el  fu  morto 
Da  i veri  amici  de  la  patria  loro. 

Colui,  che  ’l  sieguc,òil  fortunato Augu- 
Che  fece  dirsi  impcrador  del  mondo , [sto , 
Quando  ebbe  rimo  Marcantonio  in  mare, 
Con  la  regina  del  secondo  Egitto  ; 

E chiuse  il  tempio  del  bifronte  Giano. 

Non  riguardar  Tiberio , c Caio  e Claudio , 
Ch’  imperar  dopo  lui , nè  il  Ber  Nerone , 

Nè  Galba.ed Oto,  nèVitcllioil  grasso, 
Che  non  fur  degni  di  sì  gran  fortuna. 
Guarda  Vcspaslan  , col  figlio  Tito; 


LIBERATA.  37 

L’ altro  non  già , eh’  ebbe  condegna  morte. 
Guarda  ancor  Ncrva  e l’ ottimo  Traiano, 
Assunto  al  grande  imperio  fuor  di  Spagna , 
Di  Spagna  genitrice  de  la  gente. 

Più  vaga  de  l’ onor  che  de  la  vita. 

Mira  Adriano  ed  Antonino  il  Pio, 
Principi  eccelsi , e quel  mirabil  Marco , 

Di  cui  non  fu  già  mai  signore  In  terra 
Di  piti  sant* opre,  e di  maggior  virtute. 
Non  risgttardare  il  suo  figliuolo  indegno 
Di  tanto  padre;  mira  Pertinace  , 

E lascia  Giullan,  guarda  Severo; 

Ma  non  guardar  nè  il  figlio , nè  Macrino , 
N'  Eliogaballo  infamia  de  le  genti. 

Mira  il  buon  Alessandro,  e lascia  stare 
Massimino,  e Baibino,  e Pupleno, 

E gl’  infelici  Gordiani , e I tristi 
Filippi , c Dccio , e Gallo  e Valcriatto , 
Con  Gallono  suo  figlluol , eli'  afflisse 
L’  imperio, e fu  di  molta  ignavia  carco. 

E guarda  Claudio  poi  che  vinse  I Goti , 

E tanti  n’  uccìdeo , tanti  ne  prese , 

Che  empio  di  servi  ogni  provincia  vostra. 
Vedi  il  valente  Aureliano  In  arme. 

Che  Zcnobia  menò  nel  suo  trionfo, 

E mira  quello  eletto  dal  senato , 

Tacito,  pioti  d’  ogni  gentil  virtute. 
Guarda  il  gran  Probo,  eh’  acquistò  la  pace 
Universale  a tutto  quanto  11  mondo  ; 
Onde  per  sdegno  i pessimi  soldati , 

Che  la  guerra  volean , gli  dier  la  morte. 
Quell’  altro  è Caro;  c quello  è quel  buon 
prence 

Dioclezlan , clic  poi  che  ’l  mondo  vinse, 

E governol  veni' anni  in  tanta  altezza , 
Depose  giù  quell’  acquistato  Impero; 

E visse  poi  dieci  anni  in  bel  giardini 
Privatamente  ià  presso  a Satana; 

Nè  volse  ripigliar  l' imperio  mal , 

Ben  che  di  ciò  ne  fosse  assai  pregato. 
Dopo  Masslmlan,  Galerio  e Cloro, 

E Severo  c Licinio,  che  nimico 
Fu  de  le  lettre , c le  appellava  peste. 

Vicn  il  gran  Costantino , il  qual  fu  il  primo 
Fautore  aperto  a la  cristiana  fede , 

Questi  instaurò  Bisanzo , e fece!  tale , 

Che  concorrea  con  la  città  di  Roma; 

Ond’  or  Costantinopoli  si  chiama. 

Quello  è 11  buon  Giullan , eh’  è suo  nipote , 
E fu  si  amico  a I studj  de  le  Muse , 

Ma  non  a Cristo , onde  fu  forse  estinto. 
Non  risguardar  Giovìnlano , e mira 
Quel  Vaienti nlan  che  gli  vicn  dietro 


Digi 


38  POEMI 

Con  Valente  suo  frate , e col  figliuolo 
Nomato  Graziano , e col  nipote , 

Ch'  Imitò  1'  avo  suo  se  non  col  nome. 
Quello  è Teodosio  poi , che  ’l  mondo  parte 
Ad  Onorio,  ed  Arcadio  suol  figliuoli. 
Onde  ne  seguitò  si  gran  ruina 
A l'onorato  imperio  del  Ponente; 

Chi  Roma  fu  veduta  andare  a sacco 
Dal  fiero  inganno  de  la  gente  gota. 

Poi  Valcnlintan , eh’  Aezio  estinsc 
Lascia , ed  Avito , e Maiorano , ed  anco 
Severlano , Antemlo , e poi  Liberio , 

E Gllcerlo , c Nepotc , e quello  Augusto , 
In  cui  fini  l’imperio  d’Occidcnte; 

Perciò  che  ’1  re  de  gli  Eruli  il  deposc  ; 

E dopo  lui  vacò  quella  gran  sede, 

E vacherà , se  ben  tu  la  racquistl. 

Da  l' altra  parte  è Marziano,  e Leo, 
Mira,  e Zenone  Isauro,  che  fu  vivo 
Da  la  moglie  sepolto  ; e dopo  lui 
Vedi  Anastagio  fulminato  In  terra. 
Quand'ebbe  gli  anni  prossimi  a nonanta  ; 
Costor  l'imperio  avean  de  l'Oriente. 

Allora  il  capitan  rivolse  gii  occhi , 

E visto  che  Giuslin  dopo  Nastagio 
Sedea  ne  l’ alto  e glorioso  seggio , 

Corse  divoto  ad  abbracciarli  I piedi , 

Per  onorar  1'  antiquo  suo  signore  ; 

Ma  nulla  strinse , onde  sorrìse  l' ombra , 
E disse  : Belisario  mio  gentile, 

Quel  che  ti  mena  in  questa  nostra  sfera , 
Ti  dovea  dir , che  cosi  fatti  offici 
Mai  non  si  fan  tra  I’  alme  de  i defontl  ; 
Perchè  slam  tutti  in  questi  luoghi  eguali. 
Vattene  pur  al  dritto  tuo  tiaggio; 

E se  ritorni  su,  narra  al  mio  figlio, 

Che  si  prepara  a lui  quell’  ampia  sede. 
Che  vedi  là , si  gloriosa  ed  alta. 

Quanto  alcun’  altra  de  la  nostra  valle. 

Cosi  disse  Giustino;  c’I  capitano 
Già  volea  fare  a lui  lunga  risposta. 
Quando  l' angcl  di  Dio  disse  : Barone , 
Non  star  a consumar  parlando  II  tempo 
Con  l’ ombre  lievi , bastiti  11  vederle. 

E detto  questo , il  pose  ne  la  terza 
Valle,  che  aveva  i capitani  antichi  : 

E gli  mostrò  Temistocle,  che  vinse 
Con  trecento  galee  tre  mllia  navi 
Nel  stretto,  che  è vicino  a Salamfna, 

E Milziade,  e l’invitto  Epaminonda, 
Alcibiade  e Gilippo , e Agesilao , 
Trasibulo,  Lisandro  c Timoteo, 

Con  molti  c molti  valorosi  Greci. 


EROICI. 

D' indi  rivolto  al  gran  popol  di  Marte, 
Mostrolli  I dui  Scipioni , c ’l  buon  ( .ani ilio, 
li  gran  Pompelo , e il  fortunato  Siila , 
Marcello,  Mario,  Paulo  Emilio  e Fabio, 
E Metello  Numidico  e Lucullo, 

E quei  di  libertà  sì  grandi  amici 
Fabrizio , Decio , Calo , Cassio  e Bruto  ; 
Con  tanti  capitan  d’una  sol  terra. 
Quanti  di  tutti  e popoli  del  mondo. 

Poi  fra  i Cartaginesi  dimostroili 
Annibaie  eh'  andava  Innanzi  a gli  altri , 

E ’l  suo  destr’  occhio  avea  privo  di  luce. 
Ed  era  seco  Amilcare  suo  padre , 
Cognominato  Barca,  onde  fur  poi 
Detti  i Barchini, e Barellinomi  in  Spagna. 
Poi  seguitando,  disse  a lui  rivolto  : 

Vedi  aneli’  Aezio,  eh'  Alila  sconfisse 
Ne’  campi  catclaunici , e se  questi 
Da  l’ingrato  signor  non  era  estinto. 
Alila  mai  non  vi  Tacca  quei  danni. 

Ve’  Bonifacio,  ed  Aspare  che  puotc. 

Far  altri  impcrador,  ma  non  sè  stesso  ; 
Perciò  eh'  era  ariano , e quella  setta 
Era  in  quel  tempo  da  I'  imperio  esclusa. 
Qui , Belisario  mio , sarà  il  tuo  nido , 

Poi  eh’  arai  vinta  l' Africa  e I'  Europa , 

E consonata  l' Asia  al  grand'  impero, 
Avendo  appresso  te  dui  re  prigioni, 

E dui  notabilissimi  trionfi. 

Come  s' avviva  al  sospirar  de*  venti 
Carbone  acceso , o quasi  estinta  fiamma , 
Colai  divenne  Belisario  in  fronte 
Al  dolce  suon  del  destinato  onore. 

Nè  mcn  fu  lieta  I’  alma  di  Camillo , 
Vedendo  al  suo  Ogliuol  si  degno  albergo. 
Ma  tempo  è che  si  vada  a l’ altra  sfera , 
Disse  quell'  angel  glorioso  c santo. 

Si  che  non  guardar  più  quei  sacerdoti, 
Nè  quei  eh’  han  sparso  per  la  patria  il  san- 
Nèl  condì  lorde  le  ben  poste  leggi,  [gue, 
Nè  gli  ottim’  Inventor  de  1’  ulti  arti. 

E detto  questo , uscì  di  quel  gran  loco , 
E s' avviò  per  gire  al  destro  cerchio 
Con  Belisario  e 1'  ombra  di  Camillo. 

Quel  cerchio  avea  sei  porte,  onde  s'inlrava 
Al  contemplar  de  le  future  cose. 

La  prima  avea  la  Profezia  per  guardia , 

E la  seconda  il  Sogno , e la  Mania 
Tenea  la  terza , e poi  l’ Astrologia  ; 

Ma  la  Negromanzia  reggea  la  quinta, 

La  sesta  era  in  custodia  de  le  Sorti. 

L’  angelo  Erminio  poi  menò  i baroni 
Per  quella  porta  che  guardava  il  Sogno  ; 


ITALIA  LIBERATA.  J9 


E come  fu  roti  uè  la  destra  sfera, 
Trovaron  l’ acre  nebuloso  e bruno , 

Simile  a quel  eh'  al  giunger  de  la  notte 
Si  sparge  lo  eie!  con  1*  oscurata  Luna. 
Perù  gli  disse  il  messaggier  divino  : 
Capitatilo  gentil,  volgi  la  vista, 

E ben  affisa  gli  occhi  in  quella  gente, 

Che  siede  Intorno  ad  una  gran  cittade , 

E tenta  mille  modi  per  pigliarla  ; 

Ma  quel  baron , che  è dentro , la  difende  ; 
Onde  s' adopra  ogni  lor  forra  indarno. 
Guarda  se  ti  conosci  esser  colui , 

Che  la  difende  ; e se  conosci  Roma , 

E gli  aspri  Goti  che  gli  stanno  intorno , 

Più  numerosi , che  non  è l’ arena 
Ne’  marittimi  liti , o i pesci  in  l’ onde. 
Quivi  darantì  assai  fatiche  e danni  ; 

Ma  guarda  un  poco  in  là  che  tu  gli  cacci 
Con  vituperio  lor  fin  a Ravenna. 

Mira  poi , che  Ravenna  ancor  si  rende , 
Dopo  quelle  vittorie , a le  tu  mani  ; 

E meni  U re  prigton  dentri  a Disamo , 
Con  tanta  preda  e tanta  gloria  teco , 
Quant’  avesse  uom  gii  mal  che  fosse  al 
Allora  il  capitanio  alzò  le  mani , [mondo. 
E gii  occhi  a]  deio , e sospirando  disse  : 
Quanto  vi  debbo , o Provvidenza  eterna, 
Ch’  apparecchiate  a le  fatiche  nostre 
Questo  sì  caro  e glorioso  pregio  ! 

Poi  l’ angui  santo  seguitò  ’l  suo  dire  : 
Mira  color  che  restano  al  governo 
D’ Italia  dopo  te , come  son  lenti 
A riparare  a la  surgente  fiamma  ; 

Onde  i rimedj  lor  saranno  indarno. 

Vedi  Aldibaldo  nuovo  re  de’  Goti 
Romper  VitcUio  lì  presso  a Trivigi  ; 

Vedi  poi  Belio,  eh’  Aldibaldo  uccide 
Per  la  moglie  d’  Urei  che  gii  fu  tolta. 

Ne  la  cui  sede  Alarico  vien  posto  : 

Ma  poscia  aneli’  egli  è parimente  ucciso  ; 
Onde  Tolda  ascende  a quell’  altezza. 

Mira  ancor  qui  la  presa  di  Verona 
Dal  valoroso  Arlabazo,  e dappoi 
L’ ignavia  de  i prefetti  che  la  perde. 

Vedi  poi  come  Totila  combatte 
Con  quei  Romani  lì  presso  a Faenza, 

E tosto  i rompe  ; e parimente  ancora 
Rompe  a Fiorenza  le  romane  squadre. 
Poi  prende  Benevento , e manda  a terra 
Le  mura  ; e piglia  i Calabri , e i Lucani , 
Ed  i Pugliesi  con  prestezza  immensa. 
Vince  Demetrio  con  l’ annata  in  mare , 

E poscia  il  prende,  e coi  capestro  al  colio 


A le  mura  di  Napoli  ii  conduce  ; 

Onde  la  terra  misera  si  rende  j 
Ed  el  le  spiana  le  eminenti  mura. 

Poi  mette  assedio  a la  cittì  di  Roma, 

Onde  r imperador  II  fa  tornarvi 
Con  poca , e poco  valorosa  gente , 

E senza  alcun  favor  de  la  Fortuna  ; 

Chè  ’l  Re  del  elei  sarà  con  lui  sdegnato , 
Ch'  avendo  avuta  una  vittoria  tale , 

Qual  tu  gli  dai , non  riconosce  averla 
Da  Dio , nè  da  1’  estreme  tue  fatiche  ; 

E non  vi  rende  i meritati  onori. 

E però  non  potrai  donare  aiuto 
A l’ infelice  assediata  Roma  ; 

Onde  con  tradimento  ella  fia  presa 
Dal  crudo  re  disposto  di  spianarla. 

E manda  i muri  primamente  a terra , 

Poi  vuol  distrugger  gli  edifici  tutti , 

Ma  per  lo  scriver  tuo  gli  lascia  In  piedi. 
Ben  la  fa  vota  d’  uomini  ; onde  resta 
Quella  cittì  eh’  ha  dominato  il  mondo , 
Con  le  sue  case  desolate  ed  arse. 

Nè  solamente  la  cittì  di  Roma 
Vedi  per  terra,  ma  I’  Italia  latta 
Veder  potrai  con  le  spianate  mura 
De  le  cittì  eli’  a Totila  si  dlero. 

Tu  ben  dappoi  ti  sforzi  ancor  munire 
L’ onorata  regina  de  le  terre, 

E le  fai  ritornar  la  gente  dentro. 

Ma  poi  che  con  grand’  arte  1’  hai  munita , 

Quel  dispietato  Totila  ritorna 

Con  1’  esercito  suo  per  prenderl’  anco; 

Ma  nulla  fa , eh’  ella  è da  te  difesa. 

Onde  senza  profitto  indi  si  parte 
Con  vergogna  e con  danno  ; e qui  s’ avve- 
di 'esser  potrebbe  alcuna  volta  vinto,  [de, 
Tu  poi  ti  parti  fuor  d' Italia  , e vai 
A guardar  I’  Asia  dal  furor  dei  Persi  ; 
Come  t’ Impone  il  corrcttor  del  mondo , 
Per  volontà  de  le  superne  rote. 

Ma  quando  poi  sarai  partito  quludi , 
Totila  piglierà  I'  afflitta  Roma, 

Col  nuovo  tradimento  de  gl’  Isauri; 

E manderà  quei  cittadini  a morte. 

Vedi  che  prende  Corsica  e Sardegna, 

E scorre  la  Sicilia , e fa  gran  prede  ; 

Poi  divien  possessor  d' Italia  tutta. 

Da  poche  terre  in  fuor  eh’  avean  gii  Esar- 
Onde  l’ imperador  placando  prima  [ ehi. 
Il  Signor  di  là  su , eh’  era  sdegnato , 
Manda  il  prudente  c callido  Narsete 
Contra  questo  crudel , con  tanta  gente , 
Che  cuopre  tutu  la  campagna  d’  arme; 


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POEMI  EROICI. 


E quando  giunto  fia  ne  la  Toscana , 
Verrai»  il  crudo Tolila  a T Incontro, 

Con  tutto  quanto  11  fior  de’  suol  soldati  ; 

Ivi  combatte , ivi  fia  rotto  e vinto 
Totila , ed  ivi  ancor  correndo  in  fuga , 
Vedi  clic  Asbado  Gepido  il  ferisce , 

Onde  ne  more  ed  è sepulto  a Capra. 

E vedi  poi  la  femminella  gola , 

Che  mostra  11  loco , ove  sotterra  è posto. 
Ecco  i Romani  die  lo  traggon  fuori , 

E veduto  che  1'  bau,  lo  tornan  sotto; 
Vedi  die  ’l  forte  Teio  a luì  succede  ; 

Vedi  di'  ucciso  è là  presso  al  Vesevo, 
Mentre  che  piglia  in  braccio  il  terzo  scudo, 
Ch'  arca  cangiato  il  primoe  poi  il  secondo 
In  quella  ferocissima  battaglia; 

Perdi’  cran  pieni  di  saette  e lance. 
Quello  ó ’l  suo  capo  che  si  porta  intorno 
Sopra  quell'  asta , c si  dimostra  a tutti. 
Ne  però  I Goti  lasciali  la  battaglia, 

Per  esser  senza  re;  ma  si  combatte 
Fin  a l’oscuro  tempo  de  la  notte. 

Il  di  seguente  si  combatte  ancora 
Infin  al  tardi  e poi  si  viene  a patti  ; 

Chò  i Goti  si  cnnlcntan  di  lasciare 
Tutta  la  Italia  libera  a i Romani , 

E passar  l’ alpi  con  le  mogli  loro  ; 

Nè  mai  per  tempo  alcun  venirgli  contra. 
Cosi  con  questi  patti  se  n'  andranno , 

E passeranno  a I'  isola  di  Tuie; 

Onde  arà  Un  quella  lerribil  guerra , 

Poi  clic  durata  fia  presso  a vent*  anui. 

A quel  parlare  il  capitanio  detto 
S’ allegrò  tutto , e sorridendo  disse  : 

Or  avverrà  quel  clic  Procopìo  espose 
Nel  primo  cominciar  di  questa  impresa; 
Quando  mirando  il  grand’  augurio,  disse  : 
Clic  1’  altro  drago  ancor  rimarria  morto 
Per  le  man  nostre , e fia  l'Italia  sciolta. 
Quel  drago  adunque  e Totila,  ch'ucciso 
Sarà  per  la  vittoria  di  Narsete, 

Che  riporrà  l’Esperia  in  liberladc. 

Cosi  diceva  il  figlio  di  Camillo  ; 

Onde  l’ eterno  messaggier  del  cielo 
Con  la  fronte  assentii» , e poi  seguette  : 
Vedi , che  ’l  grande  Giustiniano  arriva 
Al  fine , c satisface  a la  natura , 

Volando  al  del  con  le  purpuree  piume. 
Vedi  poi , clic  succede  al  grande  impero 
Giuslino  e la  bellissima  Sofia, 

E rivocan  d’ Italia  il  buon  Narsete  ; 

Poi  quella  donna  garrula  si  vanta, 

Che  lo  farà  filar  tra  le  sue  serve  ; 


Ond'  ei  per  sdegno  ordisce  un'  aspra  tela 
Col  fiero  Albino  re  de'  Longobardi. 

Il  qual , come  Narsete  a morte  giunga. 

Si  piglierà  l’Ausonia  intorno  al  Pado; 

Si  clic  l’ ingratitudine  ancor  fia 
Nuova  ragion  clic  Italia  si  ruini. 

Ah  vizio  intollerabil  de  le  genti, 

Vizio,  elle  mandi  a terra  ogni  virtute; 

E noci  al  mondo  più  d' ogni  altro  errore  ! 
Vedi  poi , come  il  scellerato  Albino 
Fa , che  Rosmonda  sua  consorte  beva 
Col  vaso  de  la  testa  di  suo  padre, 

Clic  fia  da  lui  ne  la  battaglia  ucciso  ; 
Onde  la  donna  da  glusl'  ira  mossa 
Uccide  il  fiero  suo  marito,  e fugge 
Con  Almachildc  poi  dentr'  a Ravenna. 
Vedi  anco  come  dietro  al  bel  Giustino 
Siede  Tiberio , e poi  Maurizio  c Foca; 

E d' indi  il  buon  Eraclio,  che  sconfisse. 
Corrode , ed  arde  Persia , e ne  riporla 
Un  gran  trionfo  con  la  croce  avanti; 

La  fiamma  là , che  ne  l' Arabia  nasce , 

E di'  arde  l’Asia  e l’Africa,  e trapassa 
In  mezzo  Europa , c fagli  immensi  danni , 
Fia  di  Maumctto;  il  qual  con  nuova  setta, 
Che  Sergio  gli  darà  , farà  adorarsi; 

E fia  il  flagcl  de  la  cristiana  fede. 

Vedi  la  stirpe,  che  d’  Eraclio  nasce. 
Governare  ottani’ anni  il  grande  impero. 
Mira  l.eonzo,  e Absiiniro , con  gli  altri 
Eletti  Imperador  de  l'Oriente, 

Infino  al  tempo  de  la  bella  Irene. 

Quivi  l' imperio  occidentale  ancora 
Ritorna  in  piedi,  c si  riporta  in  Francia; 
Coronandosi  in  Roma  Carlo  Magno 
Da  Leon  papa,  quando  arà  difesa 
La  Chiesa , e preso  il  re  de'  Longobardi , 
Ch'  avean  tenuto  quasi  Italia  tutta 
In  dura  servitù  cento  c cent'  anni. 

Vedi  l’ imperio  d’  Oriente  posda 
Calare,  infin  che  Balduino  acquista 
La  famosa  città  di  Costautluo; 

La  qual  il  Palcologo  poi  ripiglia, 

Avendo  ucciso  il  suo  pupillo , e tolto 
Al  successor  de  i Lascari  l’impero, 

Che  poi  starà  ne  1'  onorata  stirpe 
De  i Psicologi»,  d‘  uno  in  altro  erede. 
Fin  che  Maumctto  gran  signor  de’  Turchi 
Prenda  Costantinopoli , e ruini 
La  casa  palcologa;  perchè  ucciso 
bla  Costantino  in  quel  conflitto  amaro; 
Onde  arà  fin  l’ imperio  d’ Oriente. 

Come  udì  questo  il  capitanio  eccelso, 


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ITALIA  LIBERATA. 


Non  poleo  ritener  le  guance  asciutte; 

Ma  fur  d’amaro  lacrime  coperte, 

Per  la  pietà  del  miserabil  fine , 

Cb’  aver  dovea  quel  glorioso  impero. 

Poi  seguitando , l’ angelo  gli  disse  : 

L’ imperio  d’ Occidente,  dopo  Carlo, 
Arà  tre  Lodovici,  con  dui  Carli , 

Un  Lotario,  un  Arnolfo;  c poi  si  parte 
Di  Francia , e vicn  condotto  in  Alemagna  ; 
E dassi  ad  Otto  duca  di  Sassogira 
A cui  succede  il  second’  Otto,  c’1  terzo. 
Questi  ritornerà  Gregorio  papa 
In  sede;  onde  elettori  al  grande  impero 
Dappoi  faransi  principi  germani. 

Tre  saran  sacri;  il  primo  fia  Cologna, 
Treveri  V altro,  c ’l  Maguntino  è ’l  terzo. 
E tre  soluti  ; il  duca  di  Sassogna , 

Il  conte  Palatino  e ’l  Brandomburgo. 

Ma  se  fosscr  discordi , e tre  per  parte , 
Allora  il  re,  che  la  Boemia  regge. 

Sarà  fatto  elettore , e potrà  dare 
A qual  parte  vorrà  vittoria  certa. 

Ad  Otto  terzo  sicgue  Arrigo  primo , 

E poi  Currado,  c po’  il  secondo  Arrigo, 
Poi  viene  il  terzo , si  ne  l’arme  fiero, 

Che  combatteo  sessantadue  battaglie. 

A cui  seguita  il  quarto  e poi  Lotario, 

E Currado  secondo,  e Federico, 

Che  da  la  rossa  barba  ebbe  il  cognome , 
Principe  eletto  e dì  virtù  suprema. 
Dietro  a luì  siede  Arrigo  c poi  Filippo , 
Ed  Otto  quarto;  a cui  siegue  il  secondo 
Federico  gentil , pien  d’ ogni  loda , 
Simile  a l’avo  di  prudenzia,  c d’arme, 
Ma  più  fautor  d’ Italia  e de  le  Muse. 

Poi  vien  la  casa  d’ Austria  al  grande  impc- 
La  casa  d’Austria , veramente  capo  [ro  ; 
De  1’  altre  case  che  mai  furo  al  mondo; 
Madre  di  tanti  imperadori  c duchi, 

E re,  d’  ogni  gentil  virlute  adorni. 

Il  primo  d’  essa , eli’  a l’ Imperio  ascenda, 
Sarà  il  conte  Rodolfo,  che  combatte 
Con  Oltachiero,  c vincolo,  c 1*  uccide; 
Poi  vince  il  falso  Federico , e 1’  arde. 
Dietro  a costui , ne  1’  alto  imperio  siede 
Alberto  suo  figliuol , che  rompe  e vince 
Adolfo  d’  Fsia , e fallo  andare  a morte. 
Vicn  poscia  Arrigo,  quel  da  Lucimborgo: 
E Ludovico  di  Baviera , e Carlo , 

E Vincislao , Ruberto  e Sigismondo , 
Tutti  de  i Lucimborghi  ; e dopo  questi 
L*  imperio  torna  a ia  gran  casa  d’ Austria, 
E starà  io  essa  ancor  di  grado  in  grado, 


Fin  che  trapasserà  questo  millcsmo. 

Nel  quale  il  sommo  Imperadordel  cielo 
Vuol,  eh’  io  ti  mostri  le  future  cose. 

Ma  quanto  durerà  dopo  mill'  anni 
L’ imperio  in  Austria,  mi  convien  tacere, 
Per  non  passare  il  deputato  segno 
Da  questo  di  fin  al  millesim’  anno. 

Vedi  là,  dietro  a Sigismondo  altero, 
Alberto  d’Austria , eh*  a 1* imperio ascen- 
Ercde  univcrsal  de  i Lucimborghi.  [de  , 
Dopo  costui  vien  Federico  il  terzo , 
Principe  giusto  cd  amator  di  pace , 

Ch’  anni  cinquantaquattro  arà  il  governo 
Do  l'Imperio  di  Roma;  a la  qual  meta 
Nuli’ altroaggiunse  imperadordel  mondo. 
Mcravigliossl  Belisario  il  grande, 

Quando  l’angel  dicca,  eh’ a quella  meta 
Nult'allro  aggiunse  impcrador  del  mondo: 
Perciò  che  aver  solca  per  cosa  ferma, 
Ch’  anni  cinquantasei  regnasse  Augusto. 
Ma  quel  celeste  messaggìer,  che  vide 
Come  foglia , eh'  ò chiusa  in  lucld’  ambra , 
li  dubbioso  pensier  di  quel  barone, 

A lui  sì  volse , c sorridendo  disse  : 
Valoroso  signor,  che  illustri  il  mondo, 
Sappi  che  Ottavio  e Marcantonio , poi 
Che  fu  ’l  ventoso  Lepido  deposto. 
Signoreggiar  più  di  dieci  anni  insieme. 
Ma  come  Ottavio  vinse  il  suo  collega 
In  Azzìo , eh’  or  la  Prevcsa  si  chiama , 
Allor  fu  solo  imperador  di  Roma, 

Allor  fu  Augusto,  allora  ii  mondo  resse 
Quattri  anni  o poco  men  sopra  quaranta  : 
Si  che  non  t’ammirar  di  quel  eh’  io  dissi. 
Vedi  poi  dietro  a Federico  terzo, 

Quel  Massimìlian  che  è suo  figliuolo. 
Questi  sarà  si  valoroso  in  guerra. 

Sì  liberale  c si  benigno  in  pace , 

Che  le  delizie  fia  di  quella  etade. 

Guarda  il  nipote  di  costui , eh’  arriva 
Al  grande  impero  anz’  il  millesim'  anno. 
Che  m*  lia  prefisso  a dimostrarti  il  cielo. 
Questo  fia  Carlo,  figlio  dì  Filippo, 
Mandato  a voi  da  la  divina  altezza, 

Per  adornare  c rassettare  il  mondo. 
Costui  farà  col  suo  valore  immenso 
Ritornare  a l’ Italia  il  secol  d'  oro. 

Nò  solo  andrà  da  i Garamanti  a gl’  Indi , 
E dal  gran  Nilo  al  fiume  de  la  Tana 
Soggiogando  a l’ imperio  ogni  paese; 

Ma  anco  trapasserà  con  grande  armata 
Di  là  da  l’ equinozio  a V altro  polo, 

E piglierà  più  terra  assai , che  questa 


« POKMI 

Di  qua , che  ’n  tre  gran  parti  fu  di\isa  ; 
Quindi  riporterà  lanl'  oro  e gemme , 

Ch’  adorneran  tutti  i paesi  rostri. 

Al  muorer  di  costui , tremar  vedrassi 
La  Gallia , e spaventarsi  il  re  de'  Turchi , 
E 1’  Africa  adorare  il  suo  vessillo. 

Ma  non  ti  ro'  più  dir,  chei  suoi  gran  fatti 
Trapasserlano  in  quell'  altro  millesimi , 
Che  ’I  Motor  di  là  su  vuol  ch'io  ti  celi. 
Ma  vo*  lasciare  I capitani  e I regi , 

E I pontefici  sommi  ; in  cui  vedresti 
Nicola  quinto,  c T decimo  Leone, 

Si  veri  amici  a i studj  ed  a gl*  ingegni , 
Che  de  I lor  frutti  allcgrcrassi  ’I  mondo. 
Dunque  lasciam  tutti  costor  da  canto, 
Chè  saria  lungo  il  nominare  ognuno; 

E voltiam  gli  ocelli  al  monte  de  le  Muse. 
Vedi  quel  che  è la  su  presso  a la  cima , 
Colui  fia  Dante , mastro  de  la  lingua, 

Ch*  allor  l' Italia  nomerà  materna; 

Questi  dipingerà  con  le  sue  rime 
Divinamente  tutta  quella  etade. 

L*  altro,  clic  slegue  lui , sarà  il  Petrarca , 
Che  con  bel  stile , e con  parole  dolci 
Descriverà  quegli  amorosi  affetti. 

Che  desta  amor  ne  gli  animi  gentili  ; 
Vincendo  ogni  altroché  già  mal  ne  scrisse. 
Il  terzo  fia  il  Boccaccio , le  cui  prose 
Saranno  ingombre  di  pensier  lascivi. 
Risguarda  un  poco  gl’  inventor  de  I'  arti  ; 
Lustra  con  gii  occhi , e mira  quei  Tedeschi 
Gli'  han  ritrovato  I*  arte  de  la  stampa 
In  Argentina,  là  vicino  al  Reno  ; 

Per  cui  si  scriverà  tanto  in  un  giorno, 
Quanto  altrimente  si  faria  in  un  anno. 

Ma  guarda  ancor  più  là  verso  coloro , 
Che  prendon  nitro  con  carbone  e solfo  , 
E ne  fan  polve , e pongonla  in  quel  ferro 
Cacato  e poscia  una  pallotta  sopra, 

E dangli  fuoco  , e fan  tanto  rimbombo, 
Che  si  vede  il  terren  tremarli  intorno. 
Questi  son  quei  che  truovanla  bombarda, 
La  qual  divisa  in  colubrine , e sacri, 

E cannoni , e schiopetti , ed  archibusi , 
Farà  tal  danno  a i muri , ed  a le  genti  ; 
Che  non  si  potrà  farvi  alcun  riparo , 

Più  che  si  faccia  a i folguri  del  cielo. 

À questo  Belisario , alzò  la  fronte, 

E riguardando  assai  quel  nuovo  ingegno, 

Desiderava  di  portarlo  seco 

Giù  nella  vita , a debellare  i Goti  ; 


EROICI. 

Di  che  s’ av  \ ide  il  inessaggier  del  cielo , 
E disse  a lui  queste  parole  tali  : 
Capitario  gentil , volgi  la  mente 
Ad  altro,  perchè  Dio  non  ha  permesso 
Ancora  al  mondo  quel  flagello  orrendo, 
Che  se  indugiasse  a darlo  ben  mill’  anni , 
E mille,  e mille,  fia  troppo  per  tempo. 
Mira  quella  città , che  ’n  mezzo  1’  acque 
Surge  tra  il  Sile , c 1*  Adige , e la  Brenta  ; 
Quella  è Venezia , gloria  del  terreno 
Italico,  c rifugio  de  le  genti. 

Da  la  sevizia  barbara  percosse. 

Questa  regina  fia  di  tutto  *1  mare , 
Specchio  di  libertà,  madre  di  fede, 
Albergo  di  giustizia,  e di  quiete. 

Le  cui  virtù  sempre  saranno  eccelse , 

Ed  ampie  in  ogni  sua  futura  etade; 

Ma  più  sotto  P imperio  del  buon  Grilli , 
Che  pollerà  la  vita  in  abbandono , 

E la  difenderà  da  tutta  Europa, 

Che  fiali  a torto  congiurata  contra; 

E come  poi  sarà  nel  gran  governo. 

Che  quell’  ampia  città  chiamerà  duce, 

La  tenirà  sicura  in  tant’  altezza, 

Che  tutti  quanti  i principi  del  mondo, 

A pruova  ccrcheran  d’  esserli  amici. 

Ma  s’ io  volesse  correr  le  sue  lodi , 

Mi  mancheriano  le  parole , e *1  tempo , 
Chè  forse  non  fu  mai  sopra  la  terra 
Nessun  eh*  avesse  in  sè  tante  virtuti. 

Or  sarà  ben  dappoi , ch*  io  t*  ho  mostrato 
Ciò  eli*  è piaciuto  a la  bontà  divina, 

Ch’  io  ti  rimandi  al  tuo  munito  vallo; 

E costui  vada  a la  sua  sede  eterna. 

Cosi  gli  disse  1’  angelo , e toccollo 
Poi  con  la  verga,  eli’ ei  teneva  in  mano , 
Onde  P assai  se  fieramente  il  sonno; 

E gii  fece  lasciar  quella  licenza, 

Che  volea  tor  da  P ombra  di  suo  padre. 
Quindi  l’angelo  il  prese,  c riportoilo 
Addormentato  sopra  il  bel  pratello, 

Ed  appoggiollo  ad  un  di  quelli  allori , 

E lieto  se  n’  andò  volando  al  cielo; 

Ma  quel  baron  cadrò  subito  a P erba , 

E tutte  P armi  gli  sonaro  intorno , 

Tal  clic  deslossi , e soilevossi  in  piedi. 
Poi  ratto  a quel  rumore  usci  di  cella 
Con  dolce  aspetto  il  venerando  vecchio  ; 
Onde  il  gran  Belisario  inginocchiossi 
Nanzi  a i suoi  piedi , e benedir  si  fece, 

E poi  tornossi  con  Traiano  al  vallo. 


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ITALIA  LIBERATA. 


43 


LIBRO  XXII. 

MORTE  01  CORSAMONTE. 


Al  fin  de  le  parole  II  mal  Sarmento 
Mostrò  una  lettra  falsa  che  parea 
DI  man  d' Elpidia  che  scrivesse  questo. 
Onde  T gran  duca  stimulato  molto 
Dal'  amore  e da  l’ ira  e dal  sapere , 

Chè  non  mancava  a lui  virtù  nè  forza , 
Rodessi  dentroc disse  : Andiamo. andiamo 
A trar  questa  meschina  fuor  di  pene. 
Allor  Sarmento  preparato  avendo 
E lumi  e fuochi  cominciò  la  strada , 

E Corsamente  dlsmontato  a piedi 
Lasciò  11  cavallo  e l’ armi  in  quella  grotta 
A guardia  di  Doletto  c portò  seco 
La  spada  sola  c la  celada  e '1  scudo , 

Chè  non  pensava  aver  bisogno  d’arme; 
Perciò  che  posta  avea  tutta  la  speme 
DI  liberar  la  sua  diletta  sposa , 

Ne  le  promesse  false  di  Burgenzo. 

Ma  chi  spera  aver  ben , da  chi  gli  è stato 
Nimico  espresso,  ha  debole  II  consiglio. 
Come  Doletto,  ch’era  ivi  rimaso, 

Vide  1 baroni  in  quella  occulta  via , 
Andò  per  T altra  parte  entro  al  castello , 
E giunto  in  esso  pose,  in  su  le  mura 
Una  facella  accesa  per  signale , 

Che  si  movesser  prestamente  1 Goti , 
Perciò  che  Corsamonte  era  In  quel  luogo. 
Ma  come  il  duca  per  l'occulta  via 
Insieme  con  Burgenzo  e con  Sarmento , 
SI  ritrovar  vicini  a quella  torre , 

Ov’  era  chiusa  Elpidia,  uscir  del  buco; 

E mentre  che  Sarmento  ad  una  guardia 
De  la  prigion  dlcea  che  aprisse  tosto , 

Ed  ella  pur  tcnea  la  cosa  In  lungo , 
Fingendo  non  saper  trovar  le  chiavi , 
Giunsero  1 Goti  dentro  a quel  castello , 
Con  gran  furore  e con  gridori  immensi , 
Ch'  erano  stati  aperti  da  Doletto. 

Allor  s’ accorse  il  duca  esser  tradito, 

E volsesl  a Sarmento  Irato  e disse  : 

Ahi  falso  traditor  tu  m’hal  pur  colto, 
Come  si  colge  il  lupo  entro  a la  fossa  ; 

F.  dlelli  un  pugno  tale  in  una  tempia , 
Che  franse  l’ osso  e ruppell  il  cervello , 
E lo  distese  morto  In  sul  terreno  ; 

Poi  si  volse  per  dare  anco  a Burgenzo , 


Ma  non  lo  vide,  chè  ’l  ribaldo  cauto 
Restò  nel  buco  e chiuse  Ivi  la  porta. 

In  questo  aggiunse  il  duca  di  Vicenza , 
Con  trenta  milia  Goti  in  un  squadrone; 
Questi  era  a piè  con  gli  altri  che  i cavalli 
Avcan  lasciati  ognun  fuor  de  la  porta, 
Ed  andò  contra  Corsamonte  e disse  : 

Tu  sarai  colto  pur  a questa  volta, 
Acerbo  cane  c non  potrai  fuggire. 

E detto  questo  lasciò  gire  un'asta 
Possente  e grossa  e colselo  nel  scudo , 
Tal  clic  l’acerbo  e impetuoso  ferro 
DI  quella  gli  passò  sei  grosse  piastre 
Di  fino  acciaro  che  '1  copriano  tutto, 

E poscia  ne  la  settima  si  tenne. 

Ma  Corsamonte  intrepido  e virile 
Torse  quell'asta  con  la  mano  ed  ella 
Ruppe  la  punta  sua  presso  a l’acciaro 
Primo  dov’  era  sculto  il  gran  leone , 

Che  quel  baron  portava  per  insegna. 

Nè  perchè  fosse  rotta  la  sua  punta , 
Lasciò  di  trarla  aneli' ei  verso  il  nimico, 
Che  lanciata  l' avea  dentro  al  suo  scudo , 
Ma  non  l'accolse  chè  saltò  da  un  lato, 

E sì  schermi  ; ben  colse  Spinabello , 
Flglluol  di  Sergio  conte  di  Valdagno, 
Ch’era  ivi  appresso  In  mezzo  de  la  fronte, 
E cosi  senza  punta  franse  l’osso 
Del  capo , e penetrò  fin  al  cervello  ; 
Onde  cadeo  disteso  in  terra  morto. 

11  che  vedendo  Marzio  ebbe  paura, 

E ’n  dietro  si  tirò  tra  le  sue  genti , 

E poi  gridava  con  orribll  voce  : 

Fatevi  innanzi , o generosi  Goti , 

Ora  che  avemo  11  lupo  entro  a la  cava: 
Non  vi  smarrite  no  per  1 suoi  colpi , 

Clic  non  possono  aver  lunga  durata, 

Nè  risparmiate  saettami  c lande, 

Chè  tosto  morto  il  vederete  in  terra. 

Cosi  gridava  Marzio  ; onde  volaro 
Infinite  saette  entro  al  gran  scudo 
Di  Corsamonte  ed  e' volgessi  intorno, 

E presa  avendo  in  man  l’orribil  spada. 
La  facea  sfavillar  per  ogni  parte. 

E feri  Sulimano  in  una  tempia, 

Flglluol  di  Galio  conte  di  Asigiiaco, 

E lo  mandò  disteso  In  sul  terreno. 
Uccise  poi  Grifiaido  e Galabronle, 


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44  POEMI 

Ch’eran  figliuoi  di  Durlo  e Crispatora; 
Prima  a GrilTaldo  trapassò  la  pancia, 

A Galabronte  poi  parti  la  testa  ; 

Che  gli  cadeo  su  l’una  c V altra  spalla; 
Onde  vedendo  quelli  orribil  corpi, 

Tutta  si  ritirò  la  gente  gota, 

E ’l  duca  Marzio  ancor  rimase  avanti , 

E vedendosi  quivi  alzò  la  spada, 

Chè  la  necessità  lo  fece  ardito, 

E menò  su  la  testa  a Corsamonte 
E se  non  era  l'ottima  celada, 

E la  maniglia  de  la  buona  Areta, 

Lo  mandava  in  due  parti  sul  sabbione, 
Ma  quelle  due  difese  lo  saivaro; 

Poi  Corsamonte  a lui  tirò  una  punta, 

E colse)  proprio  sotto  ’)  destro  fianco, 

E senza  dubbio  lo  mandava  a morte , 
S’egli  non  si  schernita,  tal  che  sospinse 
Disbrizzo  il  ferro  e andò  tra  carnee  pelle; 
Pur  il  sangue  gli  uscì  fuor  de  la  piaga. 
Ma  quando  Marzio  si  senti  ferito, 

E vide  il  sangue  suo  cadere  in  terra, 

Si  tenne  morto  sena' alcun  rimedio, 

E per  disperazlon  fatto  sicuro, 

Alzò  con  ambe  man  1* acuta  spada, 

E diede  a Corsamonte  su  la  lesta 
Un  fiero  colpo  c con  si  gran  furore 
Clic  quasi  lo  mandò  stordito  al  piano. 

E Corsamonte  allor  empio  ’l  suo  petto 
Tanto  di  sdegno  c di  vergogna  e d’ira, 
Che  raddoppiaro  in  lui  tutte  le  forze: 
Onde  prese  ancor  ei  la  spada  orrenda 
Con  ambe  due  le  sue  possenti  mani, 

E diede  a Marzio  su  la  spalla  manca 
11  maggior  colpo  che  mai  fosse  udito, 

E ’l  petto  gli  narlì , la  schcna  c ’l  busto , 
E gli  usci  fuori  appresso  il  destro  fianco, 
E ’n  due  pezzi  il  mandò  sopra  l’arena, 
Chè  ciascun  d’essi  avea  una  man  c un 
braccio 

E l’un  tenea  la  spada  e l’altro  il  scudo; 
Cosi  quel  duca  ebbe  spietata  morte 
Per  man  de  l’animoso  Corsamonte. 

E come  il  lupo  che  in  un  chiuso  ovile 
Per  arte  del  pastor  si  truova  colto; 

E i giovinetti  pastorelli  e i cani 

Gli  sono  intorno  per  mandarlo  a morte 

Ed  c’  s’aiuta  con  1’  acuto  dente; 

Poi  quando  afferra  un  cane  entro  a la  gola 
E sanguinoso  lo  distende  a terra, 
Fuggono  i pastore] , fuggono  i cani 
Per  la  paura  de  l’ orribil  fiera; 

Cosi  tutta  fuggia  la  gente  gota 


EROICI. 

Per  la  paura  del  possente  duca , 

Che’n  dui  pezzi  mandò  il  nimico  a)  piano. 
E dopo  questo  quel  barone  audace 
Si  messe  dietro  a la  fugace  gente , 

E tanti  n’uccidea  con  l’empio  brando, 
Ch’altro  non  sìvedea  che  morti  c sangue; 
E certamente  tutti  erano  uccisi , 

Se  non  giungeva  Tolila  e Risandro, 

E Telo  ed  Asinario  c llodorico, 

Col  secondo  squadrone  a darli  aiuto  ; 
Questi  venian  gridando  : Morte,  morte 
Al  nimico  crudel  eh’ è chiuso  in  gabbia; 

E cosi  enlraro  dentro  a la  gran  rocca 
Con  quelli  orrendi  e paventosi  gridi  ; 

Ma  Corsamonte  non  si  masse  nulla, 

Chè  nel  suo  cuor  non  entrò  mai  paura  ; 
E si  cacciò  tra  lor  col  brando  in  mano , 
E ’l  primo  clic  ferì,  fu  Squarciafcrro , 
Signor  di  Campo  Lungo  e San  Germano, 
Poscia  uccìse  Rodon , Pilasso  c Targo , 
Rodon  nel  collo  e Targo  ne  la  tempia 
Ferine,  e ’l  fier  Pilasso  ne  la  pancia. 

E sbaragliava  ancor  quest’aura  schiera. 
Se  ’l  re  de*  Goti  e ’l  resto  de  la  gente 
Non  fossero  saliti  in  su  le  mura 
Da  la  parte  di  fuor  con  molte  scale, 
Lasciando  a basso  guastatori  c fabbri 
Circa  le  torri  con  livicre  c picchi , 

Per  ruinarlc  addosso  a Corsamonte. 

E questo  fece  il  re  perchè  Burgenzo 
Dello  gli  avea  clic  ’l  duca  ha  una  managlia 
Ch’a  Gnalia  gli  donò  la  buona  Areta, 
Ch* esser  non  può  nè  punto  nè  ferito: 
Però  bisogna  ovver  gettarli  addosso 
Qualche  gran  torre  ovver  fiaccarlo  in  modo 
Che  per  stanchezza  sìa  condotto  a morte; 
E questo  parve  a lui  consiglio  eletto, 
Perdi’ era  più  sicuro  il  star  lontano 
E ferir  quel  baron , che  andarli  appresso. 
Onde  fece  salir  la  terza  schiera 
Sopra  le  mura  al  lume  de  la  luna. 

Che  rilucea  come  se  fosse  giorno, 

E lasciò  a basso  l guastatori  e i fabbri 
Con  ferri  a scalpellar  circa  le  torri. 

Poi  nella  piazza  Totila  e Bisandro, 

E Telo  c gli  altri  principi  de  i Goti 
Erano  intorno  il  glorioso  duca 
Con  spade  e lance  c con  orribil  sassi , 

Ed  c’  si  stava  intrepido  e col  scudo 
Si  difendeva  c col  tagliente  brando, 

Col  quale  uccise  il  giovane  Gradarco, 
Ch’era  fratei  di  Totila  bastardo, 

Figliuoi  di  Scrpcntano  c di  Armerina, 


ITALIA  L 

D’ Armerina  gentil  che  ascosamente 
Lo  partorì  nel  bosco  del  Martello , 

Per  tema  di  Altamonda,  ch’era  madre 
Di  Totita  e moglier  di  Serpcntano, 

Ma  non  schifò  però  l'odio  c *1  furore 
Di  quella  donna,  che  com’ebbe  inteso 
Il  parto  di  costei , fece  annegarla 
Nel  fiume  impetuoso  de  la  Piave: 

E ’l  fanciullin  di  lei  fu  poi  nutrito 
Da  certe  pastorelle  in  quella  selva , 

E cresciuto  dì  forza  e dì  bellezza , 

Venne  a Trivlgi  a ritrovare  il  padre, 

E Totila  suo  frate  che  l’accolse 

Con  gran  diletto  e* poi  inenollo  a Roma, 

E quivi  era  con  lui;  ma  troppo  innanzi 
Si  spinse,  onde  ’l  feroce  Corsamonte 
Con  la  sua  spada  gii  trafisse  il  petto, 

E morto  lo  mandò  sopra  la  piazza. 

II  che  vedendo  ognun,  stava  lontano, 
Facendo  guerra  con  le  lance  e i sassi 
Più  volentieri  assai  che  con  le  spade  ; 

E Corsamonte  col  suo  scudo  In  braccio 
Sostenea  tutto  il  stuol , come  un  cingialc. 
Ch’abbia  d’intorno  cacciatori  e cani, 

Con  spiedi  c dardi , ed  e’  si  volge  e freme 
Col  pelo  irsuto  e col  feroce  dente, 

Tal  che  non  osa  alcuno  andarli  appresso. 
Perchè  qualunque  a lui  si  fa  vicino. 

Non  si  diparte  senza  sparger  sangue. 

Così  faceano  i principi  de  i Goti , 

Ch’ erano  a basso  intorno  a Corsamonte; 
Ma  quei  ch'cran  saliti  su  le  mura, 
Gettavan  tante  lance  e tanti  sassi , 

Sopra  il  baron  che  combatteva  in  piazza, 
Ch’era  cosa  mirabile  a vederla. 

Nè  mai  fioccò  dal  ciel  sì  spessa  neve , 

Nel  freddo  tempo  de  l’algente  bruma. 

Nè  si  spessa  gragnuola  a i giorni  estivi 
Tempestò  mai  su  le  terrene  piante, 

Come  spesse  cadean  le  dure  pietre , 

E l’ aste  forti  e i penetranti  dardi 
Sopra  il  gran  scudo  del  possente  duca  ; 

Tal  che  faceanlo  alcuna  volta  andare 
A mal  suo  grado  col  ginocchio  in  terra; 
Ma  non  possendo  riparare  a un  tempo 
Col  scudo  a quei  di  sotto  e a quei  di  sopra, 

Si  trasse  indietro  al  piè  d’ un’ alta  torre, 
Ch'era  posta  in  un  canto  de  la  piazza, 
Coperta  d’ un  gran  vólto , e da  le  spalle 
Del  muro  de  la  rocca  era  difesa, 

E sol  davanti  avea  la  strada  aperta. 

Quivi  fermossi  l'animoso  duca. 

Facendo  un’  incredìbile  difesa , 


JBERATA.  45 

E parca  proprio  un  scoglio  avanti  un  porto, 
Che  da  Tonde  del  mar  tutto  è percosso 
Con  estremo  romor  d’orribil  vento. 

Ed  ci  sta  saldo  e col  suo  starsi  immoto 
Frange  e disperde  ciò  che  a lui  s’appressa; 
Cosi  parca  quel  Corsamonte  audace  ; 

E ben  da  tutto  il  stuol  s’aria  difeso. 

Se  quei  ch’cran  di  fuor  co  I picchi  in  mano , 
E che  più  di  quattr’ore  avean  picchiato 
Intorno  ai  fondamenti  de  la  torre, 

Non  la  facean  cader  sopra  il  suo  capo. 

E nel  cader  che  fece , ancora  accolse 
Turbone  e Baricardo  e Fullgante, 

Due  cugini  di  Telo,  un  di  Bisandro, 

Con  più  di  novecento  altre  persone; 

Ma  questo  parve  nulla  al  re  de’  Goti , 
Poiché  ’l  suo  gran  nimico  era  sott'  essa. 
Le  genti  come  vider  quella  torre 
Caduta  sopra  T animoso  duca, 
Mandarono  un  gridor  fin  a le  stelle; 

E cosi  morto  fu  quel  gran  guerriero. 
Con  danno  estremo  de  T Italia  afflitta. 

Poi  non  fu  Goto  alcun  che  non  pigliasse 
Legnami  o sassi  e no  i gettasse  sopra 
La  gran  mina  c le  cadute  pietre , 

Quasi  temendo  ancor  che  quindi  uscisse, 

| E tutti  quanti  gii  mandasse  a morte. 

Cosi  gettando  ognun  materia  molta , 
Crebbe  su  quella  piazza  un  alto  monte, 
Non  minor  del  Testaccio  e non  men  grave 
Di  quel  che  *1  grande  Encclado  ricuopre. 

Il  Re  del  cielo,  a cui  dispiacque  e dolve 
La  morte  d’un  tant’uom,  ma  consenti  Ila, 
Per  non  si  contrapporre  al  suo  destino. 
Chiamò  l’angelo  Erminio,  e cosi  disse: 

Diletto  e fido  messaggier  del  cielo , 

Tu  vedi  11  grave  ed  immaturo  fine 
Del  più  forte  gucrricr  che  fusse  in  terra; 
Vestiti  Tale  e va  volando  a Roma, 

E narra  al  capitano  de  le  genti , 

Che  ’1  buon  duca  di  Scizia  è in  gran  pc- 
Di  lasciarli  la  vita,  e digli  appresso  [riglio 
La  causa  de  l’orribil  sua  sciagura, 

Ma  non  gli  dir  però  che  sia  caduta 
La  torre  addosso  lui,  nè  che  sia  morto, 
Acciò  che  vada  tosto  a darli  aiuto. 

L’angel  di  Dio,  dopo  il  divin  precetto, 
Aggiunse  Tali  a sue  veloci  piante, 

E venne  giuso,  come  fa  il  baleno, 

Che  ne  la  notte  limpida  scintilla , 

E nunzia  che  sarà  sereno  e caldo. 

Poi  presa  la  sembianza  d’ Orsicino , 

Andò  dov’era  il  capitano,  c disse: 


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46  POEMI 

Illustre  capitan,  gloria  del  mondo, 

Io  stara  in  guardia  a la  Flaminia  porta, 

E questa  notte  in  l’ ora  de  le  squille 
Venne  a trovarmi  un  uom  di  tal  presenza, 
Ch’  un  de'  messi  parca  del  paradiso  ; 

E mi  disse  : Orsicin,  vattene  tosto 
Al  vice  imperador  de  l’Occidente, 

E digli , come  I)  forte  Corsamente 
Stato  è rinchiuso  dentro  del  castello 
Di  Prima  Porta,  c tutto  il  campo  goto 
V’è  posto  Intorno  per  mandarlo  a morte, 
E quivi  fu  condotto  da  Burgenzo  , 

Con  arte  e con  promessa  di  trae  quindi 
La  bella  Elpldia  c di  condurla  a Ruma. 
Digli  clic  vada  tosto  a darli  aiuto, 

Chè  questo  è il  di  che  caccieranno  i Goti 
Con  gran  mina  ior  dentro  a Ravenna. 
Cosi  da  parte  di  quel  messo  eterno 
Vi  dico  c parimente  ancor  v’esorto. 
Ch'andiate  prestamente  a darli  aiuto. 

E detto  questo , via  spari  come  ombra  : 
Onde  ’I  gran  capitano  ben  conobbe. 
Ch’egli  era  un  messaggier  del  paradiso, 
E senza  indugio  alcun  levossi  in  piedi , 

E ratto  si  vesti  di  panni  e d’ arme. 

Poi  quell’  angui  di  Dio  con  gran  prestezza 
Sotto  la  forma  di  Carterio  araldo , 

Se  n’  andò  a risvegliar  tutta  la  gente  ; 

E trovò  prima  l’ onorato  Achille , 

Che  come  intese  la  spietata  nuova 
Di  Corsamente  e ’l  suo  periglio  estremo, 
Senza  curar  d' alcun  futuro  male, 

Perchè  non  era  salda  ancor  la  piaga , 

Cli' Ablavio  diedi1  a lui  sotto  ’l  costato  , 
Che  fu  più  perigliosa  che  non  parve , 
Levossi  c si  vesti  di  lucid’armc, 

E ratto  s’ avviò  verso  la  corte. 

Quivi  trovò  che  Belisario  armato 
Sopra  Vallarco  volea  gire  a.  campo , 

E le  schiere  vcnlan  con  molta  fretta, 

Ch'  cran  sollecitate  da  gli  araldi. 

Al  giunger  di  costui  si  rallegraro 
Alquanto  in  vista  le  adunate  genti , 

Come  entropia  a l’apparir  del  sole; 

Ed  e'  poi  disse  il  capitano  eccelso  : 
Illustre  capitano  de  le  genti , 

Andiamo  a dare  aiuto  a Corsara  onte. 

Ed  andlam  tosto,  ehè  ’1  soccorso  lento 
Suol  giovar  poco  c poca  grazia  acquista; 
E cosi  detto,  tutti  s'awlaro 
Verso  ’l  castello  al  lume  de  la  luna  ; 

E come  furo  appresso  a la  gran  rocca 
Trovar  Burgenzo  insieme  con  DolettO , 


EROICI. 

I quai , dappoi  che  fu  sepolto  il  duca 
Da  la  rulna  di  quell' alta  torre, 

Ritornaro  a la  grotta  di  Sarmento , 

Per  prender  il  cavai  di  Corsamonte, 

E per  donarlo  a l' empio  re  de’  Goti  ; 

E seco  aveano  a man  quel  buon  corsiero. 
Perchè  non  volse  alcun  di  loro  in  sella  ; 
Ma  come  s' incontrerò  in  quella  gente , 
Ch’avea  condotta  Belisario  il  grande. 

Si  smarrir  tutti  e si  volean  fuggire. 

Pur  presero  ardimento  e se  n’  andaro 
Al  capitano  lagrimosi  in  vista, 

E Burgenzo  gli  disse  in  questa  forma  : 
Illustre  capitano  de  le  genti 
Assai  mi  duol  de  l' immatura  morte 
Di  Corsamonte  e del  suo  caso  acerbo; 
Dio  sa  ch'io  non  volea  menarlo  meco 
111  quel  periglio,  ed  e’  venir  vi  volse. 
Spinto  d’amore  e da  soverchio  ardire; 
Ma  chi  si  iìda  troppo  ne  la  forza, 

E spesso  vinto  da  l’altrui  consiglio. 

Cosi  disse  Burgenzo , e quel  signore , 
Che  per  bocca  de  l’angelo  sapeva 

II  tradimento  fatto  e non  la  morte 

Di  Corsamonte,  anzi  l’avea  per  vivo; 
Come  udi  quella  ebbe  dolore  immenso 
E focosi  narrar  tutta  la  cosa , 

Ed  egli  la  narrò , dicendo  spesso , 

Che  questo  fatto  fu  senza  sua  colpa. 
Coni’  ei  si  tacque  il  capitano  eccelso 
Guardollo  torto  e.  con  favella  acerba 
Gli  disse  : Ali  traditor  tu  l’ hai  condotto 
In  quella  rocca  con  fallaci  inganni, 

E sei  stato  cagion  del  suo  morire , 

Ma  non  Io  vo’  lasciar  senza  vendetta  ; 

E subito  ordinò  che  fosser  presi 
Dolctto  e lui , poi  gli  mandò  legati 
Sotto  la  guardia  di  Traiano  a Roma. 
Achille  come  udì  l'acerba  morte 
Di  Corsamonte  suo  perfetto  amico , 
Ch'era  amato  da  lui  più  che  sè  stesso. 
Con  le  man  gravi  si  percosse  il  capo , 

E poi  gemendo  c lacrimando  molto , 

Si  lamentava  esser  rimaso  In  vita , 

E che’l  crudele  Ablavio  non  l’uccise; 
Onde  per  consolarlo  il  buon  Lucilio, 

Che  tenui  avea  che  non  si  desse  morte , 
Per  man  lo  prese  e iagrimava  seco  ; 
Lagrimava  con  lui  Sertorio  e Ciro, 
Bessano  e Magno  e molti  altri  baroni 
Per  l’ empia  morte  de  l' eccelso  duca. 

Nè  finito  saria  quel  duro  pianto. 

Se  T capitano  eccelso  de  le  genti 


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ITALIA  LIBERATA. 


Non  gli  dicea  queste  parole  tali  : 

Non  consumale  lagrimando  il  tempo , 
Baroni  illustri  e cavalieri  eletti  ; 

Ma  ognun  di  voi  ch’amava  Corsa  monte 
S’adopri  a far  di  lui  chiara  vendetta; 
Chè  più  grata  le  Ha  che  doglie  e pianti  ; 
Cbè  la  vendetta  è il  pianto  de  1 guerrieri , 
Nè  mai  sta  bene  a gli  uomini  robusti 
11  lacrimar,  come  fanciulli  o donne. 

Cosi  parlò  quel  capitano  eccelso; 

E poi  fece  ordinar  le  ardile  schiere, 

Ed  assalì  con  molta  furia  i Goti , 

Ch’  erano  inteuti  ad  atterrar  le  torri , 

E a gettar  pietre  in  sul  barone  estinto  : 
Onde  in  poc’ora  tutti  gli  disperse; 
Perchè  da  Ja  vigilia  de  la  notte , 

E da  la  tema  dei  ferir  del  duca , 

E dal  piacer  ch’avean  de  la  sua  morte, 
Erano  tutti  affaticati  e stanchi. 

Or  chi  vedesse  Addile  avanti  gli  altri, 

E Mundello  e Bessan , Lucilio  e Ciro 
Urtare  in  essi  e far  del  sangue  loro 
Vermiglio  il  prato  ed  innalzarsi  il  fiume, 
Dirla  che  non  fu  mai  sunti  macello. 
L’ardito  Grò  uccise  Sacripardo, 

Fratei  cugin  del  principe  Bi sandro; 
Questi  era  il  più  superbo  c ’J  più  arrogante 
Baron  de  1*  Istria  e combat  tea  con  tutti 
Que’suoi  vicini  senza  alcun  vantaggio; 
Questi  percosso  fu  da  T asta  fiera 
Del  conte  Uro  e fu  mandato  a morte , 
Chè  *1  petto  gli  passò  fin  a le  spalle  ; 

Tal  che  desiderò  d’ aver  avuto 
Vantaggio  d’arnie  c di  destrier gagliardo, 
Per  uscir  da  le  man  di  quel  barone , 

A cui  non  era  e guai , se  non  di  grado  ; 
Citò  fu  ancor  egli  conte  di  Trieste. 
Achille  ucdse  Folco  e Marco  listo , 
Tarponc  e Biltngaro  e Garimbaido, 

L'un  dopo  l'altro  con  diversi  colpi; 
Folco  feri  nel  petto,  e Marcolisto 
In  fronte,  c poi  Tarpone  e Bilingaro, 
L'un  nel  bellico  e l'altro  ne  la  pancia, 

E Garimbaido  nel  sinistro  fianco. 
Mundello  ucdse  Oveno  cd  Origlilo  ; 
Bessano  Ai  fardo,  e ’l  bel  Lucilio  Orsaldo, 
E Magno  uccise  Urante,  e *1  capitano 
Ne  mandò  tre  con  la  sua  lancia  a morte , 
Aridarco  e Grancone  ed  Orionte, 
Oriontc  crude!  ch’avea  le  membra 
Come  un  gigante  e T cuor  come  un  leone; 
Ma  l'uno  e l'altro  a lui  dier  poco  aiuto; 
Chè  Belisario  gli  passò  la  gola 


E lo  distese  morto  in  sul  terreno. 

Allor  si  messe  totalmente  in  fuga 
La  gente  gota  e ognun  di  lor  fuggia 
Chi  qua,  chi  là  verso  i vicini  colli, 
li  re  s’era  fuggito  al  primo  assalto. 
Sopra  un  suo  corridor  verso  Vaienti , 

E Totila  fuggì  verso  Kignano, 

Lisandro  a Castel  Nuovo,  c Rodorico 
A Monte  Rosso  ed  Luigastro  a Suttri, 
Telo  a Baccano  c fuvvi  alcun  di  loro. 

Che  correndo  n’andò  fino  a Viterbo: 

Ma  seguitati  un  pezzo  da  i Romani, 

Tanti  ne  fur  feriti  e tanti  uccisi, 

Ch’era  coperta  la  campagna  tutta 
Di  cavai  morti  e d’ uomini  c dì  sangue. 
Allora  il  capitano  de  le  genti 
Fece  sonar  raccolta  e posda  disse 
A la  ridotta  gente  oste  parole  : 

Signori  eletti  a liberare  il  mondo. 

Or  che  fuggita  s’è  la  gente  gota. 

Con  tanta  ocdslone  e tanto  sangue. 
Quanto  spargesser  mai  fuor  de  i lor  petti, 
Fia  ben  che  noi  si  ritorniamo  in  Roma 
Acdò  che  tosto  andiam  verso  Ravenna , 
Chè  per  la  rotta  acerba  eh’  hanno  avuta, 
E per  la  fuga  lor  molto  dispersa 
Non  ridurransi  agevolmente  insieme; 

E noi  si  tosto  gli  saremo  addosso 
Che  tempo  non  aran  da  far  difesa; 
Perchè  dopo  le  rotte  de  1 niniici. 

Chi  vuole  aver  di  lor  vittoria  a pieno, 
Non  gli  dia  spazio  mai  di  ristorarsi. 

Sarà  poi  ben  che  resti  il  conte  Ciro , 

Con  le  sue  genti  c faccia  trarre  il  corpo 
Di  Corsamonte  fuor  de  le  ruine, 

E con  Elpidia  lo  conducili  a Roma , 
Ch'Ivi  faremli  i meritati  onori; 

Ed  ivi  ordinerem  la  nostra  andata 
Con  diligenza  e con  prestezza  immensa. 

Così  diss’  egli , e subito  partissi , 

E rimcnò  tutta  la  gente  in  Roma, 

Da  quella  in  fuor  di’  ivi  lasdò  con  Ciro. 
Ma  Òro  che  rimase  entro  a la  rocca, 
Fece  cavar  di  sotto  a quelle  pietre 
Il  morto  Corsamonte  e poi  lavarlo  , 

E rinvestirlo  de  le  lucid’  arme , 

Per  farlo  indi  portar  da  i suoi  soldati 
A seppellir  ne  la  città  di  Roma  : 

Ma  l’ onorata  Elpidia  eh'  era  chiusa 
Ne  l’ alta  rocca , udendo  il  gran  romorc , 
Che  si  facca  la  notte  in  su  la  piazza, 
Avca  dentro  al  suo  petto  aspro  cordoglio  ; 
Poi  dicca  nel  suo  cuor  : Di  che  pavento , 


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48  POEMI 

Meschina  me?  Meschina,  ch’io  mi  trovo 
Nel  peggior  stato  clic  mai  fosse  al  mondo 
Nè  cosa  aver  poss’io  che  non  sia  meglio. 
Se  Corsamonte  fosse  in  queste  parti , 
Arei  giusta  cagion  d’aver  timore 
De  la  sua  vita,  a me  più  di  me  cara; 

Or  ei , si  come  credo , si  ritrova 
In  luogo  assai  lontan  da  questa  rocca , 
Tal  che  non  può  sapere  I miei  tormenti , 
Chè  sarebbe  venuto  a darmi  aiuto  ; 

Ma  pur  mi  trema  il  cuor,  nè  so  la  causa. 

Cosi  fra  sè  dicca  la  bella  donna  ; 

Ma  come  poi  col  di  s’ aperse  l’uscio 
De  la  gran  torre  per  le  man  di  Ciro , 

Ch’  e’  *'  entrò  dentro  c disse  este  parole  : 
Illustre  principessa  di  Tarento, 

Uscite  ornai  de  la  prigione  amara  ; 

Venite  meco  a la  cittì  di  Doma  ; 

Chè  Corsamente  mio  Tralci  cugino 
V'ha  posto  in  libertà  con  la  sua  morte. 

Cosi  le  disse  Ciro,  ed  ella  tosto. 
Udendo  quella  asperrima  novella, 

Come  una  insplritata  corse  fuori 
Di  quella  prigionia  col  cuor  trafitto, 

Per  veder  s' era  ver  che  fosse  estinto 
11  suo  diletto  ed  onorato  duca  ; 

Ma  come  ti  de  Corsamonte  morto 
Nel  cataletto  in  mezzo  a suoi  soldati , 
Cadde  a rinverso  tramortita  in  terra  j 
E le  donzelle  sue  che  gli  eran  dietro , 

La  raccolsero  in  braccio  c tutte  intorno 
Stavano  a tei  con  lagrimosa  fronte  ; 

Ed  ella  poi  clic  ritornolli  il  spirto, 
Dimandò  a Ciro  , come  era  venuto 
Il  duca  in  quel  castello  e chi  1’  uccise  ; 

E Ciro  le  narrò  tuttala  cosa; 

Onde  l' afflitta  c sconsolata  donna 
Con  le  man  bianche  si  percosse  il  petto , 

E i capei  d'oro  si  traca  di  testa, 

E poi  piangendo  e sospirando  disse  : [sorte 
Qual  donna  al  mondo  ha  piò  contraria 
Di  me , che  solamente  al  mondo  nacqui 
Per  segno  ovver  bersaglio  a la  fortuna? 

Il  padre  mio  fu  da  Tebaldo  ucciso 
A tradimento  con  orribil  modo; 

E la  mia  madre  poi  vedendo  il  teschio 
Di  suo  marito  cadde  in  terra  morta  : 
Ond’io  dolente  ed  orfana  ritnasa 
Nel  mezzo  de  le  forze  de  i nimici , 

Venni  a Brandizio  a Belisario  il  grande, 
Per  dimandarli  in  questi  alTanni  aiuto , 
Ed  e'  mi  diè  per  moglie  a Corsamonte , 
Duca  di  Scizia , uotn  di  valore  immenso , 


EROICI. 

Ch’  avea  Tebaldo  di  sua  mano  ucciso , 

E fatta  la  vendetta  di  mio  padre  ; 

Ond'  io  sperava  che  costui  dovesse 
Esser  la  mia  difesa  e’I  mio  contento  : 

Poi  mentre  eh’  io  venia  per  far  le  nozze 
A Roma  presa  fui  da  Turrismondo, 

E posta  in  questa  asperrima  prigione  ; 
Clic  Dio  volesse  allor  eh'  io  fosse  estinta; 
Poscia  il  gran  duca  per  cavarmi  quindi, 
È stato  ucciso  aneti'  ei  da  gli  emp]  Goti , 
Per  l’ empio  tradimento  di  Burgenzo; 

Ed  io  pur  vivo  e fra  miserie  tante , 
Ancora  ardisco  di  guardare  il  sole. 

0 come  è ver  che  non  è mal  si  grave , 

Che  noi  sopporti  la  natura  umana  ; 

Ma  se  la  sorte  mia  non  vorrà  trarmi 
Di  vita,  spero  di  trovare  un  modo, 

Da  non  veder  mai  più  luce  del  sole. 

Cosi  dicca  quella  dolente  donna. 

Con  si  gravi  sospiri  e tai  lamenti , 

Ch’  arian  mosso  a pietà  le  piante  e 1 marmi  ; 
Dappoi  salita  sopra  un  palafreno, 

Che  fece  darli  l' onorato  Ciro, 

Con  le  donzelle  sue  colme  di  pianto , 
Accompagnare  il  corpo  entro  a la  terra. 
E Ciro  ancor  con  l'altra  gente  d’arme 
GII  andavan  dietro  e con  sospiri  amari 
Fondean  da  gli  occhi  lor  lacrime  calde  ; 
Ma  quando  furo  a la  Flamini  porta , 
Trovaron  tutti  I chierici  di  Roma, 

Clic  sfavali  quivi  con  doppieri  accesi 
Ad  aspettarlo,  e poi  gli  andare  avanti , 
Cantando  salmi  in  lamentevo)  note; 

E dopo  questi  andare  a cinque  a cinque  ; 
Tutta  la  legion  eh’ avea  in  governo, 

Con  le  bandiere  lor  tratte  per  terra  ; 
Ediclro  a quei  stendardi  andava  un  paggio 
Il  qual  menava  il  suo  cavallo  ircano 
Poco  avanti  al  feretro  tanto  mesto , 

Clic  parca  lagrlmare  il  suo  signore  : 

E ’l  vice  inipcrador  dietro  al  feretro, 
Con  tutti  gli  altri  principi  romani. 

Vestiti  a bruno  e lagrimosi  e mesti 
Accompagnare  quel  baron  defunto 
Al  loco  eletto  per  lo  suo  sepolcro. 

Poi  non  fu  alcun  del  gran  popol  di  Roma 
Nè  giovane,  nè  femmina,  nè  vecchio. 
Clic  non  si  ritrovasse  ad  onorarlo, 

E non  piangesse  la  sua  dura  morte. 

Cosi  con  quel  bell’  ordine  n’ andare 
Fino  a la  chiesa  u’  fu  deposto  il  corpo , 
Con  tanti  torchi  c luminari  intorno. 

Che  parca  tutta  quanta  arder  di  fiamme. 


ITALIA  LIBERATA. 


Quivi  U bella  Elpidia  c le  sue  donne , 
Tagliar,  piangendo , le  lor  chiome  blonde, 
E le  gettar  sopra  il  barone  estinto  ; 

Ma  prima  Elpidia  disse  oste  parole  : 

Signor,  pigliate  le  infelici  chiome 
Di  quella  che  doveva  esserv  i sposa , 

Se  ben  unqua  da  voi  non  fu  veduta , 

Se  non  presso  a Brandizio  una  sol  volta , 
La  cui  vista  crudel  v’  ha  date  molte 
Fatiche,  e ne  la  fln  mandovvi  a morte, 
Senza  sua  colpa;  ond'elia  per  dolore 
Non  vuol  mai  più  veder  luce  del  sole. 

Cosi  dicendo  e lacrimando  insieme. 
Pose  le  chiome  d'  or  dentro  a le  mani 
Soluto,  e molli  de  l’ estinto  duca , 

Che  mosse  in  quei  baron  dirotto  pianto  ; 


40 

Ma  più  d’ogni  altro  l'onorato  Achille, 
Piangea  con  voci  dolorose  ed  alte. 

Che  facea  lacrimar  tutta  la  gente. 

Poi  ne  la  piazza  eh’  t ’nanzi  a la  chiesa , 
S'apparecchiava  una  superba  tomba 
Di  finissimi  marmi , e dentro  a quella, 
Dopo  la  mesta  orazlon  funebre 
Ne  la  qual  dottamente  11  buon  Terpandro 
Narrò  tutte  le  laudi  del  defunto , 

E dietro  al  canto  de  i devoti  preti , 

Vi  fu  rinchiuso  l'onorato  corpo, 

Con  molte  spoglie  gloriose  Intorno , 

Che  acquistò  già  ne  le  battaglie  orrende. 
Poi  tutti  I gesti  suoi  furon  descritti 
Entro  a quei  bianchi  e ben  politi  marmi 
Con  lettre  d’ oro  e con  parole  elette. 


MARINO. 


ADONE. 


CANTO  DI  FAUNI. 


Quanti  favoleggiò  numi  profani 
L'etade  antica,  han  quivi  I lor  soggiorni. 
Lari , sileni , semicapri , e pani , 

La  man  dì  tirso,  Il  crin  di  vite  adorni , 
Geni  salaci , c rustici  silvani , 

Fauni  saltanti , e satiri  bicorni , 

E di  ferule  verdi  ombrosi  i capi 
Senza  fren,  senza  vel  bacchi,  e prìapi. 

E menadi , e bassaridi  vi  scemi  [ce, 
Ebbre  pur  sempre,  c sempre  a bere  accon- 
Cbc  intente  or  di  latini , or  di  falerni 
A votar  tazze,  ed  asciugar  bigonce. 

Ed  agitate  dai  furori  interni 
Rotando  i membri  in  sozze  guise  e sconce 
Celebran  l' orgie  lor  con  queste  o tali 
Fcsccnninc  canzoni , c baccanali. 

Or  d'ellera  si  adornino,  c di  pampino 
1 giovani , c le  vergini  piu  tenere , 

E gemina  nell’ anima  si  stampino 
L’ immagine  di  Libero,  e di  Venere. 


Tutti  ardano,  si  accendano,  ed  avvampino 
Qual  Semole , che  al  folgore  fu  cenere  ; 
E cantino  a Cupidìnc , ed  a Bromio 
Con  numeri  poetici  un  encomio. 

La  cctcra  col  crotalo , e con  l' organo 
Sui  margini  del  pascolo  odorifero , 
li  cembalo,  e la  fistula  si  scorgano 
Col  zufolo,  col  timpano,  e col  piffero; 
E giubbilo  festevole  a lei  porgano , 

Che  or  espero  si  nomina,  or  lucifero; 
Ed  empiano  con  musica,  che  crepiti, 
Quest'isola  di  fremiti,  e di  strepili. 

I satiri  con  cantici , e con  frottole 
Tracannino  di  nettare  un  diluvio. 
Trabocchino  di  lagrima  le  ciotole, 

Che  stillano  Pusllipo,  e Vesuvio. 

Sien  cariche  di  fcscine  le  groltolc , 

E versino  dolcissimo  profluvio. 

Tra  frassini , tra  platani , c tra  salici 
Esprimansi  dei  grapDOll  nei  calici. 

3 


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50  POEMI 

Chi  cupido  è di  suggcre  l'amabile 
Del  balsamo  aromatico , e del  pevere , 
Non  mescoli  il  carbuncolo  potabile 
Col  Rodano,  con  l’ Adice,  o col  Tevere; 
Che  fc  perfido,  sacrilego,  e dannabile, 

E gocciola  non  merita  di  bovcre 

Chi  tempera , chi  intorbida , chi  incorpora 

Coi  rivoli  il  crisolito , e la  porpora. 

Ma  guardimi  gli  spiriti  die  fumano. 
Non  facciano  del  cantaro  alcun  strazio, 
E l’ anfore  non  rompano,  che  spumano  , 
Già  gravide  di  liquido  topazio , 


EROICI. 

Citò  gli  uomini  Ire  in  estasi  costumano, 
E si  altera  ogni  stomaco  che  è sazio; 

E il  cerebro  che  fervido  lussuria. 

Più  d’Èrcole  con  impeto  si  infuria. 

Mentr’elle  ivan  cosi  con  canti  e balli 
Alternando  evoè  giollvo  e liete. 

Intente  tuttavia  negl’  intervalli 
Sgonfiando  gii  otri,  ad  inaffiar  la  sete; 
Passando  Adon  di  quelle  amene  valli 
Nelle  più  chiuse  viscere  segrete , 

Trovò  morbida  mensa , ed  apprestati 
Erano  intorno  al  desco  i seggi  aurati. 

(Canto  settimo,  intitolato  Le  Dtliae.) 


LE  MARAVIGLIE. 


ARGOMENTO.  • 

Di  sfera  in  sfera  colassi  salita 
Venere  con  Adone  in  cict  scn  viene 
A cui  Mercurio  poi  quanto  contiene 
li  maggior  mondo  in  piccol  mondo  addita. 


CANTO 

Musa,  tu  che  del  elei  per  torti  calli 
Infaticabilmente  II  corso  roti , 

E mentre  de’  volubili  cristalli 
Qual  veloce , c qual  pigro  accordi  i moli , 
Con  armonico  piede  in  lieti  balli 
Dell’ Olimpo  stellante  il  suol  percoli. 
Onde  di  quel  concento  il  suon  si  forma , 
Che  è del  nostro  cantar  misura  e norma; 

Tu,  divina  virtù,  mente  immortale, 
Scorgi  l’audace  ingegno,  Urania  saggia, 
Cile  oltre  I propri  confin  si  leva  c sale 
A spaziar  per  la  celeste  piaggia. 

Aura  di  tuo  favor  mi  regga  l’ale 
Per  si  alto  scntier  siedi’  io  non  caggia. 
Movi  la  penna  mia,  tu  clic  il  del  movi, 
E detta  a uovo  stil  concetti  novi. 

Tifiprimicr  per  l’ acque  alzò  l’ antenne, 
Con  la  cetra  sotterra  Orfeo  discese. 
Spiegò  per  l’ aure  Dedalo  le  penne , 
Prometeo  al  cerchio  ardente  il  volo  stese. 
Ben  conforme  all’  ardir  la  pena  venne 
Per  cosi  stolte  e temerarie  imprese; 


DECIMO. 

Ma  più  troppo  badi  rischio,  e di  spavento 
La  strada  inaccessibile  ch’io  tento. 

Tento  insolite  vie,  dal  nostro  senso, 
E dal  nostro  intelletto  assai  lontane. 
Onde  qualor  di  sollevarvi  io  penso 
0 di  questo , o di  quel  le  voglie  insane , 
Quasi  debil  potenza  a lume  immenso , 
Che  abbacinala  in  cecità  rimane,  [po 
L’ uno  abbagliato , c l’ altro  infermo  ezop- 
Si  stanca  al  sommo, csi  confonde  al  troppo. 

E se  pur,  che  noi  vinca , c noi  soverchi 
L’infinito  splendor,  talvolta  avviene, 

E che  il  pcnsicr  vi  poggi , c che  ricerchi 
Del  non  trito  cammin  le  vie  serene. 
Immaginando  quei  superni  cerchi. 

Non  sa,  se  non  trovar  forme  terrene. 

So  ben , che  senza  te  toccar  si  vieta 
A si  tardo  cursor  si  eccelsa  meta. 

Tu,  che  di  Beatrice  il  dotto  amante 
Gii  rapisti  lassù  di  scanno  in  scanno, 
E il  felice  scrittor,  che  d’Agramante 
Immortalò  l’alta  mina,  e il  danno, 


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ADONE.  Si 


Guidasti  si,  cbc  sul  destrlcr  volante 
Seppe  condurvi  il  paladin  britanno, 
Passar  per  grazia , or'  anco  a me  concedi 
Dei  tuo  gran  tempio  alle  sccrcte  sedi. 

Gii  per  gli  ampj  del  ciel  spazj  sereni 
Dinanzi  al  Sol  Lucifero  fuggiva, 

E quei  scolendo  i suoi  gemmati  freni 
L’ uscio  purpureo  al  novo  giorno  apriva. 
Fendean  le  nebbie  a guisa  di  baleni 
Anelando  1 destrier  di  fiamma  viva, 

E vedeansi  pian  pian  nel  venir  loro 
Ceder  l’ ombre  notturne  ai  fiati  d’oro. 

Dalle  stalle  di  Cipro,  ove  si  pasce 
Gran  famiglia  d'augei  semplici , e molli. 
Sei  nescelse  in  tre  coppie,  c in  auree  fasce 
Al  timon  del  bel  carro  Amor  iegolli. 
Torcer  lorvedi  incontr’al  di,  che  nasce. 
Le  vezzose  cervici,  e i vaghi  colli, 

E le  smaltate,  e colorite  gole 
Tutte  abbellirsi , e variarsi  ai  Sole. 

Vengon  gemendo,  e con  giocondi  passi 
Movon  citati  al  bel  viaggio  il  piede, 

Al  bel  viaggio , ove  apprestando  vassi 
Venere  con  colui , che  il  cor  le  diede. 

Al  governo  del  fren  Mercurio  stassi , 

E del  corso  sublime  arbitro  siede , 

Sovra  la  principal  poppa  lunata 
Posa  la  bella  coppia  innamorata. 

Sciolser  d’ un  lancio  le  colombe  a volo 
Legate  al  giogo  d’or,  l' ali  d’ argento. 

Si  aprirò  1 cieli , e serenossi  II  polo, 
Sparver  le  nubi , ed  acquetossi  il  vento. 
Di  canori  augellctti  un  lungo  stuolo 
Le  secondò  con  musico  concento, 

E sparser  mille  passere  lascive 
DI  garriti  d’amor  voci  festive. 

Quelle  innocenti , e candide  augelettc, 
Da'  cui  rostri  si  apprende  amore , e pace, 
Non  temon  già,  d'amor  ministre  elette, 
Lo5mcrlo  ingordo , o il  peregrin  rapace. 
Con  lor  l'aquila  scherza:  altre  saette 
Nel  cor,  che  nell'artiglio  aver  le  piace. 

1 più  fieri  dintorno  augei  grifagni 
Son  di  nemici  lor  fatti  compagni. 

Precorre,  c segueilcarroampia  falange 
(Parte  il  circonda)  dì  valletti  arcieri, 
Ed  altri  a consolar  l’ Alba  che  piange , 
Col  venir  della  Dea  volan  leggieri. 

Altri  al  Sol,  che  rotando  esce  di  Gange, 
Perchè  sgombri  la  via,  van  messaggieri. 
Ciascuno  il  primo  alle  fugaci  stelle 
Procura  dì  annunziar  l’ alte  novelle. 

0 tu , che  in  novo , e disusato  modo 


Saggia  scorta  mi  guidi  a quel  gran  regno 
( Disse  a Mercurio  Adone),  ove  non  odo. 
Che  altri  di  pervenir  fusse  mai  degno. 
Pria  eh'  in  giunga  lassù , solv  imi  un  nodo. 
Che  forte  implica  il  mio  dubbioso  ingegno. 
E fors’  egli  corporeo  ancora  il  cielo , 
Poiché  può  ricettar  corporeo  velo  ? [ tiene. 
Se  corpo  ha  il  ciel,  dunque  materia 
Se  egli  è material , dunque  è composto  ; 
Se  composto  mel  dai , ne  segue  bene 
Che  è dei  contrari  alle  discordie  esposto  ; 
Se  soggiace  ai  contrari , ancor  conviene. 
Che  alla  corruzton  sia  sottoposto. 

Eppur  del  ciel  parlando,  udito  ho  sempre, 
Ch'  egli  abbia  incorrodibili  le  tempre. 

Tace , e in  tal  suono  ai  detti  apre  la  via 
Il  dotto  timonier  del  carro  aurato  : 
Negar  non  vo’,  che  corpo  il  ciel  non  sia 
Dì  palpabll  materia  edificato, 

Chè  far  col  moto  suo  quell'armonia 
Non  potrebbe , eh’  ei  fa , mentre  è girato. 
È tutto  corporal  ciò  che  si  move , 
Eciòcheha,  Il  qual,  e il  quanto , il  donde, 
e il  dove. 

Ma  sappi , che  non  sempre  è da  Natura 
La  materia  a tal  fin  temprata  e mista. 
Perchè  abbia  a generar  colai  mistura , 
Quel  che  perde  mutando  in  quel  che  ac- 
quista ; 

Ma  perchè  quantità  prenda,  e figura, 

E del  corpo  alla  forma  ella  sussista; 

Nè  di  material  quanto  è prodotto 
Dee  necessariamente  esser  corrotto. 

Materia  dar  questa  materia  suole 
Al  discorso  mortai,  che  sovente  erra. 
Chi  fabbricata  la  celeste  mole 
Di  foco  e fumo  ticn , chi  d' acqua  e terra. 
Se  arrivassero  al  ver  sì  fatte  fole, 
Sarebbe  quivi  una  perpetua  guerra. 

Cosi  di  quel  che  l’uom  non  sa  vedere. 
Favoleggiando  va  mille  chimere. 

La  materia  del  ciel , sebben  sublima 
Sovra  r altre  il  suo  grado  in  eminenza, 
Non  però  dalla  vostra  altra  si  stima , 
Nulla  tra  gl’individui  ha  differenza. 
Ogni  materia  parte  è della  prima, 

Sol  la  forma  si  varia,  e non  l’essenza. 
Varietà  tra  le  sue  parti  appare , 
Secondo  che  elle  son  più  dense , o rare. 

Bastili  di  saper,  che  peregrina 
Impressione  in  sè  mal  non  riceve 
La  perfetta  natura  adamantina 
Di  quel  corpo  lassù  lubrico  e lieve. 


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POEMI  EROICI. 


Paragonarsi  (ancorché  pura  e lina) 
Qualità  d'elemento  a lei  non  deve. 

Un  fiore  scelto,  una  sostanza  quinta. 

Da  cui  di  pregio  ogni  materia  è vinta. 

La  sua  figura  è circolare  c tonda , 
Periferia  continua , c senza  punto. 

Tcraiin  non  ha,  ma  spazio  egual  circonda  ; 

Il  principio  col  fin  sempre  ha  congiunto. 
Linea,  che  appien  d' ogni  eccellenza  ab- 
Alla  divinili  simile  appunto,  [fionda, 
E la  divina  Eternitadc  imita, 

Perpetua,  indissolubile,  infinita. 

Or  a questa  del  del  materia  eterna 
L’anima,  che  l’ informa,  è sempre  unita. 
Questa  è quella  virtù  santa  e superna, 
Spirto,  che  le  di  molo  , c le  di  vita. 
Senza  lei , che  la  volge,  c la  governa , 
Fora  sua  nobilti  troppo  av  vilita. 

Miglior  foran  del  elei  le  pietre  istessc. 

Se  la  fonila  motrice  ei  non  avesse. 

Qursta  con  lena  ognor  possente  e franca 
Della  macchina  sua  reggendo  il  pondo, 

Le  rote  mai  di  moderar  non  manca 
Di  quel  grand'  oriuol , che  gira  a tondo. 
Per  questa  in  guisa  tal , che  non  si  stanca, 
L' organo  immenso  , onde  ha  misura  il 
Con  sonora  vertigine  si  volvc  [mondo, 
Ni  si  discorda  mai , nè  si  dissolve. 

Cosi  dicea  di  Giove  il  mcssaggicro , 

Nè  lasciava  d’ andar , pereti'  ci  parlasse. 
De'  campi  intanto,  ov'  ha  Giunone  impero, 
Lasciate  area  le  reglon  più  basse , 

E giù  verso  il  più  attivo,  e più  leggiero 
Elemento  drizzava  il  lucid'  asse. 

La  cui  sfera  immortai  mai  sempre  accesa 
Passò  senza  periglio , e senza  offesa. 

Varcalo  II  puro,  ed  innocente  foco, 
Che  alla  gelida  Dea  la  faccia  asciuga. 
L'etra  sormonta,  ed  a più  nobil  loco 
Giù  presso  al  primo  del  prende  la  fuga, 
E il  suo  corpo  incontrando  a poco  a poco, 
Clic  par  specchio  ben  terso,  e senza  ruga. 
In  queste  note  il  favellar  distingue 
Il  maestro  dell'  arti , e delle  lingue  : 
Adon , so  che  saper  di  questo  giro 
Brami  I secreti , ove  siam  quasi  ascesi , 
Con  tanta  attenzlon  mirar  ti  miro 
Nel  volto  della  Dea,  madre  dei  mesi; 
Chè  sebben  tu  mi  taci  il  tuo  destro , 

E la  dimanda  tua  non  mi  palesi , 

Ti  veggio  In  fronte  ogni  pcnsicr  dipinto, 
Più  che  se  per  parlar  fusse  distinto. 
Questo , a cui  siam  vicini , è della  Luua 


L’ orlve,  che  imbianca  il  ciel  con  suoi  splen- 
Candlda  guida  della  Notte  bruna , [dori , 
Occhio  de'  ciechi , e tenebrosi  orrori. 
Genera  le  rugiade , i nembi  aduna , 

Ed  è ministra  de'  fecondi  umori. 

Dagli  altrui  raggi  illuminata  splende. 

Dal  Sol  toglie  la  luce , al  Sol  la  rende. 

Di  questo  corpo  la  grandezza  vera 
Minor  sempre  è del  Sol,  nè  mai  l' adombra, 
Chè  della  terra  a misurarla  Intera 
La  trentesima  parte  appena  ingombra. 
Ma  se  s'accosta  alla  terrena  sfera, 

Egual  gli  sembra,  egli  può  farqualch’om- 
Sol  per  un  sol  momento  allor  si  vede  [bra. 
Vincer  li  Sol,  d'ogni  altro  tempo  cede. 

Ila  varie  forme , e molti  aspetti  c molli  ; 
Or  è tonda,  or  bicorne,  or  piena,  or  scema. 
E sempre  tien  nel  Sol  gli  occhi  rivolti , 
Clic  la  percolo  dalla  parte  estrema 
Onde  sempre  almen  può  l’ un  de'  due  volli 
Partecipar  di  sua  beltà  suprema. 

Fa  ciascun  mese  il  suo  periodo  intero, 
E circondando  il  ciel , cangia  emispero. 
Perchè  s'appressa  a voiplùche  gli  altri 
orbi, 

Suol  sopra  i vostri  corpi  aver  gran  forza. 
Donna  è de’  sensi , e Dea  di  mali  c morbi  ; 
Ella  sol  gli  produce , ella  gli  ammorza. 
Quanto,  o padre  Ocean  nel  grembo  as- 
sorbì , 

Quanto  In  te  vive  sotto  dura  scorza, 

E il  moto  istesso  tuo  cangiando  usanza 
Altera  al  moto  tuo  stato,  c sembianza. 

Il  frutto,  e II  fior,  la  pianta,  e la  radice , 
Il  mare,  il  fonte,  il  fiume, e l'onda,  eilpe- 
Prendon  daquestaogni  virtù  motrice, [sce, 
E il  moto  ancor,  quanti’  ella  manca  o cre- 
Del  ccrebro  ella  è sol  govcrnalrice  ; [sce. 
Di  quanto  II  ventre  chiude,  c quanto 
E tutto  ciò,  che  In  sè  parte  ritiene  [n’esce. 
D'umida  qualità,  con  lei  conviene. 

Cosa , non  dico  sol  Saturno,  o Giove 
Nel  mondo  infcrlor  propizia,  o fella. 
Ma  qual  altra  o che  posa , o clic  si  move, 
Stabil  non  versa,  o vagabonda  stella , 
Clic  non  passi  perle!  ; quante  il  ciel  piove 
Influenze  laggiù,  sccndon  per  quella. 
Per  quella  chiara  lampada  d’ argento,  [to. 
Cheèdcir  ombre  notturne  alto  ornamen- 
Ondese  avvien,  che  giri  il  bel  sembiante 
Collocato  c disposto  in  buon  aspetto. 
Ancorché  variabile  e vagante, 

Partorisce  talor  felice  effetto. 


ADONE.  SS 


Ma  Fortuna  non  mai,  fuor  clic  incostante, 
Speri  chiunque  a lei  nasce  soggetto, 

Qie  con  perpetuo  error  fia  clic  lo  spinga 
Fuor  di  patria  a menar  vita  raminga. 

• Con  più  diffuso  ancor  lungo  sermone 
11  fisico  divin  volea  seguire , 

Quando  a mezzo  il  discorso  il  bel  garzone 
La  favella  gli  tronca , e prende  a dire  : 

D ima  cosa  a spiar  l’alta  cagione 
Caldo  mi  move  c fervido  desire, 

Cosa , che  da  che  pria  l' occhio  la  scorse , 
Sempre  Ita  la  niente  mia  tenuta  in  forse. 
D’alcune ombrose  macchie  impressa  lo 
veggio 

Della  triforme  Dea  la  guancia  pura. 
Dimmi  il  pcrclu';  tra  millcdublijondegglo, 
Nè  so  trovarne  opinion  secura. 

Qual  Immondo  contagio  (ioti  ricliieggio) 
Di  brulle  stampe  il  vago  volto  oscura? 
Cosi  ragiona,  d’altro  un’altra  volta 
La  parola  ripiglia , c dice  : Ascolta. 

Poiché  cotanto  addentro  intender  vuoi, 
Al  bel  quesito  soddisfar  prometto. 

Ma  di  ciò  la  ragion  ti  dirà  poi 
L’ occhio  vie  meglio  assai , clic  l’ intelletto. 
Non  mancali  già  filosofi  tra  voi. 

Che  notato  hanno  in  lei  questo  difetto. 
Studia  ciascun  d’ investigarlo  a prova, 
Ma  chi  si  apponga  ai  ver  raro  si  trov  a. 

Afferma  alcun,  clic  d’altra  cosa  densa 
Sia  tra  Febo,  c Felica  corpo  framesso, 
La  qual  dello  splendor,  di’ ci  le  dispensa. 
In  parte  ad  occupar  venga  il  refiesso. 

Il  che  se  fosse  pur,  come  altri  pensa, 
Non  sempre  il  volto  suo  fora  l’ìstcsso. 
Nè  sempre  la  vedria  chi  in  lei  si  affisa 
In  un  loco  macchiata,  e d una  guisa. 

llavvl  chi  crede,  die  per  esser  tanto 
Cintia  vicina  agli  elementi  vostri. 

Della  natura  elementare  alquanto 
Cornici!  purché  paricela  si  mostri. 
Cosi  la  gloria  immacolata , c il  vanto, 
Cerca  contaminar  de’  regni  nostri , 
Come  cosa  del  del  sincera  c schietta 
Possa  di  vii  mistura  essere  infetta. 

Altri  vi  fu , che  esser  quel  globo  disse 
Quasi  opaco  cristal , che  il  piombo  ha  dic- 
E clic  col  suo  reverbero  venisse  [tro, 
L’ombra  delle  montagne  a farlo  tetro. 
Ma  qual  si  terso  mai  fu,  che  ferisse 
Per  cotanta  distanza,  acciaio,  o vetro? 
E qual  vasta  cerviera  in  specchio  giunge 
L’imagine  a mirar  cosi  da  lunge? 


Egli  è dunque  da  dir,  che  piò  secreta 
Colà  s'asconda,  ed  esplorata  Invano 
Altra  ragion , che  penetrar  si  vieta 
All’ ardimento  dell' ingegno  umano. 

Or  io  li  fo  saper,  che  quel  pianeta 
Non  è (coni' altri  vuol] polito  c piano. 

Ma  ne’  recessi  suol  profondi  e cupi 
Ha  non  men  che  la  terra,  e valli,  c rupi. 

I.a  superficie  sua  mal  conosciuta 
Dico,  clic  è pur  come  la  terra  istcssa. 
Aspra,  ineguale,  c tumida,  c scrlgnuta, 
Concava  in  parte,  in  parte  ancor  convessa. 
Quivi  veder  potrai  (ma  la  veduta 
Noi  pud  raffigurar,  se  non  s'appressa) 
Altri  mari,  altri  fiumi,  ed  altri  fonti, 
Città,  regni , provincie,  c piani , c monti. 

E questo  è quel , che  fa  laggiù  parere 
Nel  bel  viso  di  Trivia  i segni  foschi. 
Benché  altre  macchie,  clic  ornon  puoi  ve- 
dere [noschl, 

Vo’clic  entro  ancor  vi  scorga,  e vi  co- 
Clic  son  più  spesse , e più  minute,  c nere, 
E son  pur  scogli,  ccolii,  crampi,  e boschi. 
Son  nel  più  puro  delle  bianche  gole. 

Ma  da  terra  affissarle  occhio  non  potè. 

Tempo  verrà,  che  senza  impedimento 
Queste  sue  note  ancor  fico  note  e ciliare. 
Mercè  di  un  ammirabile  slroincnto. 

Per  cui  ciò  che  è lonlan , vicino  appare  ; 
Kcon  un  occhio  chiuso , c l’altro  intento 
Speculando  ciascun  l’orbe  lunare, 
Scorciar  potrà  lunghissimi  intervalli 
Per  un  picciol  cannone,  c due  cristalli. 

Del  telescopio  a questa  date  ignoto 
Perle  fia,  Galileo,  l’ opra  composta,  (lo. 
L’opra, clic  al  scuso  altrui,  benché  remo- 
Fatto  molto  maggior  l' oggetto  accosta. 

Tu  sol  osservator  il' ogni  suo  moto, 

E di  qualunque  ha  in  lei  parte  nascosta , 
Potrai , senza  che  ve!  nulla  le  chiuda. 
Novello  Endimion , mirarla  ignuda. 

E col  medesmo  occhiai  non  solo  In  ld 
Vedrai  dappresso  ogni  atomo  distinto, 
Ma  Giove  ancor  sotto  gli  auspicj  mici 
Scorgerai  d’altri  lumi  intorno  cinto, 
Onde  lassù  dell' Arno  i semidei 
Il  nome  lasccrà  sculto,  e dipinto. 

Che  Giulio  a Cosmo  ceda  allor  fia  giusto, 
E dal  Medici  tuo  sia  vinto  Augusto. 

Aprendo  il  sor  dcll'Occan  profondo. 
Ma  non  senza  periglio, e senza  guerra, 
Il  ligure  Argonauta  ai  basso  mondo 
Scoprirà  novo  cielo , e nova  terra. 


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54  POEMI  EROICI. 

Tu  del  ciel,  non  del  mar  Tifi  secondo,  Lucida  ampolla,  onde  traspar  di  fora 
Quanto  gira  spiando,  e quanto  serra  Sempre  agitata,  e prigioniera  arena , 

Senza  alcun  rìschio, ad  ogni  genteascose  Nunzia  verace  delle  rapid'ore. 

Scoprirai  nove  luci,  c nove  cose.  A filo  a filo  per  angusta  vena 

Ben  dei  tu  molto  al  ciel,  clic  ti  discopra  Trapassa,  e riedc  al  suo  coniinuo  errore, 

L’ imenzlon  dell’  organo  celeste , E mentre  ognor  si  volge,  e sorge,  e cade , 

Ma  vieppiù  il  ciclo  alla  tua  inibii  opra.  Segna  gli  spazi  dell’umana  etade. 

Che  le  bellezze  sue  fa  manifeste.  Di  servi,  eserve,  ad  ubbidirgli  avvezza 

Degna  è l'imagin  tua,  che  sia  là  sopra  Moltitudine  intorno  ha  reverente, 

Tra  i lumi  accolta,  ondosi  fregia  c veste,  Di  quella  maestà,  die  il  tutto  sprezza , 

E delle  tue  lunette  11  vetro  frale  Prov  ida  esecutrice  e diligente. 

Tra  gli  eterni  zaflìr  resti  immortale.  Mostrava  Adon  desio  d'aver  contezza 

Non  prima  no , che  delle  stelle  istesse  Qual  si  fusse  quel  loco , c quella  gente  ; 

Estingua  II  ciclo  1 luminosi  rai , Onde  cosi  di  quel  secreti  immensi 

Esser  dee  lo  splendor,  che  al  crin  ti  tesse  11  suo  conducitor  gli  aperse  i sensi: 
Onorata  corona,  estinto  mai.  Sacra  a colei,  che  gli  ordini  fatali 

Chiara  la  gloria  tua  vivrà  con  esse.  Ministra  al  mondo,  è questa  grotta  annosa. 

E tu  per  fama  in  lor  chiaro  vivrai,  Non  solo  impenetrabile  al  mortali, 

E con  lingue  di  luce  ardenti  e bello  Agli  occhi  umani,  ed  alle  menti  ascosa, 

Favelleran  di  te  sempre  le  stelle.  Sicché  alzarvi  giammai  la  vista,  o l’ali 

Non  avea  ben  quel  ragionar  fornito  Intelletto  non  può,  sguardo  non  osa. 

Il  secretarlo  de’  celesti  Numi,  Ma  gl’interni  recessi  anco  di  lei 

Quando  il  carro  immortai  vide  salito  Quasi  appena  spiar  sanno  gli  Dei. 

Sovra  il  lume  minor  de’  due  gran  lumi , Natura  universal  madre  feconda 
Trovossi  Adone , in  altro  mondo  uscito , È la  donna , che  assisa  ivi  si  mostra. 

In  altri  prati , in  altri  boschi , e fiumi.  In  quella  cava  ha  sua  maglon  profonda, 

Quindi  arrivò  per  non  segnato  calle  Occulto  albergo,  c solitaria  chiostra. 

Presso  un  speco  riposto  in  chiusa  valle.  Giusto  è,  che  ognun  di  voi  le  corrisponda. 

Circonda  la  spelonca  erma  e remota  Vuoisi  onorar  qual  genitrice  vostra; 

Verdeggiante  le  squame,  angue  custode,  E ben  le  devi  tu,  come  creato  [lo. 

Angue , che  attorce  in  flessuosa  rota  Più  bel  d’ ogni  altro,  Adone,  esser  più  gra- 

Sue  parti  estreme , e sé  modesmo  rode.  Quell’  uomo  antico  che  alle  spalle  ha  1 
Donna  canuta  11  crin,  crespa  la  gota,  vanni 

Del  cui  sembiante  il  ciel  s' allegra  e gode , É quei,  clic  ogni  mortai  cosa  consuma , 
Dell'antro  venerabile  e divino  Domator  di  monarchi,  e di  tiranni, 

Siede  sul  limitare  adamantino,  [quelle  Con  cui  non  è chi  contrastar  presuma. 

Pendonle  ognor  da  queste  membra  e Parlo  del  Tempo  dispensier  degli  anni. 
Mille  pargoleggiando  alme  volanti,  Che  scorre  11  del  con  si  spedita  piuma, 

E tutta  piena  intorno  è di  mammelle,  E si  presto  sen  fugge,  e si  leggiero, 

Onde  allattando  va  turba  d' infanti.  Che  é tardo  a seguitarlo  anco  il  pensiero. 

Misurator  de'  cieli , e delle  stelle , Con  l'ali , che  si  grandi  ha  sulle  terga, 

E caneellier  de’  suol  decreti  santi.  Vola  tanto  clic  il  Sol  l’adegua  appena. 

Le  leggi , al  cui  sol  cenno  II  lutto  vive.  Sola  però  l'Eternità,  che  alberga 

Ne’  gran  fasti  del  fato  un  veglio  scrive.  Sovra  le  stelle,  Il  giunge,  e l'incatena. 

Calvo  è il  veglio , e rugoso,  e spande  al  La  penna  ancor,  che  dotte  carte  verga , 

Delia  barila  prolissa  il  biancopelo.  [petto  Passa  11  suo  volo , e il  suo  furore  afirena. 

Severo  in  vista , e di  robusto  aspetto , Così  (chi  il  crederebbe  ?)  un  fragil  foglio  „ 

E grande  si , che  quasi  adombra  II  cielo.  Può  di  chi  tutto  può  vincer  l’orgoglio.  I 

£ tutto  ignudo,  e senza  vesta,  eccetto  DI  duro  acciaio  ha  temperati  i denti, 

Quanto  II  ricopre  un  variabll  velo.  Infrangibili , eterni , adamantini. 

Agii  sembra  nel  corso,  ha  i piò  calzati,  Delle  torri  superbe,  ed  eminenti 

Ed  a guisa  di  augel , gli  omeri  alati.  Rode  e rompe  con  questi  1 sassi  alpini  ; 

Ticndivisainduc  vetri  in  sulla  schiena  Dei  gran  teatri  i porfidi  lucenti. 


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ADONE.  55 


Degli  eccelsi  colossi  i marini  lini. 
Divorator  del  tulio , al  fin  risolve 
Le  più  salde  materie  in  trita  polve. 

Di  sua  forma  non  so  se  t’ accorgesti , 
Che  non  è mai  ristessa  alla  veduta. 
Faccia , ed  età  di  tre  maniere  ha  questi , 
L'acerba,  la  virile,  e la  canuta. 

Tu  vedi  ben, come  sembiante,  e gesti 
Varia  sovente,  c d'or’ in  or  si  muta. 
L'effigie,  che  pur  or  n* offerse  innanzi. 
Altra  ne  sembra , e non  è più  qual  dianzi. 

Vedigli  assiso  ai  piedi  un  potentato , 

Da  cui  tutte  le  cose  han  vita  c morte, 

Con  un  gran  libro,  le  cui  carte  è dato 
Volger  (com'ella  vuol)  solo  alla  Sorte. 

A questo  Nume,  che  si  appella  Fato, 
Detta  quant*  ci  determina  in  sua  corte. 
Quegli  lo  scrive,  ed  ordina  al  governo. 
Primavera,  ed  Autunno,  Estate,  e Inver- 
no. 

Comandati  questi  al  secolo , c palese 
Gli  fan  ciò  che  far  dee  di  punto  in  punto. 
Il  secol  poi  che  ha  le  sue  voglie  intese , 

Al  lustro  impon  che  l'eseguisca  appunto. 
Il  lustro  all*  anno,  e l'anno  al  mese,  il  mese 
AI  giorno,  il  giorno  all’ ora,  el’oraalpun- 
Cosl  dispon  gli  affari,  c con  tal  legge  [to. 
Signoreggia  i mortali , c il  mondo  regge. 

Vedi  que’  duo,  1*  un  giovinetto  adorno , 
Candido,  e biondo , e con  serene  ciglia  ; 
L'altra  femmina,  e bruna,  c vanno  intor- 
E si  tengono  in  mezzo  una  lor  figlia,  [no, 
Son  color  (se  noi  sai)  la  Notte,  e il  Giorno, 
E l’Aurora  è tra  lor  bianca  c vermiglia. 
Or  mira  quelle  tre,  che  tutto  han  pieno 
Di  gomitoli  d’ accia  il  lembo , e il  seno. 

Quelle  le  Parche  son , per  cui  laggiuso 
É filata  la  vita  a tutti  voi. 

Nel  suo  volto  guardar  sempre  han  per  uso , 
Tutte  dipendon  sol  dai  cenni  suoi. 
Quella  tienla  conocchia,  e questa  il  fuso, 
L'altra  torce  lo  stame , e il  tronca  poi. 
Veti!  la  Verità  figlia  del  vecchio  , [chio. 
Che  innanzi  agli  occhi  gli  soslien  lospcc- 
Quanto  in  terra  si  fa,  là  dentro  ei  mira, 
E dell*  altrui  follie  nota  gli  esempi. 

Vede  l’ umana  anibizlon  che  aspira 
In  mille  modi  a fargli  oltraggi  c scempi. 
Crede  fiaccargli  alcun  la  forza , c 1*  ira 
Ergendo  statue , e fabbricando  tempj. 
Altri  contro  gli  drizza  archi , e trofei , 
Piramidi,  obelischi,  e mausolei. 

Ride  egli  allora,  e sì  sci  prende  a gioco , 


Scorgendo  quanto  1'  uom  s’inganna,  cd 
erra; 

E poiché  in  piedi  ha  pur  tenute  un  poco 
Quelle  macchine  altere,  alfiu  le  atterra. 
Dalle  in  preda  dell'acqua,  ov  ver  del  foco. 
Or  le  dona  alla  peste , ora  alla  guerra. 

Le  sparge  in  fumo  in  quella  guisa  o in 
questa 

Sicché  vestigio  alcun  non  ve  nc  resta. 

E di  ciò  la  ministra  é sol  quell’  una , 
Che  è cieca,  c d' un  dclfin  sul  dorso  siede, 
Calva  da  tergo, e il  crine  in  fronte  aduna, 
Alata,  c tlen  sovra  una  palla  11  piede. 
Guarda  se  la  conosci , è la  Fortuna , 

Che  al  paterno  terrei!  passar  li  diede. 
Mira  quanti  lesor  dissipa  al  vento, 

Mitre  , scettri,  corone,  oro,  ed  argento. 

Quattro  donne  reali  a piè  le  miri, 

E son  le  monarchie  dell’  universo. 

D’  or  coronata  è quella  degli  Assiri  , 

D’  argento  1*  altra , che  ha  1*  impero  perso, 
La  Grecia  appresso  con  mcn  ricchi  giri 
Porta  cerchialo  il  crin  di  rame  terso. 

L’ ultima , che  di  ferro  orna  la  chioma 
E la  guerriera  e bellicosa  Roma. 

Ma  ciò  die  vai , se  il  tutto  è un  sogno 
Stolto  colui , che  in  vanità  si  fida,  [breve  ? 
Dritto  è ben,  che  d’ un  ben  che  perir  deve, 
L’ un  filosofo  pianga , e 1*  altro  rida. 

Sola  Virtù  del  Tempo  avaro,  c lieve 
Può  l'ingorda  sprezzar  rabbia  omicida. 
Tutto  il  resto  il  crudel , mentre  che  fugge, 
E rapace,  c vorace,  Invola,  e strugge. 

Guarda  sull’  uscio  pur  della  caverna , 

E vedrai  due  gran  donne  assise  quivi , 

E quinci  c quindi  dalla  foce  interna 
Di  qualità  contraria  uscir  duo  rivi. 

Siede  1’  una  da  destra , e luce  eterna 
Le  fregia  11  volto  di  bei  raggi  vivi. 
Ridente  in  vista , e di  un  aspetto  santo, 

I n man  lo  scettro,  ed  ha  stellato  il  manto. 

È la  Felicità,  de’  cui  vestigi 
Cerca  ciascun,  nè  sa  trovar  la  traccia. 
Ma  da  larve  deluso,  e da  prestigi 
Di  quella  in  vece,  la  Miseria  abbraccia. 
Stanno  molte  donzelle  a’  suoi  servigi 
D' occhio  giocondo , e di  piacevo!  faccia , 
Vita  , abbondanza , e ben  contente  c liete 
Festa , gioia , allegria , pace  e quiete. 

Lungo  il  suo  piè  con  limpld’  onda  e viva 
Mormorando  sen  va  soavemente 

II  destro  fiumlccl,  da  cui  deriva  , 

Di  letizia  immortai  vena  corrente. 


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56  POEMI 

Ella  un  lambicco  in  man  sovra  la  riva 
Colmo  dell’  acqua  licn  di  quel  torrente, 

E (come  vedi  ben)  fuor  della  boccia 
In  terra  le  distilla  a goccia  a goccia. 

A poco  a poco  ingiù  versa  il  diletto, 
Perchè  altri  non  può  farne  intero  acquisto. 
Scarso  è 1*  uman  conforto , ed  imperfetto, 
E qualche  parte  in  sè  sempre  ha  di  tristo. 
Quel  ben,  che  qui  nel  ciclo  è puro  e sellici- 
Piove  laggiù  contaminato  e misto,  [lo , 
Perocché  pria  clic  raggia , ci  si  confonde 
Con  quell’  altro  rusccl,  che  amare  ha 
P onde. 

L’altro  rusccl , clic  mcn  purgato  e chia- 
Passa  da  manca , è tutto  di  veleno , [ro 
Vieppiù  clic  fiel,  vieppiù  che  assenzio 
amaro , 

E sol  pianti , e sciagure  accoglie  in  seno. 
Vedi  colei , che  il  vaso,  onde  volaro 
Le  compagne  d’Aslrea,  tutto  n’ha  pieno, 
E con  prodiga  man  sovra  i mortali 
Sparge  quanti  mai  fur  malori  e mali. 

Pandora  è quella  ; il  bossolo  di  Giove 
Folle  audacia  ad  aprir  le  persuase. 

Fuggì  lo  sluol  delle  Virtudi  altrove , 

Le  Disgrazie  restaro  in  fondo  al  vase. 

Sol  la  Speranza  in  cima  all'  orlo , dove 
Sempre  accompagna  i miseri , rimase; 
Ed  è quella  colà  vestita  a verde,  [de. 
Che  in  ciel  non  entra , e nell’  entrarsi  per- 
Or  vedi  come  fuor  dell’  ampia  bocca 
Dell*  urna  rea,  che  ogni  difetto  asconde, 
In  larga  vena  scaturisce  e fiocca 
Il  sozzo  umor  di  quelle  pcrfld'  onde. 
Dell’  altro  fiume , onde  piacer  trabocca  , 
Questo  in  copia  maggior  Tacque  diffonde. 
Perchè  in  quel  nido  di  tormenti  e guai 
Sempre  V amaro  è più  che  il  dolce  assai. 

Vedi  Morie,  Penuria,  e Guerra,  e Peste, 
Vecchiezza,  e Povertà  con  bassa  fronte, 
Pena,  Angoscia,  Fatica  adii  Ite  e meste 
Figlie  appo  lei  d’ A verno , e d’ Acheronte. 
Ve’  T empia  Ingratitudine  tra  queste , 
Prima  d’ ogni  altro  mal  radice  e fonte. 

E tutte  uscite  son  del  vaso  immondo 
Per  infestar,  per  infettare  il  mondo. 

Non  ti  maravigliar , che  affanni  e doglie 
In  questo  primo  elei  faccian  dimora, 
Perchè  la  Diva , onde  il  suo  moto  ei  toglie , 
E di  ogni  morbo,  e di  ogni  mal  signora. 
In  lei  dominio,  e potestà  s’accoglie 
E sovra  1 corpi , e sovra  T alme  ancora. 

Ma  se  di  ogni  bruttura  iniqua  e fella 


EROICI. 

Vuoi  la  schiuma  veder,  volgiti  a quella. 

Sì  disse,  e gli  mostrò  mostro  difforme 
Con  orecchie  di  Mida , e inan  di  Cacco. 

Ai  duol  volti  parca  Giano  biforme. 

Alla  cresta  Priapo  , al  ventre  Bacco. 

La  gola  al  lupo  avea  forma  conforme , 
Artigli  avea  d’arpia,  zanne  di  ciacco, 
Era  iena  alla  voce , e volpe  ai  tratti , 
Scorpione  alla  coda , e simia  agli  atti. 

Chiese  alla  guida  Adon , di  che  natura 
Fusse  bestia  sì  strana , e di  che  sorte; 

Ed  inle.se  da  lui , che  era  figura 
Vera , ed  Idea  della  moderna  Corte. 
Portento  orrendo  dell’  età  futura, 

Flagri  del  mondo, assai  peggior  che  morte, 
Dell’  Erinni  infernali  aborto  espresso , 
Vomito  dell’  inferno , inferno  islesso. 

Ma  di  questa  (dicea)  meglio  è tacerne, 
Poiché  ogni  pronto  sili  vi  fora  zoppo. 

Ben  mille  lingue,  e mille  penne  eterne 
In  mia  vece  di  lei  parlerai!  troppo. 

Mira  in  quel  tribunal , dove  si  sceme 
Di  gente  intorno  adulatrice  un  groppo , 
Donna  con  torve  luci , e lunghe  orecchie, 
Che  da’  fianchi  si  tien  due  brutte  vecchie. 

L’Autorità  tirannica  dipigne 
Quella  superba  e barbara  sembianza , 

E Tassistenti  sue  sciocche,  e maligne 
Son  la  Sospizìonc,  e l’Ignoranza,  [gne. 
Labbra  ha  verdi  e spumanti,  e man  sangui* 
Mostra  rigor,  furor,  fasto,  arroganza  ; 
Porge  la  destra  ad  una  donna  ignuda. 

Di  cui  non  è la  più  perversa  e cruda. 

Questa  tutta  di  sdegno  accesa  e tinta , 
E di  dispetto , e di  fastidio  è piena  ; 

E da  turba  crudel  tirata,  e spinta 
Giovinetta  gentil  dietro  si  mena, 
f.hcT  una  cT  altra  mano  al  tergo  avvinta 
Porta  di  dura  e rigida  catena  t 
Smarrita  il  viso,  c pallidetta  alquanto. 
Ed  ha  bianca  la  gonna , e bianco  il  manto. 

La  ('.alnnnìa  è colei,  che  al  trono  angusto 
Per  mania  traggo,  c par  d’astio  si  roda. 
Bella  la  faccia  ha  sì , ma  dietro  al  busto 
Le  si  attorce  di  serpe  orrida  coda. 

L’  altra  condotta  nel  giudizio  ingiusto, 

A cui  le  braccia  indegno  ferro  annoda, 

E T incorrotta  c candida  Innocenza, 
Sovraffatta  talor  dall’  Insolenza. 

Il  Livor  T è dincontra , il  quale  approva 
La  falsa  accusa  , e la  risguarda  in  torlo. 
Aconito  infornai  nel  petto  cova, 

E di  squallido  bosso  ha  il  liso  smorto, 


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ADONE. 


Slmile  ad  imm,  che  afflitto  ancor  si  trova 
Da  lungo  morbo,  onde  guarì  di  corto. 
Coppia  d'ancelle  alla  Calunnia  applaude, 
(Testimoni  malvagi)  Insidia,  e Fraudo. 

Segue  costoro  addolorata , e piange 
Di  tal  perfidia  il  torto , e la  menzogna 
l.a  Penitenza , che  si  affligge  ed  auge 
Presso  ia  Verità , che  la  rampogna , 

E si  squarcia  la  vesta,  c il  crìn  si  frange , 

E di  duol  si  dispera , o di  vergogna , 

E col  fiagcl  di  una  spinosa  verga 
Si  batte  il  corpo,  e macera  le  terga. 

Oirnè,  non  sliam  più  qui,  iasciam  per 
Di  questi  mostri  abominandi  il  nido.  [Dio 
Tacqucsi , c lungo  un  tortuoso  rio 
Quindi  svioilo  il  saggio  duce  fido. 

D' un'  oscura  isolctta  Adon  scoprio 
Non  molto  lungo  , ancor’ incerto , il  lido. 
Caria  avea  d' ogn’  Intorno  opaca  e bruna 
Qual  fosca  notte  in  nubilosa  luna. 

Giace  in  mezzo  d' un  fiume,  il  qual  si 
Dilaga  1'  acque  sue  placide  c chete , [roco 
E va  sì  lento,  c mormora  sì  poco, 

Che  provoca  in  altrui  sonno,  e quiete. 
Ecco  (Mercurio  allor  soggiunse)  il  loco, 
Dove  discorre  il  sonnacchioso  Lete, 

Da  cui  la  verga  mia  forte , c possente 
Prende  virtù  d’ addormentar  la  gente. 

C isola  d' ogni  parte  abbraccia  e chiude 
( Come  scorger  ben  puoi  ) l’ onda  letale  ; 
Sembra  oziosa  c livida  palude , 

Onde  caligin  densa  in  alto  sale. 

Vedi  quante  in  quell' acque  anime  ignude 
Vanno  a lavarsi , ed  a tufian  i l' ale 
Pria  che  le  copra  il  corrotlibil  velo, 

Per  obliar  ciò  che  han  veduto  in  ciclo. 

Vedine  molte,  che  a bagnar  le  piume 
Vengon  pur  nelle  pigre  onde  infelici, 

E perdon  pur  dentro  il  medesmo  fiume 
I.a  conoscenza  de’  cortesi  amici. 

Soli  gl'  ingrati  color  che  han  per  costume 
Dimenticar  favori , c beneficj , 

E scriver  nelle  foglie , e dare  ai  venti 
Gli  obblighi , le  promesse , c i giuramenti. 

Altre  ne  vedi  ancor  quassù  dal  mondo 
Salire  ad  or  ad  or  macchiate  e brutte, 
I.e  quai  non  pur  di  quel  licore  immondo 
Corrono  a ber,  ma  vi  s’ immergon  tutte. 
Genti  son  quelle,  che  da  basso  fondo 
.So n per  fortuna  ad  alto  grado  addutte. 
Dove  ciascun  divicn  si  smemorato. 

Che  più  non  gli  sovvien  del  primo  stato. 

0 dei  terreni  onor  perfida  usanza , 


S7 

Con  cui  l’ oblio  di  subito  si  beve , 

Onde  con  repentina  empia  mutanza 
Vlcnsi  l’ uomo  a scordar  di  quanto  deve  ; 

E non  solo  d' altrui  la  rimembranza  ’ 

In  lui  s' offusca , e si  smarrisce  in  breve , 

Ma  sì  del  tutto  ogni  memoria  ha  spenta, 
Che  di  sé  stesso  pur  non  si  rammenta. 

Il  paese  dei  Sogni  è questo , a cui 
Pervenuti  noi  siamo  a mano  a mano. 

Vedi  che  appunto  nei  sembianti  sul 
Simile  al  sogno , ha  non  so  che  del  vano , 
Che  apparisce,  e sparisce  agli  occhi  alu  ui, 

E visibile  appena  è di  lontano. 

Qui  da  Giove  scacciato  II  Sonno  nero 
Contumace  del  elei,  fondò  l’impero. 

Ma  per  poter  varcar  l'onda  soave 
Sarò  buon,  clic  alcun  legno  orsi  prepari. 
Ed  ecco  allora  in  pargoletta  nave 
Strania  ciurma  apparir  di  marinari , 
Datone,  e Tarassio  il  remo  grave, 

E Plutocle,  c Morfeo  movean  del  pari. 

Era  11  vecchio  Fantasio  il  galeotto , 

Al  niestler  del  limone  esperto  c dotto. 

Presero  un  porto , ove  d'  elettro  puro , 
All'  angel  vigilante  un  tempio  e sacro. 
Quindi  scolpito  sta  l’ Èrebo  oscuro , 

Quinci  d' Ecatc  beila  il  simulacro. 

In  sull’ entrar,  pria  che  si  passi  al  muro 
V ha  di  duo  fonti  un  gemino  lavacro  ; 
Che  fan  cadendo  un  mormorio  secret  •> , 
Pannicelli.!  è detto  l’ un,  l'altro Negrcto. 

Fa  cerchio  alia  città  selva  frondosa  , 
Che  dà  grato  ristoro  al  corpo  lasso 
La  mandragora  stupida,  c gravosa  , 

E il  papavero  v ' ha  col  capo  basso. 

L’orso  tra  questi  languido  riposa, 

E riposanvi  all’  ombra  il  ghiro , e il  lasso. 
Nò  d’abitar  quei  rami  osano  augelli, 

Fuor  clic  nottole , c gufi , e pipistrelli , 
D’un  lri  a più  color  case,  c contrade 
Statisi  tra  lumi  tenebrosi  occulte. 

Quattro  porte  maestre  ha  la  cittade. 

Due  di  terra,  e di  ferro  incise  e sculte. 
Le  quai  rispondon  per  diritte  strade 
Della  Pigrizia  alle  campagne  inculle  ; 

E per  queste  sovente  o falsi , o veri 
Escono  i Sogni  spaventosi  c fieri. 

Dell’  altre  due  ciascuna  il  fiume  guarda  ; 
L’ una  ò d' avorio , e si  disserra  allora , 
Che  è nel  suo  centro  la  slagion  più  tarda , 
L'altra  di  corno,  e s’apre  in  sull  aurora 

Perquellaaschernirl’uom  turba  bugiarda 

D’ Ingannatrici  ìuiaglni  vien  fora. 


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M POEMI 

Da  questa  soglion  trar  Tallirne  vaghe 
Visioni  dei  ver  spesso  presaghe. 

La  bella  coppia  entrò  per  l'uscio  ebumo, 
E fur  quell’  ombre  da’  auoì  raggi  rotte. 

Il  suo  palagio  ombroso , e taciturno 
Nella  piazza  maggior  lenea  la  Notte. 
Dall'altra  parte  di  vapor  notturno 
Velato , e chiuso  tra  profonde  grotte 
L’ albergo  ancor  del  Sonno  si  vedea , 

Che  sovra  un  letto  d’ ebano  giacca. 

O di  quante  fantastiche  bugie 
Mostruose  apparenze  intorno  vanno  ! 
Sogni  schivi  del  Sol , nemici  al  die , 
Fabri  d’iliuslon,  padri  d'inganno. 
Minolauri , centauri,  idre,  ed  arpie, 

E gerirmi , c briarei  vi  stanno. 

Chi  sirena,  chi  sfinge  al  corpo  sembra. 
Chi  di  ciclopo , e chi  di  fauno  ha  membra. 

Chi  par  bertucci,  ed  è qual  bue  cornuto, 
Chi  tutto  è capo,  e il  capo  poi  seni'  occhi. 
Altri  han  com’  hanno  i mergl  11  becco  acu- 
Altri  la  barba  a guisa  degli  alocclii.  [to, 
Altri  con  faccia  umana  è si  orecchiuto , 
Che  convlen , che  ogni  orecchia  il  tcrrcn 
tocchi. 

Altri  ha  piè  d’oca,  e di  falcone  artiglio. 
L’occhio  nel  ventre,  e nel  bellico  il  ciglio. 

Vedresti  effigie  angelica , e sembiante , 
Poi  si  termina  il  piede  in  piedistallo. 
Visi  di  can  con  trombe  d’ elefante , 

Colli  di  gru  con  teste  di  cavallo. 

Busti  di  nano,  e braccia  di  gigante. 

Ali  di  parpaglion , creste  di  gallo  , 

Con  code  di  pavon  grifi , e pegasi , 

Fusi  per  gambe , e pifferi  per  nasi. 

Alcun  di  lor,  quasi  spalmalo  legno, 
Vola  a vela  per  l' aure , e scorre  a nuoto , 
Ma  di  due  rote  ha  sotto  un  altro  ingegno , 
Onde  corre  qual  carro , c varia  moto. 
Con  un  mantice  alcun  di  vento  pregno 
Gonfia , e sgonfia  soffiando  il  corpo  voto , 
E tanti  fiali  accumula  nell'epa, 

Che  come  rospo  alibi  ne  scoppia  e crepa. 

E questi,  ed  altri  ancor  più  contraffatti 
Ve  n'  ha,  piccioli  e grandi , interi  e mozzi , 
Quasi  vive  grottesche , o spirti  astratti , 
Scherzi  del  caso , e del  pensiero  abbozzi. 
Parte  alle  spoglie , alle  fattezze , agli  atti 
Son  lieti  e vaghi,  e parte  immondi  e sozzi. 
Molli  al  gesto,  al  vestir  vili  e plebei , 
Molli  di  regi  in  abito, c di  Dei. 

Tra  gii  altri  Adon  vi  riconobbe  quello , 
Che  in  Cipro  gii,  quand’ei  tra'  fior  dormiva 


EROICI. 

Rappresentagli  il  simulacro  bello 
Della  sua  bella , ed  amorosa  Diva. 

E gii  quel  pigro  e lusingliier  drappello 
Dietro  alla  Notte,  che  volando  usciva, 
Gli  s'accostava  in  mille  forme  intorno 
Per  gravargli  le  ciglia,  o torgli  il  giorno. 

Ma  il  suo  dottor  si  se  n'accorse,  e presto 
Gli  fc’  le  luci  alzar  stupide , e basse. 
Vener  sorrise,  ed  ci  poscia  che  desto 
L’ebbe  non  volse  più  che  ivi  indugiasse. 
Ma  mostrandogli  a ditoor quello,  or  que- 
AIT altra  riva  un'altra  volta  il  trasse,  [sto. 
Dimandava!»  Adon  di  molte  cose. 

Ed  a molte  dimande  egli  rispose. 

E giunta  a mezzo  di  suo  corso  ornai 
L'umida  Notte  ali’Ocean  scendea, 

E con  tremanti , e pallidetti  rai 
Più  d' un  lume  dal  ciel  seco  cadea. 

Cinto  di  folte  stelle , c più  che  mai 
Chiaro  il  pianeta  inargentato  ardea , 
Vagheggiando  con  occhio  intento  e vago 
In  fresca  valle  addormentato  il  Vago. 

Deb  perdonimi  il  ver,  se  altrui  par  forse. 
Ch'io  qui  del  ciel  la  dignltate  offenda, 
Poiché  laddove  Tempo  unqua  non  corse , 
L' Ore  non  splegan  mal  notturna  benda. 
Facciol,  perchè  cosi  quel  che  non  scorse 
Il  senso  mai,  l'intendimento  intenda. 
Non  sapendo  trovar  fuor  di  Natura 
Agli  spazi  celesti  altra  misura. 

In  questo  mezzo  il  condottier  superno 
Le  sei  vaghe  corsiere  al  carro  aggiunse. 
Fece  entrarvi  gli  amanti , ed  al  governo 
Assiso  poi,  ver  l'altro  elei  le  punse. 

Ed  ai  bei  tetto  del  suo  albergo  eterno 
In  poche  ore  rotando,  appresso  giunse. 
Intanto  il  parlator  facondo  e saggio 
La  noia  alleggeria  del  gran  viaggio. 

Eccoci  (gli  diceva),  eccoci  a vista 
Della  mia  stella , che  più  su  si  gira , 
Candida  no , ma  variata  e mista  [ tira , 
Di  un  tal  livor,  che  al  piombo  alquanto 
Picciola  si , che  quasi  appena  è vista , 

E talor  sembra  estinta  a chi  la  mira, 

E nelle  notti  più  serene  e chiare 
Dell’  anno  sol  per  pochi  mesi  appare. 

Questo  gli  awicn  non  sol  perchè  minore 
Dell' altre  erranti,  e delie  fisse  è molto, 
Ma  però  clic  da  luce  assai  maggiore 
Gli  è spesso  il  lume  inecclissato  e tolto. 
Sotto  i raggi  del  Sole  il  suo  splendore 
Nasconde  sì , che  vi  riman  sepolto , 

E tra  que’  lampi , onde  si  copre  e vela , 


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ADONE.  59 


Quasi  iu  lucida  nebbia , altrui  si  cela. 

Ha  dall'  essere  al  Sol  tanto  vicina 
Maggior  fora  e vigor  prende  sovente, 
Come  ancor  questa  del  tuo  cor  retna 
Per  l' istessa  cagione  è più  possente. 
Seco,  e col  Sole  in  compagnia  cammina, 
Seco  la  rota  sua  compie  egualmente. 
Benché  tra  noi  sia  gran  disuguaglianza, 
Chè  assai  di  lume , e ili  beltà  mi  avanza. 

La  qualità  di  sua  natura  è bene 
Mutabile,  volubile,  inquieta. 

Si  varia  ognor,  nè  mai  fermezza  tiene. 
Or  infausta,  or  seconda,  or  trista,  or  lieta , 
Ma  questa  tanta  instabiltà  le  viene 
Dalla  congiunzion  d' altro  pianeta , 
Perch’io  son  tal,  che  negli  effetti  miei 
Buon  co’  buoni  mi  mostro , e reo  co’  rei. 

Nascon  per  la  virtù  di  questa  luce 
Luminosi  Intelletti,  ingegni  acuti. 

Senno  altrui  dona , ed  uomini  produce 
Cauti  agli  affari , e nell’  industrie  astuti. 
Vago  desio  dì  nuove  cose  Induce, 

E d'incognite  al  mondo  arti,  e virtutì. 
Per  lei  sol  chiaro  e celebre  divenne 
Delle  lingue  lo  studio,  e delle  penne. 

E quando  questa  tua  dolce  lumiera 
Vi  applica  il  raggio  suo  lieto  benigno , 
Quei  fortunato,  al  cui  natale  impera. 
Riesce  in  terra  il  più  famoso  cigno. 

Così  lo  Dio  della  seconda  sfera 
Parla  al  vago  figliuol  dei  re  Ciprigno, 

E tuttavia,  mentre  cosi  gli  conta 
Le  proprie  doti , il  patrio  del  sormonta. 

Avean  l’aureo  timon  per  la  via  torta , 
Drizzato  già  le  mattutine  ancelle. 

Già  su  1 confìn  della  dorata  porta 
Giunto  era  il  Sole , e fca  sparir  le  stelle  ; 
La  cui  leggiadra  messaggera , e scorta 
Sgombrando  intanto  queste  nubi,  e quelle, 
Per  le  piagge  spargea  chiare,  ed  ombrose 
Della  terra,  e del  del  rugiade,  c rose. 

Quando  vi  giunse,  e con  la  coppia  scese 
Sovra  le  soglie  del  lucente  chiostro , 
Come  fu  dentro  Adon,  vide  un  paese  [slro; 
Con  più  bel  giorno,  epiùbeldel,eheilno- 
Poi  dietro  alle  sue  scorte  il  cammin  prese 
Per  un  ampio  senticr,  che  gli  fu  mostro  ; 
E in  un  gran  pian  si  ritrovalo  adagio , 
Nel  cui  mezzo  sorgea  nobil  palagio. 

Palagio , che  al  modello  .alla  figura 
Quasi  d’anfiteatro  avea  sembianza. 

Ogni  edificio , ogni  artifizio  oscura , 
Ogni  lavoro , ogni  ricchezza  avanza. 


Vista  nel  primo  giro  hai  di  Natura 
(Disse  ClUenioJ  la  secreta  stanza. 

Or  ecco,  o bell'  Adon , sei  giunto  in  parte 
Dove  l’ albergo  ancor  vedrai  dell’  Arte. 

Dell'  Arte  emula  sua  la  casa  £ questa , 
Eccola  là , se  di  vederla  brami. 

Di  gemme  in  fil  tirate  è la  sua  vesta. 
Trapunta  di  ricchissimi  ricami. 

Mira  di  che  bei  fregj  orna  la  testa. 

Come  l’ intreccia  de'  più  verdi  rami. 

Di  strumenti , c di  macchine  ancor  vedi 
Qual  c quanto  si  tien  cumulo  a’  piedi. 

Mira  penne , e pennelli , e mira  quanti 
Vi  Ita  scarpelli,  e martelli,  asce,  ed  incudl, 
Bulini , e lime , circini , e quadranti , 
Subbj,  e spole,  aghi,  e fusi,  e spade,  e scudi 
Cosi  diceagll , e procedendo  avanti , 

La  gran  maestra  tralasciò  suoi  studj , 

E riverente , e con  cortese  inchino, 
Umitfossi  al  messaggier  divino. 

Dal  divin  messaggiero  Adon  condutto 
La  porta  entrò  della  celeste  mole. 

DI  diamante  ogni  muro  avea  costrutto , 
Che  lampeggiando  abbarbagliava  il  Sole  ; 
E P Immenso  cortile  era  per  tutto 
Intorniato  di  diverse  scolo, 

E molte  donne  in  cattedra  sedenti 
Vedeansi  quivi  ammaestrar  le  genti. 

Queste  d'etate,  o di  bellezza  eguali 
(Mercurio  ripigliò)  vergini  elette 
Sono  ancelle  dell’ arte,  c liberali, 
Perocché  l' uom  fan  Ubero,  son  dette. 
Fonti  inesausti , oracoli  immortali 
Del  saper  vero , e non  son  più  che  sette 
Fidate  guide,  illuslralrìci  sante 
Del  senso  cieco , e dell’  ingegno  errante. 

Colei,  che  è prima,  e tiene  in  man  le 
Della  sublime,  c spaziosa  porta,  [chiavi 
Di  (ulte  le  altre  facoltà  più  gravi 
Agli  anni  rozzi  è fondamento , e scorta. 
Quella , che  con  ragion  belle  c soavi 
Loda,  biasma,  difende,  accusa,  esorta, 
È la  diletta  mia , che  dalla  bocca 
Mentre  che  versa  il  mel , l’ aculeo  scocca. 

Ve’  l'altra  poi  con  la  faretra  a lato, 
Sottile  arciera  a saettare  intenta, 

Che  bene  acuti  ognor  dall*  arco  aurato 
Di  strali  in  vece  i sillogismi  avventa. 
Passa  ogni  petto  d’aspri  dubbj  armato. 
Nega , prova , conferma , ccl  argomenta , 
Scioglie,  dichiara,  e dalle  cose  vere 
Distingue  il  falso,  alBn  conchiude c fere. 

Vedi  quell’  altre  ancor  quattro  donzelle 


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CO  POEMI 

Dì  sembiante , e dì  volto  alquanto  oscure. 
Tutte  (l’un  parto  sol  naequer  gemelle, 

E traltan  pesi,  c numeri,  c misure. 
L'una  contemplatrice  è delle  stelle , 

E suol  vaticinar  cose  future. 

Vedi  clic  ha  In  man  la  sfera,  c dei  pianeti 
Si  diletta  di  espor  gli  alti  secreti. 

L’ altra , che  con  la  pertica  disegna 
E triangoli , c tondi , c cubi , e quadri , 
Con  linee, e punti  il  ver  mostrando,  insegna 
Righe, c piombi  adoprar,  compassi,  c squa- 
li terza  di  sua  man  figura  e segna  [dri. 
Tariffe  egregie,  e calcoli  leggiadri. 
Sottrae  la  somma,  la  radice  trova, 
Moltiplica  il  partito,  e fa  la  prova. 

Instruiscc  a compor  l’ ultima  suora 
E fughe,  e pause,  e sincope,  c battute, 
E temprar  note  all*  armonia  sonora 
Or  lente  c gravi , or  rapide  ed  acute. 
Altre  vederne  non  mcn  sagge  ancora 
Oltre  queste  potrai  fin  qui  vedute , 
Benché  le  sette,  ch’io  l’ hoconteemoslre, 
Sien  le  prime  a purgar  le  menti  vostre. 

Ecco  altre  due  sorelle,  c del  Disegno, 
E della  Simmetrìa  pregiate  figlie. 

L’  una  con  bel  colori  in  tela , o in  legno 
Sa  di  nulla  formar  gran  meraviglie. 

L’ altra,  che  nell’  industria,  e nell’  ingegno 
Non  ha  (trattane  lei)  chi  la  somiglie. 

Sa  dar  col  ferro  al  sasso  anima  vera. 

Al  metallo,  allo  stucco,  ed  alla  cera. 

Eccoti  ancor  col  mappamondo  avaute, 
E con  la  carta  un’  altra  giovinetta. 

Che  scoprendo  I paesi , c quali  c quante 
Regioni  ha  la  terra , altrui  diletta. 
Sentenze  poi  religiose  c sante 
Damigella  celeste  altrove  detta. 

Di  Dio  discorre , c dell’  eterna  vita 
Al  discepoli  suoi  la  strada  addita. 

Mira  colà  quella  matrona  augusta. 

Che  per  toga  c per  laurea  è veneranda. 
£ la  Legge  cìvil,  che  santa,  e giusta 
Sol  cose  oneste  c lecite  comanda. 

Quella , che  porge  d’ altrui  febbre  adusta 
Amara,  c salutifera  bevanda, 

£ di  ogni  morbo  uman  medicatrice. 

Che  sua  virtù  non  chiude  erba , o radice. 

Guarda  or  colei , che  spirili  divini 
Spira,  sebben  fattezze  alquanto  ha  brutte, 
E par,  che  ognun  l’ onori,  ognun  l’ inchini, 
Qual  madre  univcrsal  dell’  altre  tutte. 
Quella  è Sofia,  clic  rabbuffata  i crini, 
Magra , e con  guance  pallide  c distrutte, 


EROICI. 

Con  scalzi  piedi , c con  squarciati  panni 
Pur  di  dotti  scolari  empie  gli  scanni. 

Azione , passione , atto , c potenza , 
Qualità,  quantità  mostra  in  ogni  ente. 
Genere , c specie , proprio , c differenza , 
Relazione , sostanza , ed  accidente , 

Con  qual  legge  natura,  c previdenza 
Crea  le  cose , c corrompe  alternamente , 
La  materia , la  forma , il  tempo , il  moto 
Dichiara,  c il  sito,c  l’infinito,  e il  voto. 

Tion  due  donne  da’  fianchi.  Una  che  sic- 
Sovra  quel  sasso  ben  quadrato  c sodo , [de 
£ la  Dottrina , che  a chiunque  il  chiede 
Di  ogni  difficoltà  discioglie  il  nodo. 

L’ altra  clic  con  la  libra  in  man  si  vede 
Pesar  le  cose,  ed  ha  II  martello,  c il  chiodo, 
£ la  Ragion , clic  con  accorto  ingegno 
A nessun  crede,  c vuol  da  tutti  il  pegno. 

Ma  quell’  altra  colà,  che  ha  si  leggiere 
Le  penne,  è Dea  del  mondo,  anzi  tiranna. 
Di  fallace  cristallo  ha  due  visiere , 

Che  l’ occhio  illude , e 11  buon  giudicio  ap- 
E le  fa  guatar  torto,  c travedere , [ panna 
Sicch’altrui  spesso,  e sè  medesma  inganna. 
Di  un  tal  cangiacolor  la  spoglia  ha  mista , 
Che  l’ apparenze  ognor  mula  alla  vista. 

Nè  di  tanti  color  gemmanti  c belle 
Suol  l’augcl  di  Glunon  rotar  le  piume, 
Nè  di  tanti  arricchir  l’ ali  novelle 
Quel  del  Sole  in  Arabia  ha  per  costume. 
Nè  di  tanti  fiorir  veggionsì  quelle 
Dell’alato  figliuol  del  tuo  bel  Nume, 

Di  quante  eli’ ha  le  sue  varie  e diverse 
Verdi,  bianche,  vermiglie,  c rance,  c perse. 

Opinion  s’appella,  e molte  ha  seco 
Ministre  infami,  c meretrici  infide. 
Larve , che  uscite  del  tartareo  speco 
Ycngon  dell’ alme  incaute  a farsi  guide. 
Ed  è lor  capo  un  giovinetto  cieco, 
Ch’Errore  ha  nome,  c lusingando  ride, 
D’un  licore  incantato  inebbria  i sensi, 

E lui  seguendo  a precipizio  viensi. 

Mira  intorno  astrolabi , ed  almanacchi , 
Trappole,  lime  sorde,  e grimaldelli. 
Gabbie,  bolge,  giornee,  bossoli,  e sacelli , 
Labirinti , archipendoli , c livelli , 

Dadi,  carte,  pallon,  tavole,  e scacchi, 

E sonagli,  c carrucole,  c succhielli, 
Naspi,  arcolai,  vctticchi,  c oriuoli, 
Lambicchi,  bocce,  mjntlci,  e crociuoli. 

Mira  pieni  di  vento  otri , e vessiche, 

E di  gonfio  sapon  turgide  palle. 

Torri  di  fumo,  pampini  d’ ortiche, 


ADONE.  CI 


Fiori  di  zucche,  e piume  Tordi , e gialle, 
Aragni,  scarabei,  grilli,  formiche. 
Vespe,  zanzare,  lucciole,  e farfalle, 
Topi,  galli,  bigatti,  e cento  tali 
Stravaganze  d’ordigni,  c d’animali. 

Tutte  queste , che  vedi , c d’ altri  estrani 
Fantasmi  ancor  prodigiose  schiere , 

Sono  i capricci  degl’  ingegni  umani , 
Fantasie,  frenesie  pazze , e chimere. 

V ha  molini , e palei  mobili  c vani 
Girelle , argani , e rote  in  più  maniere. 
Altri  forma  han  di  pesci , altri  d’ uccelli , 
Vari , siccome  son  vari  i cervelli. 

Or  mira  all’ombra  della  sacra  pianta 
Fregiala  il  crin  dell’ onorate  foglie 
La  Poesia,  che  mentre  scrive,  e canta, 
Il  fiore  di  ogni  scienza  insieme  accoglie. 
La  Favola  è con  lei , clic  orna,  ed  ammanta 
Le  vaghe  membra  di  pompose  spoglie. 
L’accompagna  l’Istoria  ignuda  donna. 
Senza  vel,  senza  fregio,  e senza  gonna. 

Vedi  la  Gloria , che  qual  Sol  risplcnde, 
Vedi  l'Applauso  poi,  vedi  la  Lode, 

Vedi  1’  Gnor,  che  a coronaria  intende 
Di  luce  eterna , onde  trionfa  e gode. 

Ma  vedi  ancor  coppia  di  furie  orrende, 
Clic  di  rabbia  per  lei  tutta  si  rode. 

La  persegue  rinvidia  empia , e crudele, 
Che  ha  le  vipere  in  mano,  in  bocca  il  fiele. 

La  maligna  Censura ognor  l’ è dietro, 
E quant’ella  compone  emenda,  e tassa. 
(k>l  vaglio  ogni  suo  accento , ogni  sitome- 
Crivella , e poi  perla  trafila  il  passa,  [tro 
Posticci  bagli  occhi  in  fronte,  c son  di 
Orse  gli  affigge,  or  gli  ripone  e lassa  [vetro, 
Nota  con  questi  gli  altrui  lievi  errori , 

Nò  scorge  intanto  i suoi  molto  maggiori. 

Ciò  detto  , dì  diaspri , c di  alabastri 
Gli  mostra  un  arsemi  capace  e grande, 
Che  sovr’  alte  colonne , e gran  pilastri 
Le  sue  volte  lucenti  appoggia  c spande, 
Turba  v’  ha  dentro  di  diversi  mastri , 
Ingegner  d’opre  illustri  e memorande. 
Qui  di  lavori  ancor  non  mal  più  visti 
Soggiornan  (dice)  i più  famosi  artisti. 

Di  quanto  mai  fu  ritrovato  in  terra , 

0 si  ritroverà  degno  di  stima , 

0 sia  cosa  da  pace , o sia  da  guerra , 

Qui  ne  fu  l’esemplar  gran  tempo  prima. 
Qui  pria  per  lunghi  secoli  si  serra 
Ignoto  ad  ogni  gente,  ad  ogni  clima, 
Poi  si  pubblica  al  mondo  c si  produce 
All’  umana  notizia , ed  alla  luce. 


Vedi  Prometeo  figlio  di  Iapeto, 

Che  di  spirto  celeste  il  fango  informa. 

E vedi  Cadmo  autor  dell’  alfabeto. 

Da  cui  prendon  le  lingue  ordine  c norma. 
Vedi  il  Siracusan , che  il  gran  secreto 
Trova,  ond’un  picciol  cielo  ha  moto,  c 
E ilTarentin,  che  la  colomba  imÌta;[forma. 
E il  grand’  Alberto , che  al  metal  dà  vita. 

Ecco  Tubai  primo  Inventor  de’  suoni , 

11  Tebano  Anfione , e il  Trace  Orfeo. 
F.cco  con  altre  corde , ed  altri  tuoni 
Lino,  lopa,  Tamira , c Timoteo. 

Ecco  con  nove  armoniche  ragioni 
Il  mirahil  Terpandro , c il  buon  Tirtco , 
Fabri  di  nove  lire,  c nove  cetre, 
Animatori  d’arbori,  c di  pietre. 

Mira  Tcsiblo,  e mira  Anassimcne 
Su  la  mostra  segnar  1*  ore  correnti. 

Mira  IMrode  poi,  che  dalle  vene 
Trae  della  selce  le  scintille  ardenti. 
Anacarsi  ò colui,  mira  che  tiene 
In  mano  il  folle , e dà  misura  ai  venti. 
Mira  alquanto  più  in  là  metter  in  uso 
Esculapio  lo  specchio,  c Giostro  il  fuso. 

K Gige  v’  ha , ciie  la  pittura  inventa , 

Ed  havvl  col  pennello  Apollodoro, 

E Corcbo  ò con  lor , che  rappresenta 
Della  plastica  industre  il  bel  lavoro, 

E Dedal , che  agguagliar  non  si  contenta 
Con  sue  penne  nel  volo  e Borea , e Coro , 
Ma  macchinando  va  d’asse,  c di  legni 
Ingegnoso  architetto  alti  disegni. 

Epiinenide , Furialo , Iperbio , e Dosso 
Templi , e palagi  ancor  fondano  a prova , 
E Trasonc  erge  il  muro , c cava  il  fosso 
Danao , che  il  primo  pozzo  in  terra  trova. 
Navi  superbe  edifica  Minosso, 

Tifi  il  timon , con  cui  1*  alTreni , c mova. 
Bellorofonte  ò tra  costor , eh’  io  narro , 
Ed  Eriionio  co’  cavalli , c il  carro. 

Guarda  Aristeo  con  quanto  util  fatica 
Del  mel,  del  latte  alla  cultura  intende. 
Tritolemo  a’  mortai  mostra  la  spica, 
Bige  l’ aratro , che  la  terra  fende. 

Prcto  allo  scudo , Midia  alla  lorica 
Travagliamolo  il  dardo  a lanciar  prende. 
Scile  pon  1*  arco  in  opra,  e la  saetta, 

L’ asta  Tirren , Pantasilca  l’ accetta. 

Havvl  poi  mille  fabricali  e fatti 
Da  Cretensi , da  Siri , c da  Fenici, 

Mossi  da  rote  impetuose , c tratti 
Altri  arnesi  guerrieri , altri  artificj. 

Vedi  arpagoni , c scorpioni , e gatti , 


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C5  POEMI 

Macchine  di  citladl  espugnatele! , 

E da  cozzar  con  torri , e con  pareti 
Catapulte , baliste , ed  arieti. 

Bertoldo  vedi  11,  nato  in  sul  Reno, 
Che  per  strage  del  mondo , e per  rulna 
D' irreparabil  fulmine  terreno 
Fonde,  temprato  airinfernal  fucina. 
Quegli  e Giovanni  ;o  fortunato  appieno  ! 
Che  le  stampe  introduce  in  Argentina  ; 

E ben  gli  dee  Magonza  eterna  gloria, 
Come  eterna  egli  fa  I*  alimi  memoria. 

Cosi  parlando  per  eccelse  scale 
Sovt' aureo  palco  si  trovar  saliti, 

E quindi  cntraro  in  galleria  reale , 

Che  volumi  accoglica  quasi  infiniti. 

Eran  con  bella  serie  in  cento  sale 
Riposti  in  ricchi  armari  c compartiti , 
l egali  in  gemme,  ed  ogni  classe  loro 
Distinguea  la  cornice  in  linee  d' oro. 

Ceda  Atene  famosa  , a cui  già  Serse 
Rapi  gli  archivj  d’ogni  antico  scritto, 
Che  poi  dal  buon  Seleuco  all’  armi  perse  : 
Ritolti , in  Grecia  fer  nuovo  tragitto. 

Nò  da’  suoi  Tolomci  d' opre  diverse 
Cumulato  Museo  celebri  Egitto. 

Nò  di  lai  libri  in  quest’  etatc , e tanti, 
l'rbin  si  pregi , o il  Yatican  si  vanti. 

Molti  n’  eran  vergati  in  molle  cera , 
Molti  in  sottili,  e candide  membrane. 
Parte  in  fronde  di  palma , e parte  n'  era 
Di  piombo  in  lame  ben  polite  c piane. 

In  caldeo  ve  n’  avea  scritta  una  schiera , 
Altri  in  lettre  fenicie , c soriane. 

Altri  in  egizj  simboli,  e figure. 

Altri  In  note  furtive,  e cifre  oscure. 

Questo  ò l’ erario , in  cui  si  fa  conserva 
Segui  Mercurio)  de’  più  scelti  inchiostri 
Di  quanti  mai  scrittor  Febo,  e Minerva 
Sapran  meglio  imitar  tra’  saggi  vostri. 

I nomi , a cui  non  noce  età  proterva , 
Vedi  a caratter  d’  or  scritti  ne'  rostri. 

Qui  stan  le  lor  fatiche , c qui  son  state 
Pria  che  composte  sieno,  e che  sien  nate. 

Quanti  d’ Illustri  e celebrati  autori 
SI  smarriscon  per  caso  empio  c sinistro 
Degni  di  vita,  e nobili  sudori, 

Ed  or  Nettuno , or  n’  ò Yulcan  ministro  1 
Or  qui  di  tutti  quel  ricchi  tesori  ) 

Che  si  perdon  laggiù , si  ticn  registro. 

Sacre  memorie,  ed  Involate  agii  anni. 

Che  traman  morte  agli  onorati  affanni. 

La  libreria  del  dotto  Stagirita  , 

Che  il  liorconlicn  d’ ogni  scrittura  eletta , 


EROICI. 

Di  cui  Teofrasto  in  sull’  uscir  di  vita 
Lascerà  successore , è qui  perfetta. 

D’  Empedocle , Pittagora , ed  Archita 
Vi  ha  le  dottrine , e qualunque  altra  setta. 
Di  Talete , Democrito , e Solone , 
Parmenide , Anassagora , e Zenone. 

Petronio  vi  ha , di  cui  gran  parte  ascose 
Torbido  Lete  in  nebbie  oscure  e cieche. 

Di  Tacito  vi  son  l' ultime  prose, 

Tutte  di  Livio  le  bramate  deche. 

La  Medea  di  Nasone , ed  altre  cose 
De'  Latini  miglior,  non  men  che  greche. 
Cornelio  Gallo  con  Lucrezio  Caro,  [ro. 
Ennio , ed  Accio , e Pacuvio,  e Tucca,  e Va- 
D’ Andronico,  e di  Nevio  I drammi  lieti. 
Di  Cccilio , e Licinio  anco  vi  stanno , 

E di  Publio  Terenzio  I più  faceti 
Sali , clic  alle  salse  acque  In  preda andran- 
E non  pur  d'altri  istorici,  e poeti  [no; 
Le  disperse  reliquie  albergo  v'  hanno. 
Ma  gli  oracoli  ancor  delle  Sibille, 
Scampati  dal  furor  delle  faville. 

Tacque , c volgendo  Adon  l' occhio  in  di- 
vide gran  quantità  di  libri  sciolti,  [sparte 
Clic  avean  malconce  e lacere  le  carte , 
Tutti  sossopra  In  un  gran  mucchio  accolti. 
Glaccan  negletti  al  suol , la  maggior  parte 
Rosi  dal  tarlo , e nella  polve  Involti. 

Or  perchè  (disse)  esposti  a tanto  danno 
Dal  bell’  ordine  questi  esclusi  stanno  ì 
E perchè  senza  onor,  senza  ornamento 
Di  coverta , o di  nastro  io  qui  gli  trovo? 

Un  fra  gli  altri  gittato  al  pavimento 
Ne  veggo  là  fra  Drusiano,  e Rovo, 

Che  (se  creder  si  deve  all'argomento) 
Porta  un  titolo  illustre  : Il  Mondo  novo. 

Ma  si  logoro  par,  s’io  ben  discerno. 

Clic  quasi  II  mondo  vecchio  è più  moderno. 

Di  scusa  certo,  c di  pietà  son  degni 
(Sorridendo  l' Interprete  rispose) 

Quei , elle  d’  ogni  valor  poveri  ingegni 
Si  sforzan  d' emular  l’ opre  famose; 

Chò  Ingordigia  d'onor  non  ha  ritegni 
Nelle  cupide  menti  ambiziose , 

E quando  alto  volar  ne  voggion'  uno, 

A quel  seguo  arrivar  vorria  ciascuno. 

Non  mica  a tutti  è di  toccar  concesso 
Della  gloria  immortai  la  cima  alpina. 

Chi  volar  vuol  senz’  all , accoppia  spesso 
All’  audace  salita  alta  rulna. 

Ma  quantunque  avveuir  soglia  l'islesso 
Quasi  in  ogni  bell'arte,  e disciplina. 

Non  si  vede  perù  maggior  tracollo , 


ADONE.  61 


Che  di  chi  segue  indegnamente  Apollo. 
Dietro  ai  chiari  scriltor  dì  Smirna , e 
Manto, 

Per  cui  sempre  vivranno  i duci , e l'armi , 
Tentando  invan  di  pareggiarli  al  canto , 
Più  d'  uno  arroterà  io  stile  , e i canni. 

0 quanti  poi , con  quanto  studio  c quanto 
Dell'  italico  stuol  di  veder  panni 
Tracciar  con  poca  lode  i due  migliori , 

Che  in  sul  PA  canteran  guerre  ed  amori. 

Che  di  poemi  in  quella  lingua  cresca 
Numerosa  farragine , e di  rime , 

La  facil  troppo  invenzton  tedesca 
N’  è cagion , che  per  prezzo  il  tutto  impri- 
Ma  se  alcuna  sarà , che  mal  riesca , [me. 
L’opra,  che  tu  dicesti,  A tra  le  prime. 
Cosi  figliano  i monti,  e il  topo  nasce. 

Ma  poi  nato  eh'  egli  è , si  more  in  fasce. 

Polche  si  fatti  parti  un  breve  lume 
Visto  appena  han  laggiù  nei  vostro  mondo, 
Il  vecchlarci  dalle  veloci  piume , 

Quel  che  vedesti  già  nell'  altro  tondo , 
Qui  ridurle  in  un  monte  ha  per  costume 
Per  seppellirle  in  tenebroso  fondo. 

Alfin  te  porta  ad  attuffar  nel  rio. 

Che  copre  il  tutto  di  perpetuo  oblio. 

Ma  più  non  dimoriam , che  polche  a que- 
Tihoscortoetcrnlelumlnosimondi,  [sti 
Converrà , che  altro  ancor  ti  manifesti 
Dei  secreti  del  Fato  alti  e profondi, 

E vie  molto  maggior,  che  non  vedesti , 
Maraviglie  vedrai , se  mi  secondi. 

Qui  tacque , e in  ricca  loggia  e spaziosa 
Il  coudusse  a mirar  mirabii  cosa. 

Vasto  edificio  d’ ingegnosa  sfera 
Reggea , quasi  gran  mappa,  un  piedistallo, 
Che  si  appoggiava  ad  una  base  intera 
Tutta  intagliata  del  miglior  metallo. 

Era  d’ ampiezza  assai  ben  grande , ed  era 
Fabrìcala  d’ acciaio , e di  cristallo. 

La  cerchiavan  per  tutto  In  molti  giri 
Fasce  di  lucidissimi  zaffiri.  [dea 

Forma  avea  d’ un  gran  pomo,  e risplcn- 
Più  che  lucente,  e ben  polito  specchio, 

E d ' aurei  seggi  intorno  intorno  avea 
Per  rlsguardaria  un  comodo  apparecchio. 
Quivi , mentre  che  intento  Adon  tenca 
L' occhio  alla  palla , al  suo  parlar  I’  orec- 
Mercurio  seco,  e con  la  Dea  s' assise,  [chio, 
Indi  da  capo  a ragionar  si  mise. 

Questa  ( dicra  J sovramortal  fattura , 
La  qual  confonde  ogni  creato  ingegno , 
Opra  mirabii  e , ma  di  Natura , 


E di  dlvln  Maestro  alto  disegno. 

L*  artefice  di  tanta  architettura, 

Che  d' ogni  Miro  artificio  eccede  il  segno , 
Fu  questa  mia  del  gran  Fattor  sovrano 
( Benché  imperfetta]  imitatrice  mano. 

Sudò  molto  la  man,  nè  l' intelletto 
Poco  in  si  nobil  macchina  sofferse , 

E lungo  tempo  inabile  architetto 
Sue  fatiche , e suol  studj  Invan  disperse  ; 
Ma  quei , eh’  e sol  tra  noi  fabro  perfetto , 
Dei  bei  lavor  l’ invenzton  m’ aperse , 

E il  secreto  mi  fc’  facile  e lieve 
Di  raccorre  il  gran  mondo  in  spazio  breve. 

E die  sia  ver,  rivolgi  a questa  mia 
Adamantina  fabrica  le  ciglia. 

Di’  se  vedesti , o se  esser  può , che  sia 
Istromento  maggior  di  meraviglia. 
Composta  è con  tant’arte  e maestria, 
Che  al  globo  universa!  si  rassomiglia. 
Mirar  nel  cerchio  puoi  limpido  e terso 
Quanto  1’  orbe  contien  dell'  universo. 

Formar  di  cavo  rame  un  cielo  angusto 
Fia  forse  in  alcun  tempo  altrui  concesso, 
Dove  or  sereno , or  di  vapori  onusto 
L’  aere  vedrassi , e il  tuono , e il  lampo 
E tener  moto  regolato  e giusto  [espresso, 
La  bianca  Dea  con  l’ altre  stelle  appresso, 
E con  perpetuo  error  per  l’ alta  mole 
Di  fera  in  fera  ir  tra  le  sfere  il  Soie. 

Ma  dove  un  tal  miracolo  si  lesse , 

0 chi  senno  ebbe  mai  tanto  profondo, 
Cile  compilar,  compendiar  sapesse 
La  gran  rota  del  tutto  in  picciol  tondo? 

Al  magistero  mio  sol  si  concesse 
Fare  un  vero  model  dei  maggior  mondo , 
Lo  qual  dei  mondo  insieme  elementare 
(Non  che  sol  del  celeste ),  è l’ esemplare. 

Onde  di  quante  cose  o buone , o ree 
Passate  ha  il  mondo  in  qualsivoglia  etade, 
E di  quante  passar  poscia  ne  dee 
Per  quante  ha  colaggiù  terre , e contrade , 
Qui  son  le  prime  originarle  idee, 

Dove  scorger  si  può  ciò  che  vi  accade. 
Riluce  tutto  in  questo  vetro  puro 
Col  passato , c il  presente , anco  il  futuro. 

Vedi  le  zone  fervide , e l’ algenti , 

E dove  bolle,  e dove  agghiaccia  l'anno. 
Vedi  con  qual  misura  agli  elementi 
Tutti  I corpi  celesti  in  giro  vanno. 

Vedi  il  scntier,  laddove  i duo  lucenti 
Passeggieri  del  cicl  difetto  fanuo. 

Vedi  come  veloce  il  moto  gira 
Del  del , che  ogni  altro  cicl  dietro  si  lira. 


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C4  POEMI 

Ecco  1 tropici  poi , quindi  discenti 
Volgersi  il  cancro,  e quinci  il  Capricorno, 
Dove  agguagliati  dei  pari  i corsi  alterni 
La  notte  al  sonno , alia  vigilia  il  giorno. 
Ecco  i colliri,  uniti  ai  poli  eterni. 

Clic  sempre  il  ciel  vati  discorrendo  intor- 
Ecco  con  cinque  linee  i parale!!! , [ no. 

E nel  bel  mezzo  il  principal  tra  quelli. 

Eccoti  là  sotto  il  piti  basso  cielo 
Il  foco , che  sempr* arde , e mal  non  erra. 
Mira  dell’ acque  il  trasparente  gelo. 

Olle  II  gran  vaso  del  mar  nel  ventre  serra. 
Mira  dell’ aria  molle  il  soltil  velo. 

Mira  scabrosa  e ruvida  la  terra. 

Tutta  librata  nel  suo  proprio  pondo, 
Quasi  centro  dei  del,  base  del  mondo. 

Himira,  c vi  vedrai  distinti,  c chiari 
(loschi,  colli,  pianure,  e valli,  e monti. 
Vedrai  scogli,  ed  arene,  isole,  e mari, 

E laghi,  c fiumi,  c ruscelletti,  c fonti, 
Provincie,  c regni,  e di  costumi  vari 
Centi  diverse,  c d’abiti,  c di  fronti. 
Vedrai  cou  peli , e squamine , e penne,  e ro- 
E fere,  e pesci,  ed augclletli , e mostri,  ^stri, 
Vedi  la  parte,  ove  1’  aurora  al  tauro 
li  rapo  indora,  e l' oriente  alluma. 

Vedi  P altra , ove  lava  al  vecchio  inauro 
Il  piè  di  sasso  I’  africana  spuma. 

Vedi  là  dove  spula  il  fioro  cauro 
Sulle  balze  rifee  gelida  bruma. 

Vedi  ove  il  negro  con  la  negra  gente 
Suda  sotto  1’  arder  dell*  asse  ardente. 

Ecco  le  rupi,  ondo  trabocca  il  Nilo, 
Clic  la  patria,  e il  natalsi  ben  nasconde. 
Ecco  I’  Eufrate  clic  per  dritto  filo 
Le  due  gran  reglon  parte  con  Tonde. 

L’ Indo  è colà,  cito  per  antico  stilo 
Fa  di  tempeste  d*  or  ricche  le  sponde. 
Quell’  è il  terrai , là  dove  sferza  c scopa 
Le  sue  fertili  piagge  il  mar  d’Europa. 

Vuoi  I*  Arabie  veder  per  le  famose, 

La  Petrea,  la  Deserta,  c la  Felice? 
Eccoli  il  loco  appunto  ove  l’  espose 
La  trasformata  già  tua  genitrice. 

Ve’  le  rive  di  Cipro,  ambiziose 
Di  una  tanta  bellezza  abitatrice. 

Conosci  il  prato , ove  perdesti  il  core  ? 

È quello  il  tetto,  ove  t’ accolse  Amore? 
Grande  è il  teatro,  c nei  suoi  spazi  im- 
mensi 

Chi  langue  in  pena , e chi  gioisce  in  gioco. 
Ma  per  non  ti  stancar  la  mente , e i sensi 
In  cose  ornai , clic  ti  rilevati  poco , 


EROICI. 

Tanto  sol  mostrerò,  quanto  appari icnsi 
Alla  Iteli'  esca  del  tuo  dolce  foco. 

Sai  pur , cl»e  protettrice  è questa  Dea 
Della  stirpe  di  Dardano,  e d’  Elica. 

Le  diede  soi  ra  Pallade , c Giunone 
Paride  già  delle  bellezze  il  vanto. 

Benché  tragico  n’ebbe  il  guiderdone, 

E corscr  sangue  il  Simoenta , c il  Santo* 
Questa  ( ma  non  già  sola  J é la  cagione , 
Ch’ella  il  scine  troiano  ami  cotanto. 
Mirolla  in  questo  dir  Mercurio,  c rise. 

L’ altra  arrossi  col  rimembrar  d’ Anelli  se. 

Or  mentre  [ seguì  poi } del  cavo  fianco 
Uscito  del  destrier , clic  insidie  chiude, 
Sluol  di  greci  guerrieri  il  Frigio  stanco 
Assai  con  armi  impetuose  c crude, 

Sotto  la  scorta  del  buon  duce  franco 
Ricorra  alla  mcotica  palude 
Una  gran  parte  di  reliquie  vive, 

Esuli,  peregrine,  e fuggitive. 

Taccio  il  corso  fatai  di  queste  genti , 

E de’  suoi  >ari  casi  il  lungo  giro; 

Per  quanti  forluncvoli  accidenti 
In  Germania  passar  con  Marcomiro; 
Come  di  Marcomiro  I discendenti 
Nel  gallico  terrai  si  stabilirò, 

Dappoiché  Ferraniondo  al  mondo  venne , 
Clic  dello  scettro  il  primo  onor  vi  tenne. 

Né  fin  d’ uopo  additarti  ad  uno  ad  uno 
Di  quest'  ampia  miniera  i gran  monarchi. 
E le  palme , c le  spoglie , c di  ciascuno 
L’  eccelse  imprese,  e gli  onorati  incarchi. 
La  folta  selva  degli  eroi , elio  aduno 
Consenti  pur  die  brevemente  io  i archi, 
E scelga  sol  del  numero  eli’ io  dico. 

Col  degno  figlio  il  valoroso  Enrico. 

Volgi  la  vista  ove  il  mio  dito  accenna , 

E la  lega  vedrai  T insegne  sciorre, 

E quasi  armata,  ed  animata  Ardcnna, 
Tre  foreste  di  lance  in  un  raccorre. 

Ma  d’  altra  parte  il  paladin  di  Senna 
Vedile  pochi  c scelti  a fronte  opporre. 
Vedi  con  quanto  ardire  oltre  Garona 
Fa  le  truppe  marciar  contro  Peroni. 
Montagna,  die  del  del  tocchi  i con- 
fini , 

Selva  d'antiche,  e condensate  piante. 
Fiume  die  d’  alta  rupe  in  giù  mini, 
Tempesta  in  nembo  rapido  c sonante. 
Neve  indurata  in  freddi  gioghi  alpini , 
Fiamma  eh’  Euro  alle  stelle  erga  fumante. 
Mar,  cielo , inferno  all*  animosa  spada 
Forano  agcvol  guado,  c piana  strada. 


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ADONE.  65 


Guerrlcr , destrieri  atterra , armi , sten- 
dardi 

Spezza , e sprezzando  gli  urti , apre  le  stra- 
Nembi  di  sassi , grandini  di  dardi , [de. 
Turbini  d’  aste,  fulmini  di  spade 
Piovongli  sopra,  ed  ri  dei  più  gagliardi 
Soslien  gl’  incontri , agl'  impeti  non  cade , 
Nè  stanco  posa , nè  ferito  langue , 

Fatto  scoglio  di  ferro  in  mar  di  sangue. 

T ulto  del  sangue  ostil  molle , e vermiglio 
Abbatte,  impiaga , uccide , ovunque  toc- 
chi. 

Vcdil  v ibrando  a prova  il  ferro , c li  ciglio, 
Ferir  col  brando,  c spaventar  con  gli  oc- 
Sc  altri  talor  nell’  orrido  scompiglio  [chi. 
SI  rivolge  a mirar  quai  colpi  ei  scocchi , 

Dal  gnardoè  pria , clic  dalla  spada  ucciso , 

E citi  fogge  la  man  non  campa  il  > iso. 

Olii  gli  contenderà  l’ alto  diadema. 

Se  un  oste  tal  d’ ogni  poter  disarma? 

Nè  sol  dappresso  il  liodano  ne  trema. 

Ma  fa  da  iungc  impallidir  la  Parma. 

Ecco  del  Tago  la  speranza  estrema, 
li  signor  degli  Allohrogi  clic  s' arma. 
Ecco  clic  in  prova  al  paragon  concorre 
Con  l’ italico  Achille  il  gallo  Ettorrc. 

Odi  Parigi  i fieri  tuoni , e vedi 
Quanti  Pirata  man  fulmini  avventa? 

Deli  clic  pensi  ? o clic  fai  ? perchè  non  cedi  ? 
Già  co’  giganti  suol  Flcgra  paventa. 
Stendi  stendi  le  paline,  c pietà  chiedi, 

E P auree  chiavi  al  regio  piè  presenta. 
Stolta  sei  ben  se  altro  pcnsicr  li  move, 
Cosi  si  vince  sol  l’ ira  di  Giove. 

Vedilo  entrar  nelle  famose  mura  , 

Ed  occupar  le  mai  difese  porte. 

Van  con  la  fuga  cieca , c mal  scruta 
Declinando  il  furor  del  braccio  forte, 

L’ Ignohil  pianto,  c la  pietica  paura; 

Chi  non  fugge  da  lui  segue  la  morte. 
Battuto  dal  timor  cade  il  consiglio, 

E I’  ordine  confuso  è dal  periglio. 

Eccolo  aitili,  eli' è con  applauso  eletto 
De' Galli  alteri  a governare  il  freno. 

Nè  studia  quivi  con  tiranno  a (Tetto 
Beni  usurpati  accumularsi  in  seno. 

Con  larga  man , con  gioviale  aspetto  [no. 
Versa  d’ oro , ov’  è d’ uopo , il  grembo  pie- 
fi  d' or  in  or  regnando  altrui  più  scopre 
Generosi  pcnsicr , magnanim'  opre. 

Non  vi  ha  più  loco  ambizione  ingorda , 
Non  più  stolto  furor,  discordia  fiera. 
Non  vi  ha  prudenza  cieca , o pietà  sorda , 


Pace , e giustizia  in  quell’  impero  impera. 
Sa  far  ( si  ben  le  repugnanze  accorda  ) 
Autunno  germogliar  di  Primavera, 

Mentre  fra  gli  aurei  gigli  a Senna  in  riva 
Pianta  dopo  la  palma  anco  I'  oliva. 

Virtù  quanto  è maggior,  tanto  è più  spcs- 
Dell'  invidia  maligna  esposta  ai  danni , [so 
La  qual  suol  quasi  a lei  far  quell’  (stesso. 
Che  il  tarlo  ai  legni,  e la  tignuola  ai  panni. 
Qual  ombra,  che  va  sempre  al  corpo  ap- 
presso , 

La  perseguita  ognor  con  vari  affanni. 
Mason  gli  oltraggi  suoi,  che olTendon  poco, 
Lime  del  ferro,  e mantici  dei  foco. 

Mira  il  (lorde’  migliori,  al  cui  graniume 
L’  altrui  sciocco  livor  divicn  farfalla , 
Mercè  di  quel  valor , clic  per  costume 
Quanto  si  attornia  più,  più  sorge  a galla , 
Malgrado  di  chi  nocergli  presume. 

Ai  pesi  è palma , alle  percosse  è palla  ; 
Onde  dì  novo  onor  doppiando  luce 
È fatto  inclito  re  d'  inclito  duce. 

Del  guerrier  forte,  1 cui  gran  pregj  esal- 
Fia  tale  c tanta  la  sublime  altezza , [lo 
Glie  come  Olimpo  olirà  le  nubi  in  alto 
Non  tenie  i venti , e I fulmini  disprezza , 
Così  d’ Invidia , oppur  d’ insidia  assalto 
Danneggiar  non  potrà  tanta  grandezza , 
Anzi  ogni  offesa,  ed  ogni  ingiuria  loro 
Sarà  soffio  alla  fiamma,  e fiamma  all'  oro. 

Se  non  eli'  lo  veggio  di  furord'  Inferno 
Di  una  furia  terrena  il  petto  acceso, 

E punto  dalle  vipere  d’  Averno 
L'n  cor  malvagio  a perfid’  opra  inteso. 
Non  vedi  là , conte  colui , clic  a scherno 
Prese  eserciti  armali , a terra  ha  steso 
Mosso  da  folle , c temeraria  mano 
Con  un  colpo  crudel  ferro  villano? 

Quando  all'  alte  sperameli)  sen  conrei  te 
Tenendo  il  mondo  già  tutto  converso. 
Cinto  d’armi  forbite,  c genti  elette 
Spaventa  il  Moro , ed  atterrisce  il  Perso, 
E gli  appresta  fortuna,  c gli  promette 
Lo  scettro  universal  dell’  universo, 

Pria  che  egli  vada  a trionfar  d'  altrui , 
Viro  Morte  iniqua  a trionfar  di  lui. 

Vansi  le  Virtù  tutte  a seppellire 
Nel  sepolcro,  chechiudeil  sol  de’ Franchi, 
Salvo  la  Fama,  che  non  vuol  morire. 
Perchè  alle  glorie  sue  vita  non  manchi  ; 
E come  al  caso  orribile  a ridire 
1 suoi  lant’  occhi  lagrimando  ita  slancili , 
Cosi  per  farlo  ancor  sempre  immortale 


66  PORMI 

Si  apparecchia  a stancar  le  lingue , c 1*  ale. 

Ma  che  ? Se  da  colei,  clic  vince  il  tutto , 

È vinto  alfine  il  sempre  invitto  Enrico , 
L'alto  onor  dc’Borbon  quasi  distrutto 
In  parte  a ristorar  vien  Lodovico, 

Che  da  si  degno  stipite  produtto. 
Aggiunge  gloria  al  gran  lignaggio  amico, 
E sotto  l’ombra  del  materno  stelo 
Alza  felice  i verdi  rami  al  cielo. 

Or  mi  volgo  colà , dove  Baiona 
Smalta  di  gigli  i fortunali  lidi. 

Veggio  superbo  il  mar  che  s’ incorona 
Di  gemme , e d*  or , qual  mai  più  ricco  il 
Già  già  l’arena  sua  tutta  risona  [vidi. 
Di  lieti  bombi , c di  festivi  gridi. 

Veggio  per  Tonde  placide  e tranquille 
Sfavillar  lampi , c lampeggiar  faville. 

Nè  T indico  oceano  orientale 
Tante  aduna  nel  seti  barbare  spoglie  : 

Nè  lo  stellato  elei  cumulo  tale 
Di  bellezze , e di  lumi  in  fronte  accoglie. 

0 spettacol  gentil,  pompa  reale, 

0 ben  nato  consorte , o degna  moglie  ' 
Qual  concorso  di  regi , c di  rei  ne 
Scende  a felicitar  Tacque  marine  ! [mostro, 

Risguarda  in  mezzo  al  fiume, ov*  io  li 
Vedrai  colonne  eburnee , aurei  sostegni 
Con  un  gran  sovraciel  di  lucid*  ostro 
Far  ricca  tenda  a un’  isola  di  legni , [stro 
Che  fianco  a fianco  aggiunti,  c rostro  a ro- 
Porgono  il  nobil  cambio  ai  duo  gran  re- 
gni. 

Mentre  prendono , c dan  Spagna  a Parigi 
Lisabelta  a Filippo,  Anna  a Luigi. 

Ma  vedi  opporsi  agl’  imenei  felici 
Suddite  al  Callo,  e ribellanti  schiere, 

E coprir  di  Guascogna  i campi  aprici 
Quasi  dense  boscaglie,  armi  guerriere. 
Quinci,  e quindi  avversarie,  e protettrici 
Spiegan  Guisa, c Comi  è bande,  e bandiere. 
Ma  del  figlio  d’Enrico  il  novo  Enrico 
Si  mostra  sì , non  è però  nemico. 

L’uno  è colui,  che  sotto  ha  quel  destrie- 
Baio  di  pelo , itallan  di  razza.  [ro 

Di  tre  vaghi  aironi  orna  il  cimiero, 

E di  croci  vermiglie  elmo , e corazza. 
Benché  misto  di  bigio  abbia  il  crin  nero , 
Gli  agi  abbandona,  ed  esce  armato  in  piaz- 
E carco  in  un  d’ esperienza,  e d’ anni,  [za, 
Torna  di  Marte  ai  già  dismessi  affanni. 

L’altro  è quei  piùlontan,che  lacampa- 
Scorre  di  ferro,  e d’or  grave  lucente,  [gna 

1 sul  verde  degli  anni , e l’ accompagna  l 


EROICI. 

| Fiera , e di  novità  cupida  gente. 

! Ila  nello  scudo  ì gigli , c di  Brettagna 
(Cavalca  ubero  un  corridor  possente, 

E tien  dal  fianco  attraversata  al  tergo 
Una  banda  d’ azzurro  in  sull’  usbergo. 

Già  già  numero  immenso  ingombra  U 
Di  tende  annate,  e di  trabacche  tese,  [piano 
Piagne  disfalle  il  misero  Aquilano 
K le  messi , c le  moli  al  bel  paese. 

Già  tinto  il  giglio  d’or  di  sangue  umano, 
(ìlio  è pure  ( ahi  ferità  ! ) sangue  francese , 
Sembra  quel  fior,  che  del  suo  re  trafitto 
Nelle  foglie  purpuree  il  nome  ha  scritto. 

Gallia  infelice , ahi  qual  s'appiglia,  ahi 
Nelle  viscere  tue  morbo  intestino  ! [quale 
Rode  il  tuo  se n profondo  interno  male 
Di  domestico  losco  c cittadino. 

Pugnai)  discordi  umori  in  corpo  L'ale 
Sì  eh’  io  preveggio  il  tuo  morir  vicino  ; 
Ed  al  tuo  scampo  ogni  opra , ogni  arte  è 
Se  Medica  pietà  non  li  risana.  [vana, 

Pon  colà  mente  alla  gran  donna  d’Arno 
Con  qual  valor  la  sua  ragion  difende. 

Nò  con  petto  tremante , o viso  scarno 
Fra  tante  cure  sue  posa  mai  prende. 
Vorrebbe  (e  il  tenta  ben,  ma  il  tenta  indar- 
Senza  ferro  estirpar  le  teste  orrende,  [no) 
Le  teste  di  quell’  idra  empia  ed  immonda. 
Di  veleno  infemal  sempre  feconda. 

Che  non  fa  per  troncarle  ? ecco  pospone 
Alle  pubbliche  cose  il  ben  privato , 

Ed  all'impeto  oslil  la  vita  espone 
Per  salvar  del  gran  pegno  il  dubbio  stato. 
Ad  accordo  venir  pur  si  dispone , 

E sospende  tra  T ire  il  braccio  armato , 
Purché  il  furor  s’  acqueti , e cessi  quella 
D' orgoglio  insano  aquilonar  procella. 

Ma  quando  alfin  la  gran  tempesta  scorge. 
Che  T aria  offusca , e il  mar  conturba  e 
E che  Tonda  terribile  più  sorge,  [mesce, 
E che  il  vento  implacabile  più  cresce, 

Al  l>cn  saldo  timon  la  destra  porge. 
Drizzasi  al  polo , e di  cammin  non  esce. 
Or  con  forza  reggendo,  or  con  Ingegno 
Tra  tanti  flutti  il  travagliato  legno. 

Fissa  dritto  colà  meco  lo  sguardo  , 
Dove  T ampia  riviera  il  passo  serra. 

Quivi  campeggia  il  gran  campion  Guisar- 
Contro  cui  non  si  tien  torre,  nè  terra,  [do, 
E par  che  dica  intrepido  e gagliardo  , 

Chi  la  pace  ricusa  , abbia  la  guerra  ; 

E con  prodezza  alla  baldanza  eguale 
Dell’  avversario  i miglior  forti  assale. 


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ADONE. 


L*  esercito  reai  cauto  provvede  [stanca 
Di  genti,  c d’armi,  e non  s’ allenta , o 
Per  eseguir  quanto  giovevol  crede, 

0 necessario  alla  Corona  franca. 

0 senza  esempio  incomparabil  fede,  [ca, 
Quando  ai  casi  opportuni  ogni  altro  man- 
Sol  questi  al  par  delle  più  forti  mura 
Mostra  petto  costante , alma  serura. 

Fa  gran  levate  di  cavalli  e fanti. 

Che  può  contro  costor  V oste  nemica  ; 
Gente  miglior  non  vide  il  Sol  tra  quanti 
Qnser  spada  giammai , vestir  lorica. 

Non  sanno  in  guerra  indomiti  e costanti 

0 temer  rìschio , o ricusar  lalica. 

Usi  in  ogni  stagion  con  l’armi  grevi 
Bere  i sudori , e calpestar  le  nevi. 

0 qual  fervor  di  Marte,  o qual  già  tocca 
Al  re  crescente  il  cor  foco  d’ardire! 
Brama  di  gir  tra’  folgori , che  scocca 
Piu  d’ un  cavo  metallo , a sfogar  l’ ire. 
Ma  dappoiché  non  può  là  dove  fiocca 
La  tempesta  del  sangue , in  pugna  uscire, 
Vassenc  o caccia  esercitando,  o giostra, 
Che  una  effigie  di  guerra  almen  gli  mostra. 

Cosi  leon  dalla  mammella  irsuta 
Uso  ancora  a poppar  cibi  novelli , 

Tosto  che  l’ unghia  al  piò  sente  cresciuta , 
Alla  bocca  le  zanne,  al  collo  i velli , 

Già  la  rupe  natia  sdegna  e rifiuta , 

La  lana  angusta , e le  vivande  imbelli  ; 
Già  segue  là  tra  le  cornute  squadre 
Per  le  gelide  selve  il  biondo  padre. 

Ma  quella  Dea  (ch’altro  che  Dea  non  deve 
Dirsi  colei,  che  a dii  in’ opre  aspira) 
Smorza  intanto  quel  foco , e non  1*  è greve 
Per  la  comun  salute  il  placar  l’ ira. 

1 congiurati  principi  riceve, 

E l'accampato  esercito  ritira. 

Ed  al  popol  fellone  c contumace 
Perdonando  il  fallir , dona  la  pace. 

Ecco  d’ astio  privato  ancor  bollire 
De’  duci  islessi  gli  animi  inquieti , 

E in  stretta  lega  ammutinati  ordire 
Di  novelle  congiure  occulte  reti. 

Ecco  l’accorto  re  viene  a scoprire 
Di  quel  trattato  i taciti  secreti, 

E da'  sospetti  d’ogni  oltraggio  indegno 
Con  la  prigione  altrui  libera  il  regno. 

Poiché  11  pensier  del  macchinalo  danno 
Vano  riesce,  e d'ognl  effetto  voto, 

Del  capo  afflitto  le  reliquie  vanno 
Qual  polve  sparsa  allo  spirar  di  Nolo. 

Ma  per  nove  cagion  pur  anco  fanno 


Novo  tra  lor  sedizioso  moto  ; 

Eppur  con  nove  forze,  e genti  nove 
La  regia  armata  a' danni  lor  si  rnove. 

Fuor  de’  materni  imporj  intanto  uscito 
Passa  il  re  novo  a possedere  il  trono. 
Da  cui  pria  calcitrante,  c poi  pentito 
Chi  pur  dianzi  l’ offese,  otticn  perdono. 
Richiamata  è Virtù , Marte  sbandito 
Per  quell’  allo  donzel , di  cui  ragiono, 
L’alto  donzel,  che  sostener  non  pavé 
Con  si  tenera  man  scettro  si  grave. 

Il  Tamigi , il  Danubio  , il  Iteti , il  Reno 
L’ama,  il  teme,  l’ammira  anco  da  lunge, 
Anzi  fin  nell’  italico  terreno 
A dar  le  leggi  col  gran  nome  giunge. 

E se  pur  di  vederne  espresso  appieno 
Un  degno  esempio  alcun  desio  li  punge , 
Risguarda  in  riva  al  Pò,  come  si  face 
Arbitro  della  guerra,  c della  pace. 

Io  dico , ove  tra  il  Pò , che  non  lontano 
Nasce,  e la  Dora,  c il  Tanaro  risiede 
Il  bel  paese,  al  cui  fecondo  piano 
La  montagna  del  ferro  il  nome  diede. 
Vedrai  Savoia  con  armala  mano. 

Che  due  cose  in  un  punto  a Mau  toa  chiede, 
Il  pegno  della  picciola  nipote, 

E de’  ronfio  la  patteggiata  dote. 

Vedi  di  Cadmo  il  successor,  che  viene 
In  campo  a por  le  sue  ragioni  auliche, 

E perchè  l’una  nega,  e l’altra  tiene, 
Case  unite  in  amor  toman  nemiche. 
Forse  nutrisci , o Mincio  , entre  le  vene 
Il  seme  ancor  delle  guerriere  spiche , 
Poiché  veggio  dal  sen  della  tua  terra 
Pullular  tuttavia  germi  dì  guerra? 

Veder  puoi  di  Torin  1*  invitto  duce. 
Cui  non  ha  Roma , o Macedonia  eguale , 
Che  carriaggi , c salmerie  conduce 
Con  varie  sovra  lor  macchine , e scale. 
Su  lo  spuntar  della  diurna  luce 
A Trino  arriva,  c la  gran  porta  assale. 
Vedi  stuol  piemontese,  e savoiardo 
Quivi  attaccar  l’espugnator  pettardo. 

Ecco  rollo  11  rastei , passato  il  ponte. 
Non  però  senza  sangue , e senza  morti, 
Le  genti  alloggia  all’  alta  rocca  a fronte  , 
Prende  i quarller  più  vantaggiosi  e forti , 
Manda  la  valle  ad  appianar  col  monte, 

I picconieri , c l manovali  accorti , 

Mette  i passi  a spedir  scoscesi  e scabri 

Con  vanghe,  e zappe,  e guastadori,  e fabrl. 

Fa  con  gabbie , e trincee  steccar  dintor- 
De’  miglior  posti  1 più  securi  sili  ; [ no 


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68  POEMI 

Col  sembiante  rcal  vergogna  c scorno 
Accresce  ai  vili,  ed  animo  agli  ardili. 
Par  fiamma,  o lampo,  or  parte,  or  fa  ritor- 
Cercando  ove  conforti,  cd  ove  aiti , [no 
Mentre  il  camion,  che  fulminando  scoppia, 
Nel  rivcllin  la  batteria  raddoppia. 

Ed  egli  in  un  co'  generosi  figli 
Studia,  come  talor  meglio  si  balla, 
Sempre  occupando  infra  i maggior  perigli 
La  prima  entrala,  c V ultima  ritratta. 
Convicn,  che  pur  di  ceder  si  consigli 
La  terra  alfin  per  non  restar  disfatta, 
Ed  apre  al  \incitor,  clic  l’ assecura 
Dalla  preda,  dal  ferro,  c dall' arsura. 
Moncaho  a un  tempo  espugna  anco  c 
conquista; 

Ma  chi  può  qui  vietar  che  non  si  rubo? 
Va  il  tutto  a sacco.  0 qual  confusa  e mista 
Scorgo  di  fumo  , c polve  oscura  nube! 
E se  pari  l’udir  fusse  alla  vista, 

Risonar  v'udirei  timpani,  c tube. 
Rendersi  i difensor  già  veder  panni, 
Salve  le  vite  con  gli  arnesi,  e l'armi. 

Pur  nell'Alba inedesma  Alba  è sorpresa, 
Eppur  dalle  rapine  oppressa  laugue. 

Il  miser  ciltadin  non  ha  difesa 
Per  doglia  afilitto,  c per  paura  esangue. 
Va  il  soldato,  ove  il  trae  fra  l' Ire  accesa 
Fame  d’ or,  sete  d*  or  più  clic  di  sangue. 
Suscita  l’oro,  eli’ è sotterra  accolto, 

E seppellisce  poi  chi  l’ ha  sepolto,  [nisce 
Di  buon  presidio  il  gran  guerrier  for- 
Le  prese  piazze,  ed  ecco  il  campo  ha  mos- 
Nova  milizia  assolda,  e ingagliardisce  [so. 
DI  gente  elvezia,  e valesana  il  grosso. 
Ecco  della  città,  che  Impallidisce 
Là  tra  il  Delfio,  c la  Nizza , il  muro  ha 
Ecco  a difesa  del  signor  di  Manto  [scosso. 
11  vicino  Spagnol  moversi  intanto. 

Per  reverenza  dell’  insegne  iberc 
Toglie  a Nizza  l’assedio,  c si  ritragga. 
Quindi  van  di  cavalli  armate  schiere 
D’Incisa,  e d*  Acqui  a disertar  le  piagge. 
Tragedia  miserabile  a vedere 
Le  culle  vigne  divenir  selvagge, 

E dal  furor  del  foco,  e delle  spade 
Abbattuti  I villaggi,  arse  le  biade. 

Trema  Casale;  a temprar  armi  intesi 
Sudano  I fabri  alle  fucine  ardenti. 
L’acciar  manca  a tant*  uopo , onde  son 
Mille  dagli  ozi  lor  ferri  innocenti,  [presi 
Rozzi  non  solo , c villarecci  arnesi , 

Ma  cittadini  artefici  slromcnti 


£IlOKCI. 

Forma  cangiano,  cd  uso , e far  nc  vedi 
Elmi , c scudi , aste , cd  azze , c spade , e 
spiedi. 

Il  vomere  già  curvo,  or  fatto  acuto, 

A bellona  donato,  a Ceree  tolto, 

Su  la  sonante  incudine  battuto, 
D'aratore  in  guerrier  vedi  rivolto. 
L’antico  agricoltor  rastro  forcuto, 

Nel  fango,  e nella  ruggine  sepolto, 
Vestendo  di  splendor  la  viltà  prima, 
Ringiovcnisce  al  foco,  ed  alla  lima. 

Intanto  e quinci  e quindi  ecco  spediti 
Vanno,  c vengono  ognor  corrieri,  e messi. 
Clic  il  buon  re , eh’  io  dicca , vuol  che  so* 
pili 

Sieuo  1 contrasti , c la  gran  pugna  cessi  ; 
Ed  acciocché  gli  afTar  di  tante  liti 
In  non  sospetta  man  restin  rimessi , 

Ai  deputali  imperlali,  e regj 
Fa  consegnar  della  vittoria  I pregj. 

S'induce  alfin,  capitolati  I patti. 
L’eroe  dell’ Alpi  a disarmar  la  destra, 

E dei  defilnitor  de*  gran  contratti 
Tra  le  mani  il  deposito  sequestra. 

Ma  (piai  rio  sacrilegio  è che  non  tratti 
L* empia  discordia  d’ogni  mal  maestra? 
Ecco  da  capo  al  rinnovar  dell’ anno 
Novi  interessi  a nove  risse  il  iranno. 

Tornano  a scorrer  1’  armi,  ove  ancor 
La  prateria  sì  desolata  c rasa , [ stassi 

Che  nc  stillano  pianto,  c sangue  i sassi. 
Poiché  fabbrica  in  pié  non  v’é  cimasa. 
Né  resta  agli  abitanti  afflitti  c lassi 
Villa,  borgo,  poder,  castello,  o casa. 
Già  s' appresta  la  guerra , c già  la  tromba 
Altri  chiama  alla  gloria,  altri  alla  tomba. 

Colui,  clt’é  primo , e la  divisa  ha  nera, 
E sull'  usbergo  bruii  bianca  la  croce 
(Dcn  il  conosco  alla  sembianza  altera), 
È Carlo,  il  cor  magnanimo  e feroce. 

Di  corno  in  corno,  c d’ una  in  altra  schiera 
Il  volo  impenna  al  corridor  veloce. 

Per  tutto  a tutti  assiste,  c il  suo  valore 
Intelletto  è del  campo,  anima,  c core. 

Spoglia  di  grosso,  c mal  curato  panno, 
Lacerala  da  lance,  c da  quadretta, 

L' armi  gli  copre,  e fregio  altro  non  hanno. 
Nè  vuol  tanto  valor  vesta  più  bella. 
Spada , splendido  don  del  re  britanno , 
Cinge,  nè  v’ha  ricchezza  eguale  a quella. 
Ricca , ma  più  talor  suo  pregio  accresce, 
Chè  i rubiti  tra  i diamanti  il  sangue  mesce. 
Mira  colà , dove  distende  e sporge 


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ADONE.  C9 


Asti  Terso  Aquilon  l’ antiche  mura. 

Poco  lungo  di  fuor  vedrai  clic  sorge 
lTn  picclol  colle  in  mezzo  alla  pianura. 
Quindi  (fuor  clic  la  testa)  armato  ci  scorge 
Le  classi  tutte,  c li  suo  poter  misura. 
Quindi  del  campo  ili  generai  rassegna 
Rivede  ogni  guerricr , nota  ogn'  insegna. 

Quasi  pastor,  che  le  lanose  gregge 
Con  la  proiida  verga  a pasco  adduca. 
Con  leggiadre  ordinanze  altrui  dà  legge 
Il  coraggioso,  il  bellicoso  duca. 

Per  mostrar  quivi  a chi  I’  .infrena  c regge 
Come  di  ferro,  e di  valor  riluca  , 
Spiega  ogni  stuol  vessilli , e gonfaloni , 
Gonfia  stendardi,  e sventola  pennoni. 

Quanto  d'Insubria  il  bel  confin  Circoli- 
Fin  sotto  le  ligustiche  pendici , [da 
Quanto  di  Sesia,  e lìormia  irriga  l’onda 
Voto  riman  di  turbe  abitatrici. 

Quei , che  nella  vallea  cupa  e profonda 
Soggioman  del  Monviso  alle  radici 
Vengonvl , e di  Provenza , e di  Narbona 
Quei , che  bevon  Durenza , isara,  c Sona. 

Ni  pur  d'Augusla  solo , c di  Lucerna 
Le  valli  incultc,  e le  montagne  algenti. 

E dagli  aspri  cantoni  Agauno , e Rema 
Mandami  copia  di  robuste  genti; 

Ma  giù  dall' Alpi , ove  mai  sempre  venia , 
V inondan  quasi  rapidi  torrenti 
Per  le  vie  di  Bernardo , e di  Gebenna 
Quei,  che  lasciano  ancor  Ligerl,  e Senna. 

Un  che  con  armi  d' or  va  seco  al  paro , 
È l'Aldighirra,  il  marescial  temuto, 
Che  sotto  giogo  di  pesante  acciaro 
Doma  il  corpo  mgoso,  e li  crin  canuto. 
Ecco  di  Damian  l’eccidio  amaro. 

Da'  due  franchi  guerricr  preso  e battuto, 
Ed  ecco  d' Alba  la  seconda  scossa. 

Citi  fia,  die  impeto  tanto  afircnar  possa? 

Pon  mente  a quel  cimirr,chccon  tre  ci- 
Di  bianca  piuma  si  rincrespa  al  vento,  [me 
E di  Vittorio,  il  principe  sublime. 

Del  Piemonte  alta  speme,  allo  ornamento. 
Ben  l’ interno  valor  negli  atti  esprime , 
Ha  di  latte  il  destrier,  l’armi  d'argento, 

E d’un  aureo  monll,  che  al  petto  scende, 
Groppo  misterioso  al  collo  appende. 

Vedi  con  quanto  ardire,  c in  che  fier 
Inaspettato  a Messeran  s' accampa,  [atto 
E giunto  a Cravacor  quasi  in  un  tratto 
Di  mina  mortai  segni  vi  stampa. 

Gii  questo,  e quel,  poiché  del  giusto  patto 
Non  fur  contenti,  in  vive  fiamme  avvampa. 


Gii  d' ambedue  con  estcrminio  duro 
Spianato  è il  forte,  c smantellato  il  muro. 

Vuoi  veder  un,  che  nato  a grandi  impre- 
D' emular  il  gran  padre  s'afTaliea  ? [se  , 
Mira  Tommaso,  il  giovane  cortese. 

Che  tinta  di  sanguigno  ha  la  lorica, 

E il  cuoio  del  leon  sovra  l'arnese 
Porta , dell'  avo  Alcide  insegna  antica. 

Di  seta  Ila  i velli,  c con  sottil  lavoro 
Mostra  il  ceffo  d'argento,  el'  unghie  d’oro. 

Vedilo  in  dubbia  c perigliosa  mischia 
Passar  tra  mille  picche,  e mille  spade. 
Già  dal  volante  fulmine,  che  fischia. 
Trafitto  11  corridor  sotto  gli  cade. 

Ma  ne’  casi  maggior  vieppiù  s’arrischia 
Quel  cor,  clic  col  valor  vince  l’clade, 

E picn  d'ardir  più  generoso  cd  alto 
Preso  novo  destrier,  torna  all’  assalto. 

Miralo  poi,  mentre  il  maggior  fratello 
Con  gran  guasto  di  morti , e di  prigioni 
Itompe  il  soccorso,  e il  capitan  di  quello 
Uccide,  che  confuso  è tra'  pedoni , 

Della  cavalleria  giunto  al  drappello 
Torre  i regj  stendardi  a due  campioni , 
Indi  mandarli  per  eterno  esempio 
D’alta  prodezza  ad  appiccar  nel  tempio. 

Solo  il  gran  Filiberto  altrove  intanto 
Dubbioso  speltator,  stassi  in  disparte. 
Ma  il  buon  Maurizio  con  purpureo  manto 
Regge  il  paterno  scettro  in  altra  parte  , 

E l' alte  leggi  del  governo  santo 
Con  giusta  lance  ai  popoli  comparte. 
Talor  pio  cacciatore  al  fidi  cani 
Del  devoto  Amedeo  dispensa  i pani. 

0 se  mai  prenderà,  Tifi  celeste. 

Il  gran  timon  della  beata  nave. 

Da  quai  scogli  sccura  , a quai  tempeste 
Sottratta , correrà  calma  soave  ! 

Già  la  vcgg'lo  per  quelle  rive  e queste 
Portar,  nov’Argo,  di  gran  merci  grave, 
Scorta  da  dlvln  Zollìro  secondo, 
li  vello  d'oro  a vestir  d’oro  il  mondo. 

Ma  vedi  or  come  freme , e come  ferve 
Contro  costoro  il  fior  d'Italia  tutta. 
Genti  all'  Ibero  o tributarie,  o serve, 
Gioventù  ben  armata,  c meglio  instrutta. 
Ben  a tante,  e si  fiere  armi , e caterve. 
Si  oppon  l’inclito  Estense,  c le  ributta. 
Aitili  pur  all’ esercito , che  passa, 
Libero  il  cammin  cede,  e il  varco  lassa. 

Passali  l'ardito  schiere,  e di  Milano 
Il  prefetto  maggior  tra’  suoi  1’  accoglie. 
Eccolo  là  sovra  un  corrente  ispano, 


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70  POEMI 

Che  l’ insegne  reali  all'aura  scioglie. 

Il  baston  generai  di  capitano 
Tlen  nella  destra , c veste  oscure  spoglie. 
Mira  poi  come  in  un  feroci  c vaghi 
S'arman  dall*  altro  lato  i gran  Gonzaghi. 
Quei,  eh’  ha  d*  un  verde  scuro  a flocco  a 
fiocco 

La  sopravesla,  è di  Niverse  il  pregio. 

Vedi  un  che  ha  d’ or  lo  scudo , c d’ or  lo 
stocco , 

Quegli  è Vincenzo  U giovinetto  egregio. 
L*  altro , che  splende  di  lucente  cocco, 
E in  sembiante  ne  viene  augusto  e regio, 
Ili  posai  onci  gesto,  c venerando, 

Quegli  (s’io  ben  comprendo)  è Ferdi- 
nando. 

Lascia  l bei  studj , c prende  a guerra  ac- 
Dai  tranquilli  pensier  cura  diversa,  [cinto 
Manto  che  il  fior  dei  lucid* ostri  ha  tinto, 
Fa  ricca  pompa  all’  armatura  tersa. 
Groppo  di  gemme  in  cimali  tiene  avvinto 
Sicché  l’omero,  e il  petto  gli  attraversa. 
Ma  pur  Tacciar  con  argentata  luce 
Sotto  la  lina  porpora  traluce. 

Vedi  il  Toledo,  che  Vercelli  affronta, 
Già  T ha  di  stretto  assedio  incoronata. 
La  città  tutta  alle  difese  pronta 
Sta  sulle  mura,  e sulle  torri  armata, 
Vedi  lo  scalator,  che  su  vi  monta, 

K il  cittadino  a custodir  T entrata; 

Ma  poiché  assai  resiste,  c si  difende. 
Per  difetto  di  polve  alfin  si  rende. 

In  questo  mezzo  il  capitano  alpino 
I)i  far  gualdane , e correrie  non  resta. 
1-ilizzano,  cd  Annone,  e il  Monferrino 
Gon  mille  piaghe  in  mille  guise  infesta. 
Oltre  il  fruito  perduto,  il  contadino 
Forza  é che  paghi  or  quella  taglia,  or  que- 
Corre  T altrui  licenza,  ove  T alletta  [sta 
Desire  o di  guadagno,  o di  vendetta. 

Così  divisa,  e dell’ istorie  ignote 
Svela  il  fosco  tenor  lo  Dio  d’Egitto, 
Quando  nel  terso  acciar,  tra  le  cui  rote 
Quanto  creò  Natura  è circoscritto, 
Adone  in  parti  alquanto  indi  remote 
VolgesI  e vede  un  non  minor  conflitto, 
Dove  la  gente  in  gran  diluvio  inonda  , 

E diffuso  in  torrenti  il  sangue  abbonda. 

Onde  rivolto  al  messagger  volante, 
Della  bella  facondia  arguto  padre, 
Disse,  o nunzio  divin,  tu  che  sai  tante 
Meraviglie  formar  nove  e leggiadre, 

L’ altra  guerra , che  fan  quindi  distante 


EROICI. 

L’  altre,  che  altrove  io  veggio  armate 
squadre,  [cor  quivi 

Fammi  conto,  onde  avvien , poiché  an- 
Par  si  combatta,  c corra  il  sangue  in  rivi. 

Io  ti  dirò  (risponde);  altra  cagione 
Austria  in  un  tempo  a guerreggiar  sospin- 
Con  la  donna  reai  del  gran  leone,  [ge 
Che  per  Adria  guardar  la  spada  stringe. 
Nè  pur  del  sangue  di  più  d’ un  squadrone 
La  terra  sola  si  colora  e tinge. 

Ma  il  mare  istesso  in  tionmen  fiero  assalto 
Rosseggia  ancor  di  sanguinoso  smalto. 

Se  gola  hai  di  vederlo , or  meco  affisa 
Dritto  le  luci,  ov’io  T affiso  e giro. 

Egli  girolle,  c in  disusata  guisa 
Vide  ondeggiar  lo  sferico  zaffiro. 

Già  di  Anfitrite  a mano  a man  ravvisa 
I v asti  alberghi  entro  l’angusto  giro, 

E di  gran  selve  di  spalmati  legni 
Popolali  rimira  1 salsi  regni. 

Dalle  rive  adriatichc,  c dal  porto 
Di  Partenope  bella  alate  travi 
Già  del  ferro  mordace  il  dente  torto 
Spiccano  onuste  di  metalli  cavi. 

Già  quinci  e quindi  a par  a par  s’ è scorto 
Un  naviglio  compor  di  molte  navi , 

I.c  cui  veloci , e vclalrici  antenne 
Per  non  segnate  vie  batton  le  penne. 

Volan  per  l’alto,  e de’ cerulei  chiostri 
Arano  i molli  Solchi  i curvi  abeD. 
Rompon  co’  remi , e co’  taglienti  rostri 
Di  lle  prore  ferrate  il  sen  di  Teti. 

1 fieri  armenti  dei  marini  mostri 
Fnggono  spaventali  ai  lor  secreti. 

Sotto  l’ombra  degli  arbori  che  aduna 
Quest*  annata,  e quell* altra,  li  mar  s’ im- 
bruna. 

Appena  omeri  quasi  ha  il  mar  bastanti 
li  peso  a sostener  di  tanti  pini. 

Appena  il  vento  istesso  a gonfiar  tanti 
Può  co’  fiali  supplir,  candidi  lini. 
Fugaci  olimpi,  e vagabondi  atlanti. 

Alpi  correnti,  e mobili  appennini 
Paion,  sveltì  da  terra,  e sparsi  a nuoto, 
I gran  vascelli  alla  grossezza  , ai  moto. 

Veder  fra  lami  affanni  in  tanta  guerra 
La  vergili  bella  a Citcrea  dispiacque , 
La  vergili  bella,  che  s’annida  e serra 
Tra  i lucenti  cristalli,  ov’ ella  nacque; 
Ond’  hanno  insieme  il  mar  lite,  c la  terra, 
L’una  gli  offre  le  rive,  e l’altro  T acque. 
Pugnan  con  belle  ed  ambiziose  gare 
Per  averla  tra  lor  Ja  terra , e il  mare. 


ADONE. 


Ecco  clic  gorghi  gii  di  foco,  e polve 
Vomita  il  bronzo  concavo,  e forato. 
Scoccando  sì , che  1 legni  apre  e dissolve, 
Con  fiero  bombo  il  fulmine  piombato. 
Nebbia  d’orror  caliginoso  involse 
E mare,  e ciel  da  questo , e da  quel  lato. 
Sembra  ogni  canna  (tante  fiamme  spira; 
La  gola  di  Tifco,  quando  si  adira. 

Già  vicnsi  ad  afferrar  poppa  con  poppa, 
Già  spron  con  sprone  impetuoso  cozza, 
Già  vola  il  fuso,  c il  fil,  che  Cloto  aggroppa 
1)1  mille  vite  a un  punto  Atropo  mozza. 
Spada  in  spada , asta  in  asta  urtando  in- 
toppa. 

L'acqua  già  ne  divien  squallida  e sozza, 

E del  sangue  comun  tinta , somiglia 
Del  gran  golfo  Eritreo  Tonda  vermiglia. 

L’ima  classe  nell’  altra  avventa  e scaglia 
Pregni  d'occulto  ardor  globi,  e volumi, 
Onde , mentre  più  stretta  è la  battaglia , 
Incendio  repcntin  vien  che  s’allumi. 
Scoppiai!  le  cave  palle , c fan  che  saglia 
Turbo  alle  stelle  di  faville , e fumi. 

Tra  il  bitume,  e la  pece,  e il  nitro,  e il  zolfo 
Chi  sbalza  al  cicl,chi  sdrucciola  nel  golfo. 

Scorre  Vulcano,  e mormorando  rugge, 
E tra  i ruggiti  suoi  vibra  la  lingua. 
Gabbie  intorno,  e castella  arde  c distrugge, 
Nè  sa  Nettuno  ornai , come  l'estingua. 
L'esca  del  sangue,  che  divora  e sugge , 
Alimento  gli  porge , onde  s’ impingua. 
Vince,  trionfa,  e con  la  man  rapace 
Depreda  il  tutto  imperioso,  e sface. 

In  ben  mille  piramidi  vedresti 
Sorger  la  fiamma  dagli  ondosi  campi , 
Alzar  le  punte , ed  a quel  venti,  e questi 
Crollar  le  corna,  e scaturirne  i lampi. 
Tra  sì  fieri  spettacoli,  e funesti  [pi. 
Par  che  la  fiamma  ondeggi,  e l'onda  avvam- 
par che  torni  alla  lite,  onde  pria  nacque , 
Fatto  abisso  di  foco , il  del  dell'  acque. 

L' eccelse  poppe , c le  merlate  rocche 
Son  cangiate  in  feretri , c fatte  tombe. 
Con  rauche  voci , e con  tremende  boccile 
Romoreggian  tamburi , e stridon  trombe. 
Lanciansi  i dardi , e votansi  le  cocche , 
Yibransi  Paste,  e rotansi  le  frombe, 

Chi  muor  trafitto,  e chi  mal  vivo  langue, 
Solcan  laceri  busti  il  proprio  sangue. 

Tremendi  casi , la  spietata  zuffa 
Mesce  di  ferro  In  un , d’acqua , e di  foco. 
Chi  nel  fondo  del  pelago  s'attuffa, 

Chi  del  sale  spumante  è fatto  gioco , 


Chi  galleggia  risorto,  e il  flutto  sbuffa, 
Chi  tenta  risalir,  ma  gli  vai  poco. 

Che  ricade  ferito,  ed  a versare 

Vien  di  tepido  sangue  un  mar  nel  mare. 

Strepito  di  minacce , e di  querele , 

Di  percosse,  e di  scoppi  i lidi  assorda. 
Altri  con  man  delle  squarciate  vele 
S’altien  sospeso  in  aria  a qualche  corda, 
Ma  giunto  dall'arsura  empia  e crudele 
Vassi  a precipitar  nell’onda  ingorda, 
Onde  con  strana  e miserabil  sorte 
Prova  quattro  clementi  in  una  morte. 

Or  quando  più  crudel  bolle  la  guerra  , 
E va  baccando  la  discordia  stolta, 
Quando  di  qua  di  là  l’onda,  e la  terra 
Tutta  è nel  sangue , e nell’  orrore  involta  ; 
Ecco  del  fior  Bifronte  il  tempio  serra 
Colui  clic  anco  il  serrò  la  prima  volta. 
Placa  gli  animi  alteri , c fa  che  cada 
L’ ira  dai  cori , e dalla  man  la  spada. 

E per  fermar  con  sempre  stabil  chiodo 
La  pace  che  è gran  tempo  ita  in  esigilo, 
Cristina  bella  in  sacrosanto  nodo 
Stringe  del  re  dei  monti  a)  maggior  figlio. 
Vcdrassl  il  groppo , onde  si  gloria  Rodo , 
Insieme  incatenar  la  palma,  e il  giglio. 
E tu  di  gigli  allor,  non  più  di  rose 
Tesserai , Dea  d' amor , trecce  amorose. 

Già  d’ età.  già  di  senno , e già  cresciuto 
Tanto  è di  forze  il  giovinetto  Augusto, 
Clie  otlicn  dei  pari  amabile , c temuto 
Vanto  di  buono,  c titolo  di  giusto. 

Ma  T orgoglio  dei  principi  abbattuto 
Sorge  ancor  più  superbo , c più  robusto , 
E il  bel  regno  da  lor  stracciato  a brani 
Rassomiglia  Atteon  tra  i propri  cani. 

Movesi  all’  armi , c ne  va  seco  armato 
Enrico,  Il  primo  fior  del  regio  seme, 
Quei , che  pur  dianzi  andò,  quasi  sdegnato, 
Co’  mcn  fedeli  a collegarsi  insieme. 
Sdegno  fu,  ma  fu  lieve  ; or  che  allo  stato 
Del  gran  cugino  alto  periglio  ei  teme, 
Gli  sovvien  quando  è d’ uopo  in  tanta  im- 
Di  consiglio,  d’ aiuto , c di  difesa,  [presa 

Va  con  poche  armi  ad  assalir  la  fronte 
Dei  nemici  dispersi , e li  sorprende. 

Non  vedi  Can , che  volontarie , e pronte 
Gli  disserra  le  porte,  e gli  si  rende? 
Vedi  di  Sei  nel  sanguinoso  ponte 
Quante  squadre  imbelle  a terra  stende. 
Poi  per  domar  la  scellerata  setta 
Ver  r estrema  Biarne  il  campo  affretta. 

Cede  lo  sfono,  e l' impeto  nemico, 


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1 


POEMI  EROICI. 


Ingombra  Navarrln  terrore  e gelo. 

Gii  %’entra,  e nell' entrarli  il  re  ch'io 
>on  meli  elle  ili  lalors'  arnia  di  zelo,  [dico, 
Rende  ai  distrutti  altari  il  cullo  antico, 

A si  stesso  l'onor,  ia  gloria  al  cielo. 
Ogni  passo  è vittoria,  ovunque  ei  vada , 

E vince  senza  sangue,  e senza  spada. 
Qual  uom,  che  pigro  e sonnacchioso 
dorme , 

Giace  col  corpo  in  sulle  piume  molli , 
Con  l'alma  del  pensier  seguendo  Torme, 
Varca  fiumi , e foreste , e piani , e colli  ; 
Tal  rivolgendo  Adon  gli  occhi  alle  forme, 
Della  cui  vista  ancor  non  son  satolli , 
Non  sa  se  vede,  o pargli  dì  vedere 
Tra  lumi , ed  ombre  immagini  e chimere. 

Mentre  eli’  ci  pur  dei  simulacri  accolti 
Nel  mondo  crislallin  l' opre  rimira , 

Del  silenzio  in  tal  guisa  : nodi  hasciolli 
I.'  alto  inventor  della  celeste  lira. 

Sappi , che  dietro  a molti  corsi  e molti 
Del  gran  pianeta  che  il  quar -l'orbe  gira, 
Priachcabbia  effetto  il  ver  staranno  asco- 
I.e  qui  tante  da  te  vedute  cose.  [se 
Ma  quei  successi,  elle  ancor  chiude  il 
L’ Ilo  voluto  mostrar,  come  presenti, [fato, 
Acciocché  miri  alcun  fatto  onorato 
Delle  più  degne  e gloriose  genti. 


Fin  qui  Giove  permette,  e non  m' è dato 
Più  in  Ih  scoprirti  dei  futuri  eventi. 

Or  tempo  è da  fornir  T opra  che  resta , 
Vedi  il  Sol , che  nel  mar  china  la  testa. 

Vedi  che  armata  di  argentati  lampi 
Per  le  campagne  del  suo  elei  serene 
La  stella  inferior,  che  ornai  degli  ampi 
Spazi  dell'  orizzonte  il  mezzo  tiene. 
Mentre  dell'  aria  negli  aperti  campi 
A combatter  coi  di  la  notte  viene, 
Prende  aschlerar  delle  guerriere  ardenti 
I numerosi  eserciti  lucenti. 

Lungo  troppo  il  cammino, e breve  6 Torà, 
Onde  convicn  sollecitare  il  passo , 

Per  poter,  raccorciata  ogni  dimora, 
Tornar  per  T orme  nostre  al  mondo  basso. 
Perocché  il  suo  bel  lume  ha  gii  l’ Aurora 
Due  volte  acceso,  ed  altrettante  casso 
Da  che  partimmo,  e qui  (fuorché  a felice 
Gente  immortale)  il  troppo  star  non  lice. 

Cosi  Mercurio  ; e l'altro  allor  dintorno 
Dovei’  occhio  il  traea  .volgendo  il  piede. 
Le  ricche  logge  dell’  albergo  adorno 
Di  parte  in  parte  a contemplar  si  diede. 
E da  clic  prese  a tramontare  il  giorno. 
Clic  Ivi  all’  ombra  però  giammai  non  cede 
Non  seppe  mai  da  tal  vista  levarse 
Finché  l’altr’Uba  in  oriente  apparse. 


la  prigione. 


CANTO  XIII. 

ARGOMENTO. 

Tenta  la  maga  inran  Tarli  profane. 


Chi  fu , che  alla  tua  lingua,  o Zoroast  ro , 
Concesse  in  prima  autoritl  cotanta? 
Donde  apprese  il  tuo  ingegno  ad  esser  ma— 
Dell'  arte  detestabile,  che  incanta  ? [stro 
L’ arte , clic  contro  ogni  possanza  d’ astro 
Vincer  Natura,  c dominar  si  vanta? 

E come  nonno  iniqui  carmi  c rei 
Dell'  inferno , cdel  ciel  sforzar  gli  Dei  ? 

Da  qual  forza  fatai,  che  gli  corregge, 
0 da  qual  patto  son  legali  c stretti  ? 


E necessaria,  o volontaria  legge, 

Che  si  gli  rendo  altrui  servi  e soggetti? 
Quasi  chi  tutto  può,  chi  tutto  regge 
Tema  d’un  uom  disubbidire  ai  delti? 

E talento,  o timor  quel  che  gii  move 
Tant'  opre  a far  prodigiose  c nove? 

Deli  quante  volte  delle  lievi  rote. 

Che  si  volgou  si  ratto  intorno  ai  poli. 
Veduto  iia  con  slupor  restarsi  immote 
Giove  T immense  c smisurate  moli? 


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— 


ADONE. 


Quante  viti*  egli  alle  malvage  note 
Le  Lune  in  cicl  moltiplicarsi , c ì Soli  ? 
Scorrere  i tuoni  a suo  dispetto,  e i lampi, 
Scotersi  il  mondo,  c titubarne  i campi? 

Turbasi  al  suon  de'  mormorati  accenti 
L*  ordine  delle  cose , e si  confonde. 
Nettun  senza  procelle,  c senza  venti 
Gonfio,  1 lidi  del  eie]  batte  con  Tonde. 
Poi  quando  più  del  mar  fremon  gli  armenti 
Ritira  il  piè  delle  vicine  sponde; 

E ricurvando  in  su  I'  umide  fronti 
Tornan  per  T erta  i fiumi  ai  patrù  fonti. 

Ogni  fera  più  fera,  e piu  rabbiosa 
La  sua  rabbia  addolcisce  e disacerba. 
Non  è icone  allier,  tigre  orgogliosa, 
Che  non  deponga  allor  T ira  superba. 
Vomita  il  ficl  la  serpe  velenosa , 

E 1 livid’orbi  suoi  stende  per  P erba; 

E smembrata  la  vipera  e divisa 
Vive , e rintegra  ogni  sua  parte  incisa. 

Ma  com’  è poi,  che  i versi  abbian  potere 
Di  separare  l più  congiunti  cori? 

E il  commercio  reciproco , e il  piacere 
Santo  impedir  de’ maritali  amori? 

Come  dell*  alme  il  libero  volere 
Anco  scaldar  d’involontari  ardori? 

Ed  agitar  con  empie  fiamme  insane 
Di  maligno  furor  le  menti  umane? 

Falsirena  aspettò , che  piene  avesse 
Cintia  dell’  orbe  suo  le  parti  sceme , 

Ed  opportuno  alfin  quel  tempo  elesse, 
Che  congiunte  avea  già  le  corna  estreme. 
E veggendo  anco  in  ciel  le  stelle  istesse 
Seconde  all’arte  sua  volgersi  insieme, 
Nel  loco  usato  a celebrar  sen  venne 
De’  sacrilegi  suoi  P opra  solenne. 

Sorge  nel  sen  più  folto , e più  confuso 
D’  un  bosco  antico  un  solitario  altare, 

D’  alti  cipressi  incoronato , e chiuso 
Là  donde  il  Sole  orientale  appare. 
Aperto  a quella  parte,  ove  ha  per  uso 
Depor  la  luce , ed  attutarsi  in  mare. 
Opaco  orror  T ingombra , e lo  nasconde 
Sotto  perpetue  tenebre  di  fronde. 

Quivi  idoletti  vari , e simulacri 
L’innamorata  incantatrice  accolse, 

E quivi  a più  color  tre  veli  sacri 
Con  caratteri  e segni  Intorno  avvolse  ; 

E poiché  a’  membri  suoi  nove  lavacri 
D’  un’  acqua  fe* , che  da  tre  fonti  tolse, 
Discinta , e scalza  del  sinistro  piede 
Il  foco , e P ostia  ad  apprestar  si  diede. 
Con  la  casta  verbena,  il  maschio  incenso 


Le  fiamme  pria  dell’olocausto  alluma , 

E di  vapor  caliginoso  e denso 
E l’ara,  e P aria  orribilmente  afTuma. 
Poi  di  virlute  occulta  al  nostro  senso 
Dentro  il  magico  incendio  arde  e consuma 
Mille  con  falce  tronche  erbe  maligne. 
Erbe  appena  ancor  note  alle  madrigne. 

Dello  stridulo  alloro  asperse  in  esso 
Le  nere  bacche  innanzi  di  recise , 

Della  fico  selvaggia  il  latte  espresso, 

E della  felce  il  seme  ella  vi  mise. 

E la  radice , eh’  ha  comune  il  sesso 
Dell’  cringe  spinosa  anco  v’  intrise, 

E fra  gli  altri  velcn , che  dentro  v’  arse , 
La  violenta  ippomenc  vi  sparse. 

Arse  P erbe , c le  piante  ad  una  ad  una  , 
Sette  volte  T aliar  circonda  intorno. 

Tre  s’inginocchia  ad  adorar  la  Luna, 
Tre  la  contrada,  ove  tramonta  il  giorno. 
D’  una  pecora  poi  lanosa  e bruna 
Con  la  manca  tenendo  il  manco  corno 
Con  la  destra  il  coltel , tra  i fochi , e i fumi 
Trecooto  invoca  sconosciuti  Numi. 

E mentrechè  di  Stigc  c Flegctontc 
L' occulte  Deità  per  nome  appella  , 
Versa  di  nero  vino  un  largo  fonte 
Infra  le  corna  alla  dannata  agnella. 

Non  pria  però,  che  dalla  fosca  fronte 
Di  lana  un  fiocco  di  sua  man  non  svella, 
E che  noi  gitti  entro  le  bragc  ardenti 
Quasi  primi  tributi , e libamenti. 

Poscia  con  ferro  acuto  apre  c ferisce 
La  gola  all'  agna , e la  trafigge  e svena, 

E del  sangue , che  fuor  ne  scaturisce[na. 
Caldo  e fumante , un’ampia  tazza  ha  pic- 
Con  l’estremo  del  labbro  indi  il  lambisce 
Lievemente  cosi,  che  il  gusta  appena. 
Poi  con  olio , e con  mele  in  copia  grande 
Alla  madre  comune  in  sen  lo  spande. 

Una  colomba  ancor  vaga  e lasciva 
Uccise  di  candor  simile  al  latte  , 

E poiché  quante  piume  ella  vestiva 
Tarpate  T ebbe  a penna  a penna  e tratte , 
Donolle  in  cibo  a quella  fiamma  viva 
Finché  fur  tutte  in  cenere  disfatte; 

Ma  prima  le  legò  nell’  ala  manca. 

Con  rosso  fil  la  calamita  bianca. 

Ciò  fatto,  strinse  in  tre  tenaci  nodi 
Una  ciocca  di  crin , eh*  io  non  so  come 
Dormendo  Adon,  con  sue  sagaci  frodi 
Gli  tolse  Idonia  dalle  bionde  chiome. 
Sputò  tre  volle,  e in  tre  diversi  modi 
Disse  l’amante  suo  chiamando  a nome  : 

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74  POEMI 

Resti  legato,  nò  mai  più  si  scioglia 
il  crudo  sprezzator  d’ ogni  mia  doglia. 

A sembianza  di  lui  di  vergincera 
Imrnagin  poi  misteriosa  ammassa, 

E con  un  stecco  di  mortella  nera 
Ben  aguzzo  e pungente  il  cor  le  passa. 

E mentre  appo  1'  arsura  atroce  c lìera 
A poco  a poco  distillar  la  lassa. 

Dice  volgendo  ilramosccl  del  mirto: 
Cosi  foco  d’amor  strugga  il  suo  spirto. 

D’ ippopotamo  un  core  allineila  preso, 
Nella  riva  del  Mi  nato,  e nutrito , 

Che  della  nova  Luna  ai  raggi  appeso, 

Era  alla  sua  fredd’ ombra  inaridito; 

E di  faville  oltracoccnti  acceso, 

E di  spilli  acutissimi  ferito, 

L’ agi  La,  il  move,  il  trae  come  piùvolr. 
Mormorando  tra  sè  queste  parole: 

Ecco  il  cordi  colui,  eh’  io  cotant'amo. 
Ecco  eh*  io  gli  ho  seti’  aghi  in  mezzo  adissi. 
Ecco  che  il  tiro  a me  poi  con  quest'  amo 
Già  fabbricalo  sotto  sette  eclissi. 

Ecco  sette  carlini)  fatti  del  ramo. 

Che  già  colse  mia  madre  cnlro  gli  abissi , 
Desti  dal  sacro  mantice  ti  aggiungo, 

E sette  volte  intorno  intorno  il  pungo. 

Da' sacrifici  abominandi  ed  empj 
Cessò  la  fata,  e si  parti  ciò  detto. 
Perche  contro  colui,  che  duri  aoempj 
Ognor  facea  del  suo  piagato  petto. 
Sperava  pur  dopo  mill’  altri  esempi 
Di  veder  nova  prova,  e novo  effetto. 

Ma  di  tante  fatiche  al  vciito  spese 
Alcun  frutto  amoroso  indarno  attese. 

E come  per  magic  mai , nè  per  pianti 
Sperar  polca  rimedio  a si  gran  male , 

Se  la  Dea  degli  amori , c degli  amanti , 
Che  invocava  propizia  avea  rivale  ? 

Se  colei , che  ha  negli  amorosi  incanti 
Sovrano  impero,  c potestà  fatale, 

Avea  malconcia  delie  piaghe  istesse , 

In  quel  eh’ ella  chiede»,  tanto  interesse? 

Poiché  con  lungo  studio  invan  compose 
Suggelli , e rombi , e turbini , e figure. 
Nè  seppe  mai  con  queste , ed  altre  cose 
Quelle  voglie  espugnar  rigide  e dure. 
Tornossi  in  voci  amare,  e dolorose 
Con  Idouia  a lagnar  di  sue  sventure. 
Lassa  dice a le)  in  che  mal  puuto  il  guardo 
Volsi  da  prima  a que'  bei  raggi , ond’  ardo. 

Per  mia  fatai  (cred’  lo)  morte  e ruina 
Vidi  tanta  beltà  non  più  veduta. 

Inim  di  quanto  il  del  quaggiù  destina 


EROICI. 

Difficilmente  il  gran  tenor  si  muta. 

Chi  può  per  molte  scosse  in  balza  alpina 
Ben  robusta  piegar  quercia  barbuta? 
Quercia  Ch'Austro  prendendo  e Borea  a 
scherno , 

Tocca  col  capo  il  del  ,col  piè  l’inferno? 

Amo  statua  di  neve,  anzi  di  pietra. 
Pertinace  rigor,  fermo  desio. 

Egli  gela  alle  fiamme , ai  pianti  impetra. 
Nè  di  teglia  cangiar  mi  loglio  aneli’  io. 

Io  non  mi  pento , ei  non  però  si  spetra , 
Guerreggia  1’  odio  suo  con  1*  amor  mio. 

L’ uno  in  esser  nemico , c 1’  altra  amante 
Non  so  chi  di  noi  duo  sia  più  costante. 

Veggio  moversi  i monti  anco  a’  miei  ver- 
Non  ammollirsi  un'  animato  sasso.  [si, 
Talor  dei  fiumi  indietro  il  piè  conversi , 
Fermar  non  so  d'  un  fuggitivo  il  passo. 

1 mostri  umiliai  fieri  e perversi , 

Nè  di  un  altier  garzon  l’ animo  abbasso. 

Da  me  l' inferno  i stesso  è tinto  e domo , 
Nè  son  possente  a soggiogare  un  uomo. 

Semino  in  onda,  e fabbrico  in  arena. 
Persuado  lo  scoglio , e prego  il  vento. 
All’aspe  egizio,  cd  alla  tigre  armena 
Scopro  la  piaga  mia , narro  il  tormento, 
idol  crude!,  di  cui  mi  lice  appena 
Sol  la  vista  goder,  di  placar  lento. 

Se  far  potesse  a questa  alcun  riparo , 
Forse  di  questa  ancor  mi  fora  avaro. 

Pregando,  amando,  lagrimando  (ahi 
Ottener  I*  impossibile  credei.  [ folk  ! ) 
Fare  una  selce  impenelrabil  molle 
Piuttosto  che  quel  core,  io  spererei. 
Quanto  più  foco  in  me  vede  che  bolle. 
Tanto  schernisce  più  gli  affanni  miei. 
Eppur  volta  ad  amar  bellezze  ingrate. 

Di  chi  mi  fa  doler  prendo  pietatc. 

Nè  per  tante  repulse  io  lascio  ancora 
Di  correr  dietro  all’ ostinate  voglie. 

Ogni  altra  donna  alita , che  s' innamora , 
Sebbene  il  morso  all’onestà  discioglie. 
Pur  sfogando  il  marlir,  che  l’addolora. 
Premio  della  vergogna,  il  piacer  coglie. 
Io  senza  alcun  diletto  averne  tolto 
Sol  della  propria  infamia  il  frutto  ho  coito. 

Vendo  la  libertà,  compro  il  dolore. 
Serva  son  di  colui , che  in  career  chiudo, 
E pago  a prezzo  d’ anima , e di  core 
Pianti,  c sospir,  che  il  fanno  oguor  più  cru- 
Da  così  caldo , e così  saldo  amore  [ do. 
Qual  mai  potrebbe  adamantino  scudo. 
So  non  solo  quel  petto  andar  securo , 


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ADONE.  75 


Altrui  tenero  forse,  a me  sì  duro? 

0 beata  colei,  che  il  cor  gl’impiaga. 
Felici  quei  begli  occhi , onde  arde  tanto. 
Quanto  o quanto  sarei  d’intender  vaga 
Chi  sia  costei,  che  ha  di  tal  grazia  il  vanto  ! 
Ma  di  pietra  per  certo , o d’erba  maga 
Egli  in  sè  cela  alcun  possente  incanto , 
Poiché  giovan  sì  poco  a far  che  mi  ami 
Maiìe  tenaci , o magici  legami. 

Lungamente  sospeso  ( Idonia  dice  ) 
Tenuto  ha  questo  dubbio  il  mìo  pensiero. 
Ma  tu  che  badi  ? ed  a cui  meglio  lìce 
Spiar  di  un  tal  secreto  il  fatto  intero? 
Potrai  ben  tu  de’  fati  esploratrice 
Sforzar  gli  abissi  a confessarti  il  vero. 
Tu,  che  sì  dotta  sei  nell’ arti  ascose, 

E sai  cotanto  dell’ oscure  cose. 

Qui  tace,  ed  ella  allor,  che  ben  possiede 
Quante  ha  Tessaglia  incognite  dottrine, 
Non  già  di  Dolo  i tripodi  richiede, 

Non  di  Delfo  ricorre  alle  cortine , 

Non  dì  Dodona  ai  sacri  boschi  il  piede 
Volge  per  supplicar  querce  indovine , 
Non  a qualunque  oracolo  facondo 
Abbia  più  chiaro,  e più  famoso  il  mondo. 

Non  il  moto,  e il  color  cura  degli  csti 
Nell’ ostie  investigar  dei  sacrifici. 

Nè  degli  augei  le  cal  giocondi , o mesti 
Secondo  il  volo,  interpretar  gii  auspirj, 
Nè  destri , o manchi  1 fulmini  celesti 
Osserva , o sieno  Infausti , o sien  felici , 
Nè  specolando  va  le  stelle , e i cieli , 

Ma  più  tacite  cose,  e più  crudeli. 

Notte  era,  allor  che  dal  diurno  moto 
Ha  requie  ogni  pensier,  tregua  ogni  duolo, 
L'onde  giacean,  tacean  Zefliro,  e Noto, 
E cedeva  il  quadrante  all’oriuclo, 

Sopìa  l'uom  la  fatica.  il  pesce  il  nuoto. 
La  fera  il  corso,  e l’ augelletto  il  volo, 
Aspettando  il  tornar  del  novo  lume 
0 tra  V alghe,  o tra  i rami,  o sulle  piume. 

Quand*  ella  prese  a proferir  possenti 
Con  lungo  mormorio  carmi,  c parole; 

E bisbigliando  i suoi  profani  accenti , 
Atti  a fermar  nel  maggior  corso  il  Sole, 
Il  corpo  5*  impinguò  di  quegli  unguenti , 
Onde  volar,  qual  pipistrello  suole, 

E per  la  cui  virtù  spesso  si  è fatta 
Cagna,  lupa,  leonza,  istrice,  c gatta,  [ro, 

Sovra  un  monton  vieppiù  che  corvo  nc- 
Che  la  lana , eia  barba  ha  folti  e lunga. 
Monta , ed  acconcio  ad  uso  di  destriero , 
Vuol  che  in  brev'  ora  a Babilonia  giunga. 


Quel  piu  che  alato  folgore  leggiero 
Per  1*  aria  va , senza  che  sprone  11  punga. 
Ella  alle  corna  attiensl,  e non  le  lassa, 
Cavalca  1 nembi , e i turbini  trapassa. 

Nata  tra  quel  soldano  era  pur  dianzi , 

E il  re  d’ Assiria  aspra  discordia  e dura , 

E venuti  a giornata  il  giorno  innanzi  , 
Colma  di  morti  avean  la  gran  pianura. 
Giacean  de’  busti  i non  curati  avanzi 
Sparsi  sossopra  in  orrida  mistura, 

E gonfio  con  le  corna  insanguinate 
A lavarsi  nel  mar  correa  l’ Eufrate. 

Le  campagne  dintorno,  e le  foreste 
Son  di  tronchi  insepolti  ingombre  e piene» 
Veggionsi  tutte  in  quelle  parti  e in  queste 
Porporeggiar  le  spaziose  arene , 

Fatte  d’esca  crudel  mense  funeste 
A lupi  ingordi , ed  altre  fere  oscene , 

Che  a monte  a monte  accumulate  in  terra 
Le  reliquie  a rapir  van  della  guerra. 

Ma  dalla  maga,  che  dal  del  discende, 
Son  le  delìzie  lor  turbate  e rotte. 

Onde  lasdate  le  vivande  orrende , 
Fuggon  digiune,  c timide  alle  grotte. 
Ella  di  fosche  nubi,  e fosche  bende. 

Che  raddoppiano  tenebre  alla  notte, 
Avvolta  il  capo,  inviluppata  i crini. 

Di  quel  tragico  pian  scorre  i confini. 

Per  que'  campi  di  sangue  umidi  e tinti 
Vassene  col  favor  dell'  ombra  cheta, 

E la  confuslon  di  tanti  estinti 
Volge  e rivolge  tacita  e secreta  ; 

E mentre  de’ cadaveri  indistinti, 

A cui  l’onor  del  tumulo  si  vieta, 
Calcando  va  le  sanguinose  membra) 
Oscura  cosa , c formidabil  sembra. 

Non  so  se  in  vista  si  tremenda  e rea 
Là  nella  notte  più  profonda  e muta 
Per  la  spiaggia  di  Coleo  uscir  Medea 
1/  erbe  sacre  a raccor  fu  mai  veduta , 
Quand’  ella  già  rinnovellar  volea 
Del  padre  di  Giason  l’ età  canuta. 

Atropo  forse  sola  a lei  s’  agguaglia 
Qualor  d’ alcun  mortai  lo  stame  taglia. 

Scelse  un  meschin  di  quella  mischia  sol- 
Che  passato  di  fresco  era  di  vita.  [za , 
Intero  il  volto,  intera  avea  la  strozza. 

Ma  d’ un  troncon  nel  petto  ampia  ferita. 
Se  sia  guasto  il  polmon , se  rotta  o mozza 
Sia  l’ aspra  arteria , ond’  ha  la  voce  uscita. 
Prendendo  a perscrutar,  trova  la  maga. 
Che  ha  le  viscere  intatte , e senza  piaga. 

Pende  il  fato  da  lei  di  moia  uccisi , 


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76  POEMI 

Che  dell’  alta  sentenza  in  dubbio  stanno , 

E qual  di  tanti  dai  mortai  divisi 
Voglia  alla  luce  rivocar,  non  sanno. 

Se  vuol  tutti  annodar  gii  stami  incisi, 
Convien  che  ceda  rinfeinal  tiranno. 

E le  leggi  dell'  Èrebo  distrutte. 

Benda  alle  spoglie  lor  l' anime  tutte. 

Or  del  misero  corpo , a cui  prescritta 
L’ ultima  linea  ancor  non  era  in  sorte. 
Lubrico  Intorno  al  collo  un  laccio  gitta, 
E con  groppi  tenaci  il  lega  forte. 

Indi  acciocché  più  lacera  c trafitta 
Resti  la  carne  ancor  dopo  la  morte , 

Fin  dov’entra  nel  monte  un  cupo  speco 
Su  per  sassi,  e per  spine  il  tira  seco. 

Fendesi  il  monte  in  precipizio , e sotto 
Apre  la  cava  rupe  antro  profondo, 

Che  arriva  a Dite,  e discosceso  e rotto 
Vede  I confin  dell’ un  e l’altro  mondo. 
Quivi  il  mesto  cadavere  è condotto. 
Loco  sacro  per  uso  al  culto  immondo , 

Nel  cui  grembo  giammai  non  s’ introduce 
Se  non  fatta  per  arte , ombra  di  luce. 

Nel  sen  , che  quasi  ancor  tepido  langue, 
Fa  nove  piaghe  allor  la  man  perversa. 

Per  cui  levando  il  già  corrotto  sangue , 

Il  vivo , e il  caldo  In  vece  sua  vi  versa. 

Gli  sparge  ancora  in  ogni  vena  esangue 
Di  varie  cose  poi  tempra  diversa. 

Gò  che  di  mostnioso  iniqua,  o di  tristo 
Partorisce  Natura,  entro  v’ha  misto. 

Della  Luna  la  spuma  ella  vi  mesce , 
La  bava,  quando  in  rabbia  entra  il  inastino 
E il  ilei  vi  mette  del  minuto  pesce. 

Che  il  volo  arresta  del  fugace  pino. 
Ponvi  l'onda  del  mar  quando  più  cresce, 
E di  Cariddi  il  vomito  canino, 

E dell*  unico  augello  orientale 
Il  redivivo  cenere  immortale. 

L'incorruttibil  cedro,  e l’amaranto, 
L’ immortai  mirra,  e il  balsamo  v*  interna , 
La  feconda  virtù  del  grano  Infranto, 

E della  fera  fertile  di  Lerna. 

Del  fegato  di  Tizio  ancor  alquanto. 

Che  sè  medesmo  rinascendo  eterna , 

E del  seme  del  bombice  v’  ha  messo , 
Verme  possente  a suscitar  sé  s esso. 

Il  ccrebro  dell’  aspido  vi  stilla , 

E la  midolla  del  non  nato  infante, 

E del  nido  aquilino,  onde  rapida, 

VI  pon  la  pietra  gravida  e sonante. 
Hawl  P occhio  del  lince,  e le  pupilla 
Del  basilisco,  e del  dragon  volante, 


EROICI. 

Dell’  lena  la  spina,  e la  membrana 
Della  cerasta  orribile  africana. 

Le  polpe  del  biscion , clic  nel  mar  Rosso 
Guarda  la  preziosa  margherita 
Infra  I’  altre  sostanze  , c insieme  P osso 
Del  Ubico  chelidra  anco  vi  trita. 

La  pelle  v’  è , eli*  ha  la  cornice  addosso 
Dopo  ben  nove  secoli  di  vita; 

Nè  vi  mancan  le  viscere  col  sangue 
Del  cervo  alpin,  che  divorato  ha  P angue. 

Ferri  di  ceppi , e pezzi  di  capestri. 

Fili  arrotati  di  rasoi  taglienti, 

Punte  d'aguzzi  chiodi , c sangui , e mostri 
Di  donne  uccise,  e di  svenate  genti. 

De’  fulmini  la  polve,  e degli  alpestri 
Ghiacci  il  rigore,  c gli  aliti  de'  venti, 

E i sudori  del  Sol,  quand’arde  luglio 
Vi  distempra  confusi  in  un  mescuglio. 

V*  aggiunse  d'Etna  P orride  faville. 

Di  Fiegra  I zolfi , e di  Cerauno  I fumi. 

Del  gran  Cocito  le  cocenti  stille. 

Del  pigra  Asfalto  1 fervidi  bitumi , 

K di  mill'  altri  ingredienti  c mille 
Abominande  fece,  empj  sozzumi. 
Infamie,  e pesti , onde  la  maga  abbonda. 
Incorporò  nella  mistura  immonda. 

Poiché  tai  cose  tutte  insieme  accolte 
Nelle  fibre,  e nel  core  infuse  gli  ebbe , 

E dal  suo  sputo  infette  altr'crbe  molte 
Virtuose  c mirabili  v*  accrebbe, 

Sovra  il  corpo  incurvossi , e sette  volte 
Inspirò  il  fiato  a chi  risorger  debbo. 

Al  miraeolo estremo  alfin  s’  accinse, 

E il  proprio  spirto  ad  animarlo  astrinse. 

Vestesi  pria  di  tenebrose  spoglie. 

Poi  prende  nella  man  verga  nefanda. 

Ed  alle  chiome , clic  in  sui  tergo  accoglie , 
Fa  d' intrecciate  vipere  ghirlanda. 
Vieppiù  clic  altra  efficace  indi  discioglie 
La  fiera  voce,  che  a Pluton  comanda, 

E move  ai  detti  suoi  sommessa  e piana 
Lingua , che  assai  discorde  é dall'  umana. 

De'  cani  imita  i queruli  latrati. 

Ed  esprime  de’ lupi  i rauchi  suoni. 
Formai  gemili  orrendi,  e gli  ululali 
Delle  strigi  notturne,  e de’  buboni, 

1 fischi  de* serpenti  infuriali, 

Gli  spaventosi  strepiti  de’  tuoni , 
Dell’aeque  il  pianto, il  fremer  delle  fronde. 
Tante  voci  una  voce  in  sè  confonde. 

L’ aer  puro  e scren  s’ ingombra  c tigne 
A quel  parlar  di  repentina  eclisse. 
Veggionsi  lagrirnar  stille  sanguigne 


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ADONE.  77 


L’ alte  luci  del  del  mobili  e fisse , 

Bendò  fascia  di  nubi  atre  e maligne 
Come  la  terra  pur  la  ricoprisse, 

E le  vietasse  la  fraterna  vista , 

Della  candida  Dea  la  faccia  trista. 

Dopo  i preludi  di  un  susurro  interno 
Seco  pian  pian  soniiuortuorato  alquanto , 
Cominciando  a picchiar  I*  uscio  d’Avemo, 
In  più  chiaro  tenor  distinse  il  canto. 
Tartareo  Giove , che  del  foco  eterno 
Beggi  l’ impero,  c dell’  eterno  pianto. 

Al  cui  scettro  soggiace , al  cui  diadema 
Tutto  il  volgo  dell’  ombre  e serve , e trema. 

Perscfone  triforme,  Ecale ombrosa , 
Donna  dell’  Orco  pallido , e profondo , 

Al  più  crudo  fralel  congiunta  in  sposa 
De’  tre  monarchi , ond’  è diviso  il  mondo. 
Notte  gelida , pigra , c tenebrosa , 

Figlia  del  Cao  confuso  ed  infecondo, 
timida  madre  del  tranquillo  Dio, 
Dell’orror,  del  silenzio,  e dell'oblio. 

Dive  fatali , c rigorosi  Numi , 

Che  sedete  a filar  i’  umane  vite, 

E novo  stame  a chi  già  chiusi  ha  i lumi 
Per  di  novo  spezzarlo,  ancora  ordite. 
Oocito,  e tutti  voi  perduti  fiumi, 

Voi  clic  irrigate  la  città  di  Dite. 

Dolenti  case,  antri  nemici  al  Sole, 
Aprite  il  passo  all’  alte  mie  parole  : 

0 regi , e voi  delle  malnate  genti 
Conoscitori , ed  arbitri  severi , 

Che  a giusti , e del  fallir  degni  tormenti 
Condannate  gli  spirti  iniqui  e neri. 

E voi  ministre  ai  miseri  noceti  ti 
Di  supplici , di  strazj  acerbi  e fieri , 
Vergini  orrende,  che  gli  sligj  lidi 
Fate  sonar  di  disperati  stridi  ; 

E tu  vecchio  nocchicr , che  altrui  fai 
A quelle  region  malvage  c crude , [scorta 
Solcando  l' onda  ognor  livida  e smorta 
Della  bollente  e fetida  palude. 

E tu  vorace  can , che  in  sulla  porta 
Delia  gran  reggia , ove  ogni  mal  si  chiude , 
Perchè  chi  v’  entra  più  non  n’  esca  mai , 
Contro  bocche , e sei  luci  in  guardia  stai. 

Se  voi  sovente  ne*  miei  sacri  versi 
Con  labbra  pur  contaminate  invoco , 

Se  mai  di  sangue  uman  grate  v*  offersi, 
Vittime  impure  in  esecrabil  foco. 

Se  la  minugia  dei  bambin  dispersi , 

E dal  materno  sen  tratti  di  poco, 

Posi  gli  aborti  in  sulla  mensa  ria , 
Assistete  propizi  all'opra  mia. 


Già  rltor  non  pretendo  al  regni  vostri 
Le  possedute,  c ben  dovute  prede. 

Nè  spirto  avvezzo  a conversar  tra  mostri 
Per  lungo  tempo , oggi  per  me  si  chiede. 
Quel  che  dimando,  de’  temuti  chiosili 
Pose  pur  dianzi  in  sulle  soglie  il  piede , 

E di  questa  vi  tal  luce  serena 
Ha  quasi  i raggi  abbandonati  appena. 

Non  nego  a Morte  sua  ragion , nè  deggio 
Del  giusto  dritto  defraudar  Natura. 

Sol  delle  stelle , e non  del  Sol  vi  chcggìo 
Si  conceda  a costui  piccola  usura. 
Godan  quegli  occhi , che  velati  or  veggio 
Di  caligine  cieca , e d’ ombra  oscura , 
Poiché  per  sempre  pur  chiuder  gli  deve , 
Di  poca  luce  un’  intervallo  breve. 

Odi  spirito  ignudo,  anima  errante. 

Odi , e ritorna  al  tuo  compagno  antico. 
Solo  qual  sia  l' amor,  qual  sia  1'  amante 
Kivela  a me  del  mio  crudcl  nemico. 
Diedi  subito  al  loco,  ove  eri  innante, 
Dato  che  avrai  risposta  a quant'  io  dico. 
Hi  torna  alma  raminga,  e fuggitiva. 

Hi  vesti  il  manto , e il  tuo  consorte  avviva. 

Ciò  detto , non  lontan  mira , ed  ascolta 
Del  trafitto  guerrler  l’ombra  che  geme. 
Perchè  del  carccr  primo , onde  fu  tolta , 
Tra' nodi  rientrar  paventa  e teme. 

Enei  petto  squarciato  un’altra  volta 
Hiabilar  dopo  1*  cssequie  estreme. 

Chi  fin  laggiù  ( prorompe)  in  riva  a Lete 
Mi  turba  ancor  la  misera  quiete? 

Lasso , echi  della  spoglia,  ond’  io son 
carco , 

L’odiato  peso  a sostener  m’ affretta? 
Dunque  contro  il  dcstln  severo  e parco 
11  fil  tronco  a saldar  Cloto  è costretta? 
Deh  eh’ io  ritorni  per  l’ombroso  varco 
Alla  requie  interrotta  or  si  permetta. 
Miser,  qual  fato  sì  mi  sforza  e lega , 

Che  di  poter  morire  anco  mi  nega? 

Ch*  e!  sia  sì  poco  ad  ubbidir  veloce 
La  donna  spiritai  disdegno  prende , 
Onde  con  sferza  rigida  e feroce 
Di  viva  serpe  il  morto  corpo  offende. 
Poi  con  più  alla,  e più  terrlbll  voce 
Solleva  il  grido,  che  sotterra  scende, 

E penetrando  1 più  profondi  orrori 
Minaeria  all*  alma  rea  pene  maggiori. 

Su  su  chè  tardi  ad  Informar  quest’  ossa? 
Qual  più  forte  scongiuro  ancora  attendi  ? 
Credi,  che  nell’abisso,  e nella  fossa 
Non  ti  sappia  arrivar , se  mel  contendi? 


78  POEMI 

0 che  esprimer  que’  nomi  or  or  non  possa 
laudili,  ineffabili,  tremendi. 

Che  venir  ti  faranno  a me  davante 
Ciò  eh’  io  t’ Impongo , ad  eseguir  treman- 
Megera,  e voi  della  spietata  suora  [te? 
Suore  ben  degne,  e degne  Dee  del  male. 
M’udite? a cui  pari*  lo?  (anta  dimora 
Dunque  vi  lìce?  e si  di  me  vi  cale? 

E non  venite  ? e non  traete  ancora 
Fuor  dei  penoso  baratro  infernale 
Da  serpenti  agitata,  e da  facelle, 

L’  alma  infelice  a riveder  le  stelle? 

Io  vi  farò  delle  magion  notturne 
A forza  uscir  di  scosse,  e di  flagelli. 

VI  seguirò  per  ceneri,  e per  urne. 

Vi  scarcerò  da’  roghi , e dagli  avelli. 
Sarete  voi  si  sorde  e taciturne , 

Quand*  io  co’  propri  titoli  v’appelli? 

0 con  note  più  fiere  ed  esecrande 
In  vocar  deggio  pur  quel  nome  grande? 

A tai  detti  ( o prodigio  ! ) ecco  repente 
Il  sangue  intepidir  gelido  e duro, 

E le  vene  irrigar  d’umor  corrente. 

Che  già  pur  dianzi  irrigidite  furo, 
Ripidi  di  spirto,  c d'alito  vivente 
Movesi  già  l’immobil  corpo  oscuro. 

Già  già  palpila  il  petto,  ed  ogni  fibra 
Ne*  freddi  polsi  si  dibatto  e vibra. 

I nervi  stende  a poco  a poco , e sorge , 
E comincia  ad  aprir  V egre  palpebre. 
Torna  il  calor,  ma  somministra  c porge 
Alle  guance  un  color,  eh’  è pur  funebre. 
Pallidezza  si  fatta  in  lui  si  scorge , 

Che  somiglia  squaEIor  si  lunga  febre; 

E con  la  morte  ancor  confusa  e mista 
Giostra  la  vita , clic  pian  pian  racquìsta. 

Di'  di' (die*  olla  allor  i per  cui  si  strugge 
Colui , per  cui  mi  struggo?  alzati , e dillo. 
Qual  il  cor  fiamma  gli  consuma  e sugge? 
Qual  laccio  il  prese  ?e  quale  strai  ferillo? 
Dimmi , ond’  avvien , che  più  m’ aborre  c 
fogge,  [lo? 

Quanl’io  più  il  seguo,  c più  per  lui  sfavil- 
Se  fia  mai  che  si  muti , e quando , e come 
Narra,  e dimmi  del  tutto  il  loco,  e il  nome. 

Se  avverrà , clic  tu  chiaro  il  ver  mi  sco- 
Non  come  fan  gli  oracoli  dubbiosi,  [pra, 
Degna  mercè  riceverai  dell’opra 
In  virtù  de’  mìei  versi  imperiosi. 

Farò,  che  più  non  tornerai  di  sopra. 

Nè  più  verrà  chi  rompa  i tuoi  riposi. 

Da  chiunque  incantar  ti  vorrà  mai 
Franco  per  tutti  i secoli  sarai. 


EROICI. 

Cosigli  dice , c carme  aggiunge  a que- 
sto, 

Pcrcui  quant’  ella  vuol , saver  gli  ha  dato. 
Quei  sparge  alfine  un  flebll  suono  e mesto , 
Articolando  in  tal  favella  il  fiato:  [nesto. 
Non  io,  non  già  nel  mondo  empio  e fu- 
Donde,  giunto  pur  or,  son  richiamato , 
Delle  Parche  mirai  gli  atri  secreti. 

Nè  vi  lessi  del  Fato  i gran  decreti. 

Pur  quanto  sostener  potè  il  brev’  uso 
D’  una  fugace  e momentanea  vita, 

Dirò  ciò  che  d’ udirne  oggi  I aggi  uso 
Mi  fu  permesso  innanzi  alla  partita. 

Oggi  ho  di  quel,  eh’ a tua  notizia  è chiuso. 
Dall’  empia  Gelosia  l’istoria  udita; 
Dall’empia  Gelosia,  furia  perversa, 

Che  con  l’ altre  talor  furie  conversa. 

Disse,  che  il  bel  garzon , eli’  a te  si  piac- 
Echedeli’amor  tuo  cura  non  piglia,  [que. 
Dal  re  di  Cipro  è generalo , e nacque 
Per  fraudo  già  dell’  impudica  figlia. 

Ama  la  bella  Dea  nata  dell’  acque, 

Ella  solo  il  protegge , ella  il  consiglia  ; 

E sebben  or  se  n'  allontana  e parte , 
Ama  pur  tanto  lui,  che  n’odia  Marte. 

Marte  di  sdegno  acceso , e di  furore 
Morte  già  gli  minaccia  acerba  e rea; 
Onde  se  è l’anior  tuo  sterile  amore  , 
Infausto  anco  è 1’  amor  di  Citerea. 
Volger  ricusa  alle  tue  fiamme  il  core. 
Perchè  fissa  vi  tieu  l’amata  Dea. 

Poi  coiai  gemma  lo  difende  c guarda , 

Cb’ esser  non  può,  che  d’altro  foco  egli 
arda. 

E poiché  tu  con  fiero  abuso  c rio 
Dell’  arti  tue  mi  togli  ai  regni  bassi, 

E per  un  curioso,  e van  desio 
Fai  che  Stigc  di  novo  a forza  io  passi , 
Nè  men  crudel,  clic  all’  alma,  al  corpo  mio. 
Ucciso  ancor,  d’ uccidermi  non  lassi , 
Ascolta  pur , eh’  lo  voglio  ora  scoprirti 
Quei  che  non  intendea  prima  di  dirti. 

Permette  il  giusto  ciel  per  questo  scem- 
E per  r audacia  sol  del  tuo  peccato , [pio. 
Che  osò  con  strano  e non  udito  esempio 
Sforzar  Natura,  e violare  il  Fato, 

Che  non  s*  adempia  inai  del  tuo  cor  empio 
Il  malvagio  appetito  e scellerato. 

Nè  te  l’amato  bene  amerà  mai , 

Nè  tu  del  bene  amato  unqua  godrai. 

Più  non  diss’  egli , e ciò  la  maga  udito  * 
Di  geloso  dispetto  ebbra  s’accese, 

E il  busto  in  negra  pira  incenerito. 


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ADONE.  79 


Alfin  più  di  morir  non  gli  contese. 
Ritornò  pur  quel  misero  ferito 
Poiché  i terra  ricadde , e si  distese , 
Mandando  l' ombra  alle  tartaree  porte , 
Dopo  due  site  alla  seconda  morte. 

Ma  giù  si  apre  il  glardin  dell'  Orizzonte, 
Già  Glori  il  elei  di  fresche  rose  Infiora , 


Già  l’ Oriente  il  piano  intorno,  e il  monte 
D’ ostro,  c di  luce  imporpora  ed  indora; 
E già  con  1'  Alba  a piè , col  Giorno  in  fronte 
Sovra  un  nembo  di  folgori  l' Aurora 
Per  l’ aperte  del  del  fiorite  vie 
Ea  le  stelle  fuggir  dinanzi  al  die. 


CIIIABRERA. 


DELLE  GUERRE  DE’  GOTI. 


CANTO  V». 


ARGOMENTO. 

Steso  è Ridolfo  al  piano , a Flavia  ardila 
L' alma  da]  brando  di  Yitellio  è sciolta  : 
Getuiio  cerca  Idalia,  a cui  la  vita 
Vitellio  diè , ma  liberiate  ha  tolta  : 

Poi  da  un  latin  guerrìcr,  che  sua  ferita 
Terge  nel  fiume,  ov’  è sua  donna  ascolta. 
L'uno  all’altro  in  amor  suoi  casi  espone, 
Notte  a Vitellio  vincitor  s'oppone. 


Qual  il  mostro,  eh’  aver  mirò  Tessaglia 
L’ umane  membra  alle  ferine  inneste. 
Pria  che  dappresso  l’ inimico  assaglia , 

Fa  col  corso  tremar  monti,  c foreste; 
Colai  a rinfrescar  l’aspra  battaglia 
Venia  correndo  il  cavalicr  celeste, 

E volgendo  la  vista  ai  fier  sembianti , 
Slavan  da  lungo  i barbari  tremanti. 

Ed  ci  dovunque  i torbid’ occhi  gira, 
Vede  il  campo  d’Italia  in  fuga,  e vinto, 

E pur  dappresso,  e sotto  i piè  si  mira , 
Del  sangue  amico  ogni  sentier  dipinto. 
Allor  s’ affretta  dal  dolor,  dall’  ira , 

Alla  vendetta,  alla  vittoria  spinto, 

Nè  prima  ’1  corso  agl'inimici  appressa. 
Che  la  primiera  gente  in  fuga  è messa. 

Nè  spinto  in  mezzo  poi  forze  nimiche 
Men  caduche  ritrova  a suoi  furori , 

Che  qual  fendendo  le  campagne  apriche, 
Parte  l' aratro  languidcttl  i fiori  ; 

0 qual  troncar  le  biancheggianti  spiche 
Suol  mlctitor  sotto  gli  estivi  ardori , 

Egli  in  vendetta  degli  amici  offesi. 

Parila  l' umane  membra , e i duri  arnesi. 


11  duce  allor,  che  l’infinita  gente. 
Imperioso  alla  battaglia  guida. 

Tutto  di  sdegno,  e di  vergogna  ardente. 
Crolla  le  tempie , alza  le  mani , e grida  : 

0 pur  or  vincitor,  come  repente 
E eh’ un  sol  vi  disperda 7 un  sol  v'  .-incida? 
Deli  qual  altra  vittoria  unqua  sperate , 

S’ ai  colpi  d’ una  destra  in  fuga  andate  ? 

Ciò  detto  il  tergo  segna  al  cavaliero. 
Per  averlo  al  ferir  fuor  di  sospetto  ; 

Ma  fatto  accorto  del  vilian  pensiero. 
Volge  Vitellio,  e gli  appresenta  il  petto; 

E ’l  ferro  alzando  ai  sommo  del  cimiero. 
Fende  li  capo,  c la  gola  entro  l’elmetto; 
Che  con  l’ intiere  tempie. , c con  le  gote 
Su  ciascun  fianco  gelido  percote. 

Or  come  al  gran  guerrier  l’alma  disciolta 
Vede  fredda  lasciar  l’ arme , c la  vita , 

Stia  salute  la  gente  In  fuga  volta 
Commette  al  corso  pallida , c smarrita  ; 
Nè  più  la  voce  delle  trombe  ascolta , 

Ch'  alto  sonando  alla  battaglia  invita  ; 

Nè  v'  Ita  chi  prenda  scorno,  o sì  disdegne. 
Senza  difese  rimirar  l’ Insegne. 


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so  PORMI 

Gli  elmi  indorati , c gl'  indorati  scudi 
Temprati  già  con  sommo  studio,  c cura, 
Gettansi  a piedi , e se  ne  vanno  ignudi 
Da  viltade  sospinti , e da  paura. 

Sol  tu  ritolta  a feminlli  studj, 

Kd  usa  all’arte  di  milizia  dura, 

Provasti,  Flavia,  in  guerreggiar  diletto, 
Vergine  orrenda,  c rivolgesti  il  petto. 

Costei  là  fra  Sanniti  aspro  paese 
Nacque  del  Tronto  alla  gelata  riva, 

E gli  anni  molli  in  rigide  opre  spese, 
D'agi  soavi , c di  delizie  schiva  ; 

Spiegò  le  reti , e i lacci , e l’ arco  tese , 

Nè  senza  gloria  cacciatricc  ardiva, 

Ch*  entro  le  selve  spaventosa  all* orso 
Lieve  corvetta  faticava  il  corso. 

Quivi  assetata , ed  arsa  al  fiume  hebbe , 
E posò  stanca  in  su  la  dura  terra , 

E I’  alterezza  delle  spoglie  eli’ ebbe 
Sol  dalle  fere,  che  tra  monti  atterra;  [be 
Ma  poi,  che  *1  mondo  odiò  la  pace,  e creb- 
L*  ira,  ed  Italia  surse  armata  in  guerra, 
Volta  a più  chiare  imprese  il  suo  pensiero, 
L’arme  vestì  contra  *1  romano  impero. 

Nè  fra  i gucrrier,  che  ’l  barbaro  racco- 
Destra  più  certa,  e più  crudel  feria,  [glie, 
Nè  fra  cotante  sanguinose  voglie 
Ardeva  voglia  più  superba,  e ria  ; [glie, 
Ed  or  che’n  fuga  il  piede  ogni  uom  discio- 
Ella  non  già  l’alta  virlude  obblia, 

Ma  disdegnosa  il  cavalier  disfida , 

E con  orribil  suon  contra  gli  grida  : 

A che  vii  turba  alla  vii  fuga  avvezza 
Cacci , che  vita , e non  la  gloria  brama  ? 
Dunque  nel  sangue  di  chi  l’odia,  e sprezza, 
Speri  ii  merto  trovar  d’ inunortal  fama  ? 

Se  cerchi  vero  onor  di  tua  fierezza,- 
Rivolgi  l’armi  a chi  t’attende,  e chiama. 
Cosi  dicendo  al  fiero  assalto  mosse, 

E con  alto  furor  l’elmo  percosse.  [te. 

Quel  come  ferro  entro  la  fiamma  arden- 
Miile  chiare  faville  al  cielo  ha  sparle. 

Ella  i colpi  raddoppia,  c fieramente 
Ratte  l' aurato  scudo,  c gliel  diparte , 

Ei , che  dianzi  le  voci , c pur  or  sente 
L* opere  altiere  nel  mestier  di  Marte, 
Sdegnoso  che  sul  fine  altri  contende 
La  sua  vittoria , di  furor  s’ accende. 

E là  ’ve  cerchio  di  metallo  cigne 
La  gola,  e preme  l’amorosa  neve, 

La  vincitrice  spada  immerge , c spigne , 
Ch’  entro  ’l  bel  latte  il  puro  sangue  beve  ; 

V alma  cui  dura  angoscia  assale,  e striglie, 


EROICI. 

Vassene  al  quinto  ciel  rapida , e lieve  ; 

E morte  rea  la  bella  guancia  oscura , 
Che  con  tanl’  arte  già  formò  natura. 

Presso  ’l  cader  della  guerriera  forte 
Una  v’  avea  delle  donzelle  armate , 

Clic  seguita  d’ Arpalice  la  sorte 
Spendeano  in  arme  la  fiorita  etale. 
Costei  scorgendo  da  vlcin  la  morte. 
Ebbe  degli  anni  suoi  giusta  pietate , 

E ratta  discendendo  dal  destriero, 
Umilmente  inchinossi  al  cavaliero. 

Vincca  la  neve  il  leggiadretto  volto, 
Vincea  la  rosa  di  gentil  colore , 

E l’oro  della  chioma  iva  disciolto, 

E gli  ocelli  fiammeggiavano  d’ amore  : 
Mira  il  campo,  die*  ella,  in  fuga  volto, 

0 nobil  cavalier,  dal  tuo  valore; 

Ornai  poco  di  gloria  aggiugner  puoi 
Col  sangue  d' una  donna  agli  onor  tuoi. 

Per  la  tua  destra  gloriosa  ardita, 

Pel  tuo  valor,  per  la  tua  nobil  fede, 

Per  la  vittoria,  eh’  a pugnar  t’invita. 
Comparti  ad  una  vergine  mercede; 
Sospendi  ’l  braccio,  e mia  giovenil  vita 
Riponi , o cavalier,  fra  le  lue  prede, 

E per  umil  tua  sena  mi  destina, 

0 chiedi  gran  tcsor  da  mia  regina. 

Così  pregava , e i begli  occhi  tremanti 
Volgea  pieni  d' affanno,  e di  tormento. 

Si  ch’ai  delti  soavi , ed  ai  sembianti, 
Ch’a  lei  dettava  1'  ultimo  spavento. 

L’ira  del  cavalier  non  corse  avanti, 
benché  alle  piaghe,  ed  alle  morti  intanto  ; 
Ma  sotto  nobil  guardia  ei  la  commise , 
Indi  spronò  sopra  le  schiere  ancise. 

Benché  di  tanti  popoli  confuso 
Fumasse  il  campo  d’ ogni  orror  funesto, 
11  caso  di  costei  non  però  chiuso 
Fu  colà,  dove  esser  dovea  molesto; 

Gilè  pronto  Amor,  siccome  ei  tien  per  uso. 
Il  fece  ad  un  suo  servo  manifesto. 
Gctulio,  che  da  lei  gli  occhi  non  torse. 
Tutto  rimira  di  sua  \ ita  in  forse. 

Ei  ben  lieto  riman  di  sua  salute , 

Ma  pur  si  duol , die  le  bellezze  amale 
A suoi  martiri , a suoi  disir  dovute , 
Cieca  Fortuna  in  strana  forza  ha  date. 

Nè  potendo  sperar  tanta  virtute, 

E nell'  uccislon  tanta  pietate  ; 

Sopra  l’ altera  cortesia  pensoso, 

A passo  a passo  ei  ne  divicn  geloso. 

E così  quel  mortifero  veleno 
Amaramente  gli  circonda  il  core, 


l 


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DELLE  GUERRE  DE’  GOTI. 


Che  in  profondo  pensiero  ei  venia  meno, 
Vinto  d' insopportabile  dolore. 

Por  alfin  sprona,  ed  abbandona  il  freno, 
E volge  in  quella  parte  il  corridore , 

Per  onde  ci  rimirò,  che  menata  era 
La  bella,  e disiata  prigioniera. 

Ma  il  moto  di  quei  popoli  infinito. 
Che  discordano  in  cosi  spessi  giri , 

Ed  or  un  feritore,  ora  un  ferito. 

Diede  tanto  d’indugio  a’  suoi  disiri, 
Qi’ei  nulla  scorge  dalla  pugna  uscito, 
Come  clic  si  rivolga , e che  si  miri , 
Sebben  loco  non  v’ha,  dov’ci  non  spii. 
Ove  no  *1  guardo,  ove  non  l’occhio  Invii. 

Adunque  ove  destili  non  gli  consente. 
La  donna  ritrovar  del  suo  dolore. 

Più  non  gli  cal,  più  non  gli  torna  a mente 
L’arme, la  guerra,  o’I  barbaro  signore. 
Solo  si  vuol , solo  disia  dolente 
Loco  segreto  a disfogar  il  core. 

Cosi  sen  va  poco  da  lungo  , dove 
Trai* ombre  il  fiume  a lento  corso  move. 

Quivi  discende,  e mentre  gira  il  piede 
A cercar  solitario  ermo  ricetto. 

Tutto  pensoso,  e disarmato  vede 
Giovine  d’anni  un  cavalier  soletto. 

Egli  sull'erba  in  riva  al  fiume  siede 
Grave  d’ una  percossa  a mezzo  *1  petto, 

E con  la  man  va  procurando  aita , 

E con  l’ onda  corrente  alla  ferita. 

0 cavalier,  che  sia  vaghezza , o sia 
Destin  qui,  dice,  a guerreggiar  sci  giunto, 
K eli*  or  s’ io  guardo,  empia  Fortuna,  e ria 
T ave  pur  meco  nel  dolor  congiunto  ; 

Io , se  l'opera  mia  grave  non  fia , 

La  ti  prometto  infili  da  questo  punto; 
Ma  tu,  se  ’l  favellar  non  t’è  tormento, 

Di  tua  condizlon  fammi  contento. 

E quei  le  luci  al  cavalier  converse 
Tinto  di  pa^slon  ne’  suoi  sembianti  : 
Tenne  le  labbia,  e fin  che  non  l'aperse, 
Sparse  fuorc  sospiri , e sparse  pianti, 
indi  rispose  : Uom  di  fortune  avverse 
Fortuna  avversa  t'ha  condotto  avanti, 

E mal  richiedi , se  piacer  non  hai , 
D’udir,  guerrier,  aspre  miserie,  e guai. 

Ma  se  costume  naturai  ti  sprona  , 

Per  diletto  a spiar  dell’altrui  pene; 

Io  pur  dirò,  che  quanto  ne  ragiona, 
Tanto  ne  gode  il  cor,  che  le  sostiene. 
Cosi  l’alta  beltà,  che  le  cagiona  , 
Volgesse  qui  le  luci  alme  serene  , 

E mirasse  la  pena,  che  m’avanza, 


Dall’empia,  e sempre  dura  lontananza. 

Là  dove  il  mar,  clic  da’  Tirreni  prende 
Il  nome,  Italia  in  sull’estremo  inonda; 
Sotto  l’altiero  monte,  che  difende 
Il  freddo  Borea  all’arenosa  sponda  : 
Savona  all’ acque  angusta  falda  stende, 
Savona  sempre  di  beltà  feconda; 

In  quelle  piaggic,  hi  que’  bei  liti  adorni, 
Ebb’io,  signor,  nascendo  1 primi  giorni. 

Appena  nato,  a'  duri  mici  tormenti 
Sorte  volle  adoprar  di  sua  fierezza; 

Mi  negò  le  lusinghe  dei  parenti , 

Mi  pose  in  risse,  m’involò  ricchezza. 
Amore  alfin  con  le  sue  fiamme  ardenti 
Servo  mi  fc’  d’ una  crude!  bellezza. 

Per  modo  che  nè  forza , nè  desio 
Ebbi  poscia  giammai  d’ esser  più  mio. 

Cosi  dolente  mi  distrussi , ed  arsi 
Tutto  Io  spazio  della  verde  ctate  : 

Gridi , sospiri  dal  profondo  sparsi , 

Ebbi  le  guancic  pallide , e bagnale  ; 

E pur  quegli  occhi  avaramente  scarsi 
Mi  negarono  un  guardo  di  pictate. 

Nè  sulla  bella  fronte  altro  mai  lessi , 

Clic  duri  slrazj,  e che  tormenti  espressi. 

Tanto  peso  di  affanno,  e di  martire. 
Tante  si  lunghe  feritadi  estreme, 

Non  ben  poteansi  con  ragion  soffrire , 
Senza  alcun  refrigerio,  e senza  speme. 
Però  la  mia  miseria , c ’l  mio  disire 
Venne  palese,  e la  cagion  insieme, 

E tutto  ’l  mondo  a riguardar  si  diede 
La  sua  dura  alterezza , c la  mia  fede. 

Ed  ella  vergognando  al  suo  bel  volto 
Farsi  palese  un  amator  si  vile , 

Nel  domestico  albergo  ebbe  sepolto 
L'almo  splendor  della  beltà  gentile. 

Nè  pel  tempo  avvenir  poco,  nè  molto 
Si  fu  pentita  dell’  appreso  stile , 

Nè  giammai  poscia  io  rimirar  potei 
Pur  disdegnoso  il  sol  degli  occhi  miei. 

Allor  feci  pensier,  benché  dolente. 
D'abbandonar  quelle  dilette  arene , 
Pensando  sol , ch’ai  ritornar,  la  gente 
Gli  occhi  non  avria  volti  alle  mie  pene. 
Cosi  mi  mossi  entro  la  fiamma  ardente, 
Traendo  dietro  pur  ceppi,  e catene  ; 

K con  angoscia , c con  pensier  di  morte , 
In  Tracia  venni  alla  romana  corte. 

Quivi  è soverchio  11  dir  del  mio  dolore, 
Se  per  prova  l’amor  conosciuto  hai. 

Ma  se  delle  sue  piaghe  bai  sano  ’l  core, 
Che  giova  il  dir  ? noi  crederai  giammai. 


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82  POEMI 

L*  estrema  passlon  d’ un  che  si  more , 
Que*  rei  sospir,  que’  rei  martlr,  que’  guai, 
E quella  pena  tormentosa , c ria , 

M’ erano  al  cor,  che  Tolenticr  sofTria. 

Marte  feroce  Indi  discordia  accese 
Vago  dell’  opre  sanguinose , c crude. 
Gascun  destossi  a perigliose  imprese, 

Per  trarne  gloria,  e per  mostrar  virtude  : 

10  lieto  me  ne  corsi  al  bel  paese , 

Ov'è  la  patria,  che  il  mio  ben  rinchiudo, 
Sperandomi  da  lungo  al  suo  bel  ciglio 
Passar  men  grave  il  doloroso  esigilo. 

Ma  dura  sorte  , clic  di  trarre  è vaga 
A fin  acerbo  la  mia  vita  rea. 

Vuol , che  di  Marte  ancor  senta  la  piaga 

11  cor,  che  pur  quella  d’amor  piangea; 
Ma  se  ben  di  suo  cibo  or  non  l’appaga 
La  speme  , che  dappresso  mi  pascca  : 
Non  però  nel  pensiero  altro  mai  viene, 
Fuor  che  Liguria , e le  paterne  arene. 

Tal  mi  son  peregrin , ed  al  ritorno 
Veggio,  che  morte  ornai  la  via  mi  serra. 
Ma  tu  chi  se’,  che  pur  con  Panni  intorno 
Spendi  in  riposo  l’ore  della  guerra? 
Gelulio  il  guardo  di  pietatc  adorno 
Sospirando  piegò  verso  la  terra , 

E poi  di  nuovo  nel  guerriero  il  fisse. 

Ed  a lui  rispondendo  così  disse  : 

Perchè  tu  sappia , che  con  cor  pietoso 
Sono  stati  raccolti  i dolor  tuoi , 

Saprai , ch’io  son  nel  carcere  amoroso, 
E provo  duri  i reggimenti  suoi. 

Ma  perchè  nel  mio  stato  aspro,  c noioso 
Alquanto  di  quiete  arrecar  puoi , 

Prego,  eh’ a consolar  l’empia  mia  doglia 
Pietosamente  adoperarti  voglia. 

Dianzi  pugnando  ambe  le  genti  armate 
Prigioniera  n’andò  la  donna  mia; 

Ned  ebbi  di  disciorla  polestate , 

Si  trovai  nel  venir  chiusa  la  via. 

Or  s'io  posso  riporla  in  libcrtale. 

Chi  più  felice , e fortunato  fia  ? 

Ma  porla  In  liberiate  indarno  io  spero. 
Se  contezza  non  ho  del  cavaliero. 

Ei  con  moro  destriero  in  guerra  venne. 
Che  sol  la  fronte  ha  colorita  in  bianco; 
Sopra  *1  cimiero  ha  tre  purpuree  penne  ; 
E d’ostro  fascia  l’uno,  e l’altro  fianco. 
Di  cotanto  valor,  che  sol  sostenne 
Le  schiere  avverse  coraggioso,  c franco  ; 
Nè  d’ alcun’  altra  destra  anco  vedute 
Sono  opre  In  arme  di  si  gran  virtute. 

Tu , che  nel  campo  dei  Latin  fai  nido, 


EROICI. 

E con  lor  passi  coll’esilio  gli  anni, 

E saper  devi  i cavalier  di  grido, 

E ’l  nome  loro  rinvenir  ai  panni  ; 

Deh  mi  noma  costui,  che  s’io  ’i  disfido 
Troverò  ’l  fin  degli  amorosi  afTanni , 

Chè  vincitor,  la  donna  mia  disciolta , 
Vinto,  mia  pena  col  morir  fia  tolta. 

E quel  Latin , clic  ’l  cavalier  sovrano 
Avca  raccolto  a manifesto  segno, 

Grida  : Oh  che  forte,  oh  clic  feroce  mano, 
T invola,  amico,  il  caro  tuo  sostegno  : [no 
Non  ha  '1  campo  stranicr,  non  lia’l  Roma- 
Di  lui  pugnando  cavalier  più  degno, 

Ed  esser  può,  che  l’armi,  c la  battaglia 
Seco  vie  men , che  ’l  ripregar  ti  vaglia. 

Pur  oggi  al  mondo  il  terzo  di  risplende, 
Gi’ei  n'apparse  soiingo  in  sui  mattino; 
Gii  ’l  mandasse  fra  noi  nulla  s’ intende , 
Ma  daU’Etruria  ei  mosse  peregrino. 

Solo  Narscte  del  suo  dir  contende. 

Gl*  a noi  discenda  messaggier  divino, 

E quinci  a lui  commesso  ha  finalmente 
Il  governo  dell’  anni  e della  gente. 

Egli  a fermar  nostra  fortuna  avversa 
Promette  alto  destin  di  sua  persona , 

E clic  vostra  possanza  andrà  dispersa , 
Come  di  cosa  certa  altrui  ragiona. 

E certo  se  destin  non  s’attraversa , 

Il  bel  regno  d’Italia  or  v'abbandona  , 

E Roma  nostra , in  che  fermaste  albergo. 
Vinti  vedravvi,  e con  le  braccia  al  tergo. 

E se  ’l  mio  detto,  c la  credenza  è vera, 
Sian  testimonio  1 tuoi  medesmi  lumi. 
Veduto  hai  folgorar  la  destra  altiera , 

N’  hai  rimirali  i sanguinosi  fiumi. 

Questi  si  ticn  l’ amata  tua  guerriera , 
Amico,  per  cui  piagni , e ti  consumi , 

E porti  di  martir  sì  gravi  some  : 

Se  ’l  nome  chiedi,  ei  di  Vitcllio  ha  ’i  nome. 

Ei  cosi  gli  rispose,  e tenne  alquanto 
Gctulio  a terra  nubiloso  il  ciglio. 

Indi  soggiunse  : E verità  sia  quanto 
Del  mio  ragioni , e del  comun  periglio  ; 
Pensi  ’1  re  nostro  a sue  fortune,  intanto 
D’Amore  io  solo  prenderò  consiglio; 

Ma  la  preghiera  mia  non  ti  sia  greve 
Per  la  pietà,  che  agli  amator  si  deve. 

Si  tosto,  come  se’  tornato  In  campo, 
Se  pace , se  conforto  Amor  ti  dia  ; 

Trova  la  donna,  del  cui  viso  avvampo, 
Sebben  in  sorte  dispictala,  e ria; 

E dille  tu  per  ine , come  al  suo  scampo 
La  fcdcl  opra  di  Gctulio  fia, 


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DELLE  GUERRE  BE’  GOTI.  8S 


E che  la  servitù  non  le  rincresca , 

Finché  col  novo  di  l’alba  se  n’esca. 

Cosi  detto  riprende  il  suo  destriero 
Rivolgendo  la  mente  alla  partita , 

E ne  porge  la  brìglia  al  cavalicro , 

Cui  grato  esser  dovca  per  la  ferita  : 

E dice  : Ornai  vicn  notte  all’cmispero, 

E ’l  sol  partito  a dipartir  n’ Unita; 

Monta  in  arcion , chi  si  piagato,  e lasso, 
Diffìcilmente  moveresti  ’l  passo. 

Ed  egli  alfln  dopo,  ch’lnvan  contese 
Con  bel  parlar  di  gentilezza  adorno. 
Pigliò  ’l  destrier  del  cavalier  cortese 
Ed  al  campo  d'Italia  fé’  ritorno. 

Getulio  poi , che  dalle  stelle  accese 
Mirò  dal  mondo  ornai  bandirsi  ’l  giorno, 
Nulla  col  ferro  ei  più  curò  provarsi 
A prò  dei  Goti  fuggitivi,  e sparsi. 

Ma  non  Vitellio  il  gran  furore  alTrena, 
Sebbcn  lo  stuol  avverso  in  fuga  è volto  ; 
E sebbcn  cicca  notte  in  giro  mena 
Ornai  suo  carro,  c ’l  più  vedere  6 tolto. 
Giù  di  gran  tronchi  la  foresta  i piena , 
E d’ atro  sangue  è tutto  ’l  campo  involto. 
Ed  ci  pur  su  gli  estinti , c su  i mal  vivi , 


Batte  con  l' arme  il  tergo  ai  fuggitivi. 

Qual  il  gran  fiume,  dove  ancor  sospira 
Febo  sul  caso  di  Fetonte  indegno, 

Se  per  nevi  dìscioltc  unqua  s’adira, 

E ’l  freno  usato  ha  delle  rive  a sdegno; 
Ondeggia  altiero  in  gran  diluvio,  e tira 
Seco  a basso  ogni  sponda,  ogni  ritegno, 
E selve,  e paschi,  e ciò,  clic  trova  intorno 
Ne  porta  a)  mar  sopra  l’orribil  corno; 

Tal  su  lo  stuol,  che  gli  fuggiva  binanti. 
Alto  fremendo  il  gran  guerrier  correa , 

E calpestando  or  cavalieri , or  fanti 
Spegnca  la  gente  scellerata , e rea. 

Sotto  il  fier  ciglio,  c sotto  i fier  sembianti 
Il  fiero  sguardo  minaccioso  ardea, 

E dal  gran  scudo,  e dal  grand'  elmo  e fuore 
Dai  grandi  usberghi  sfavillava  orrore. 

Per  entro  ’l  sangue,  che  ne  giva  crran- 
Eransuoi  fregj  d’atre  macchie  offesi;  [do, 
Sangue  gli  spron,  sangue  vedcasl  il  bran- 
E sangue  tutti  distillar  gli  arnesi,  [do, 
Se  cicca  notte  dall’Ibcro  alzando 
Non  ingombrava  allor  tutti  1 paesi. 
Franca  era  Italia  : ma  pei  ciechi  orrori 
Interruppe  Vitellio  i suoi  furori. 


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84 


POEMI  EROICI. 


BRACCIOLINI. 


LA  CROCE  CONQUISTATA 


LIBRO  TERZO. 

ARGOMENTO. 

Segue  Teodor  a far  palesi , e chiari 
Ile  gl*  eroi  pili  famosi  i nomi , e l’opre, 
E il*  Elisa , c d’ Alcesie  i casi  amari 
Condolei  note  al  saggio  Arlemio  acopre; 
E cosi  ne*  diletti  altrui  si  cari 
Mostra,  quanti  travagli  il  mondo  copre. 
E che  in  metto  del  riso  aspro  dolore 
Sempre  si  mesce  a tormentare  il  core. 


Signor,  que’  due  della  seconda  coppia 
( Ricominciò  Teodor)  son  capitani 
Dì  gente  greca , c ben  I un  l’ altro  accop- 
D’ animoinvlttl,  c di  valorsovrani , [pia 
Virtù,  che  fuor  naturalmente  scoppia, 
Nè  lascia  1 cor  gentil  parer  villani , 

Ben  mostra  in  lor  con  manifesta  luce 
La  nobiltà  dell" uno,  e l’altro  duce. 

Quel  da  man  destra , a cui  si  lunga , t 
bionda 

La  chioma  è sparsa  i n sul  lucente  usbergo, 
E quasi  un  fiume  d’ or,  che  si  dilTonda , 
Riga  armato  d’ accìar  l' omero,  e ’l  tergo , 
Cleanto  è detto,  e’  n su  la  verde  sponda 
Del  lucid'Ebro  ha'l  suo  nativo  albergo. 
Nacque  de  I re  di  Tracia , ed  egli  i segni 
Muove  di  tre  provinole,  anzi  tre  regni. 

Sono  i primi, eben  forti  I propriTraci, 
Per  sua  ferocità  squadra  temuta. 

I Macedoni  poi , di  pari  audaci , 

Ma  vie  più  lor  la  disciplina  aiuta. 

Terzi  i Dardanl  sono,  e i feri  Daci. 

Chè  nessun  per  onor  marte  rifiuta, 

E quei  di  Ponto , c di  Dalmazia  mesce 
Conquesti  Insieme  ,c  la  falange  accresce. 

Sono  a pie  diecimila , e novecento 
Ne  conduce  a cavallo,  e di  lor  porta 
Famosa  insegna  un'  aquila  d' argento , 
Ch’  un  altr'  aquila  ticnneli’  unghia  torta , 


Che  'I  sangue  ha  sparso , e le  sue  piume  al 
vento 

Dall' artiglio  maggior  ferita,  c morta, 
Per  dinotar,  che  rimarrà  disperso 
Dall'  imperio  romano  il  regno  perso. 

Vedi  l' altro  a man  manca , c più  raccolto 
Su  '1  tergo  ha  ’l  collo , e più  le  spalle  apcr- 
Ed  ha  brune  le  chiome,  efosco  il  volto,  [te. 
Quegli  onor  della  guerra  è Poliperte  ; 
Trae  d’ Atene  il  natal , paese  incolto , 
Fatti  sono  i giardin  piagge  diserte, 

E di  tanti  edifici  in  fra  l'arena 
Riman  dal  tempo  alcun  vestìgio  a pena. 

Ma  se  cagglon  le  mura,  estrazio  indegno 
Fa  d’  ogn’  opra  di  man  la  lunga  etade , 

A mal  grado  suo  pur  prova  d’ ingegno 
Fabbrica  di  scrittor  giammai  non  cade. 
Nelle  carte  fondata  ha  vita,  e regno, 

Se  rovina  nel  suol  l'alta  ciltade,. 

E mancar  si  vedranno  al  sole  i rai 
Pria,  che  manchi  d’ Atene  il  grido  mai. 

E non  sol  Poliperte  Atene  aduna , 

Ma  l' Epiro,  c l’Acaia.  All'Oriente 
Dell' incolte  provinole  esposta  è l’ una. 
Guarda  l'altra  a Corfù  verso  Occidente. 
Non  può  nulla  temer  l’ irsuta  , c bruna 
Per  li  monti  Cerauni  avvezza  gente; 

Che  le  fere  solca  di  balza  in  balza 
Saettando  seguir  leggiera,  e scalza. 


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I.A  CROCE  CONQUISTATA.  85 


Tratti  poi  fuor  del  cui  o.-o,  c’nsicmeac- 
Dalla  tromba  medesima  conduce  [colti 
Quei  del  Peloponncsso , e seguon  molti 
1/ ardi to  suoi!  del  fortunato  duce, 

K più  altri  di  lor  sparsi , c disciolti 
Li  per  l’ isole  Egee  chiama,  e riduce 
Lesbo,  e Creta  concorre,  e Negroponte 
K le  minute  Cicladi  : ma  pronte. 

Quasi  a piè  tuttaè  la  sua  gente  greca , 
Ma  grave  d’armi,  e d'animo  costante. 
Sì  eli' a danno  minor  morte  s'arreca. 
Che  torcer  mai  dal  suo  dover  le  piante. 
Porta  ei  per  segno  una  dentala  seca , 
Clic  roder  tenta  un  lucido  diamante, 

Nè  pur  vi  lascia  alcuna  nota  impressa, 

E non  potendo  a lui , noce  a sè  stessa. 

Dodicimila  il  capitan  condutti 
Tra  pedoni  e cavalli  avea  da  prima, 

Ma  son  gii  quasi  alia  meli  riduttl 
Tanto  il  ferro,  e l’eli  distrugge,  e lima. 
Son  più  d'ogn’aitro  a franger  mura  In- 
Ne'  duri  assalti,  csalir  loro  in  clma,[strultl 
Nè  torre  è mai , che  resistenza  faccia 
Lungamente  al  crollar  delle  lor  braccia. 

Pon  mente  ai  terzi  .eciaschedun  lorfre- 
Vcdi  Italico  ornar  dell’  armi  il  pondo;  [gio 
Triface  è l’un  per  chiare  prove  egregio 
fìentii  di  spirto,  e di  parlar  facondo. 
Sull’  Arno  è nato , ov’  ci  più  raro  ha  'I  pre- 
llcllc  note  d' Etruria,  e puro,e  mondo[gio, 
Corre  con  lento  piè,  chè  lo  rattienc 
l)e'  cigni  il  canto  alle  famose  arene. 

Di  membra  è snello,  e sovra  i piè  veloce 
Nel  corso  a pena  imprime  d'orme  il  Ilio; 
Fervido  di  voler,  di  cor  feroce. 

Ardito  si,  ma  cautamente  ardilo. 

Nè  del  nettare  d'  I bla  ha  la  sua  voce 
Men  soave  concento,  c men  gradito. 

Se  va,  se  sta,  s’egli  ragiona,  o tace 
ila  sempre  un  non  so  che,  clic  s'ama,  e pia- 

Di  concorde  voler  da  lui  condutti  [ce. 
'an  gl’italici  seco,  i qua’  partirò 
Con  varie  insegne,  e non  volcan  riduttl 
Andar  soli’  una , e ’n  ritrosir  s’ udirò , 

Ma  proposto  Triface  ei  solo  a tutti 
Per  duce  piacque,  ei  sotto  a lui  s' unirò, 
Ed  ei  si  dolce  or  gli  governa , e regge , 
Ch’  amore  è ’l  freno,  e volontà  la  legge. 

Novemilanc  regge,  e ne  raccoglie 
Di  quelli  ancodi  là  dal  varco  angusto, 

< IT  è fra  Scilla , e Cariddi , onde  si  scioglie 
Da  Leucotc  Peloro,  c 'I  monte  adusto, 

E con  quei  ch’abitar  le  bianche  spoglie 


Dell'  Apennin  di  lunga  neve  onusto. 
Tragge  insieme  Triface,  e seco  mena 
Quei  dell’onda  adriallca  , e tirrena. 

l'n  Icone  è l’ insegna , c mentre  dorme 
Chetamente,  un  fanciullo  il  fren  li  mette  ; 
Mille  premono  il  suol  di  ferrai'  orme 
Sparse  le  lancie  lor  d' archi , e saette. 
Partenopee  son  le  guerriere  torme, 

E fan  chiaro  veder  le  squadre  elette, 
Chè  l’antica  virtù  che  già  fioriva 
Negl'  italici  petti  ancora  è viva. 

Vedi  l'altro  a man  manca;  a sue  gran 
Non  è già  punto  inferlor  la  forza,  [membra 
D'csser  nato  mortai  non  si  rimembra. 

Il  cuor  feroce  niun  periglio  ammorza  : 

1 ra  gli  armenti  minor  tauro  rassembra , 
Rompe!'  armi,  e le  schiere,  e Paste  sforza, 
E qual  leone  orribil  velli,  e folti 
Spargon  la  fronte  sua  capelli  incolli. 

Adamasto  ècostui , sol  ci  non  puotc 
Emulo  di  Batran  soffrirne  il  grido. 

Per  sangue  è chiaro,  c d'Alboin  nepote 
Nato  di  Lombardia  nel  ferlil  nido, 

Dove  l’ Adda,  c ’l  Tesin  con  larghe  rote 
Traggon  l'umido  piè  spargendo  II  lido, 
E più  volte  fecondi  i campi  fanno 
Pria  che  di  neve  incanutisca  l' anno. 

ISequani,  e gli  Elveti  egli  conduce, 

E del  ferro,  c del  vino  amica  gente. 

Che  simil  di  costume  al  fero  duce 
Non  alberga  timor,  piaga  non  sente, 
l'n  Orlon,  che  le  tempeste  induce 
Morte, c strage  crude!  delle  semente, 

Eia  sua  insegna , c la  falange  piena  [pena. 
Da  prima  ci  mosse,  or  n'ha  due  quinti  a 
Vedi  ilquarto  amali  manca;  èquello  il 
figlio 

Del  canuto  Silvan  eh’  ha  per  cimiero 
Grave  d’alta  pruina  un  bianco  giglio. 
Hello  è d'aspetto,  e d'animo  guerriero. 
Sventola  il  peunonceld'  oro,  e vermiglio. 

E ’l  generoso,  e nobile  destriero, 

A cui  l' omero  preme , e stringe  il  morso , 
Sembra  neve  ai  color,  seffiro  al  corso. 

Tra  T fin  del  quarto,  e'I  cominciar  del 
quinto 

Lustro  degli  anni  suoi  lieta  stagione 
Corre  età  favorita  a gloria  spinto 
Da  generoso,  e volontario  sprone, 

E ben  figliuolo  al  naturale  istinto. 

Ed  al  nobile  fin,  di' ci  si  propone. 

Si  dimostra  a Silvan  per  via  d’onore. 
Emulando  a gran  passi  il  genitore. 


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80  POEMI 

Venturiero  ò’I  garzon  leggiadro,  e fran- 
Seco  è ’l  duce  Ardimeli , caricod’  oro , [co, 
A cui  pende  ricurvo  al  lato  manco 
Gemmato  il  ferro  in  barbaro  lavoro. 
Sopra  II  nero  ha  ’l  deslrier  sottile  il  bianco 
Pur  coni’  un  v elo , e i piedi  e ’l  capo  è moro. 
Non  preme  ei  no , ma  perchè  rada  il  suolo , 
L’ali  al  corso  non  vedi , e vedi’!  volo. 

Condutti  a noi  del  caspio  monte  ha  fuorc 
Gente , che  ’n  sè  non  Ita  legge , nè  freno, 
Oh , se  pari  in  costor  fossi  ’l  valore 
Al  numero,  all’ardlr  ch’egli  hanno  in  seno  ! 
Ma  fidar  non  ne  può  l’imperadore, 

E nuoce,  ovunque  sia,  l'empio  veleno. 
Son  trenta  mila,  e più  tulli  gazzarri 
Ingiuriosi,  indomiti,  c bizzarri. 

Dall’ Ircania costui  con  le  sue  genti, 

A cui  serra  le  vie  P orribll  tosco 
Nemiche  a Cosdra , e di  disdegno  ardenti 
A congiunger  si  venne  in  guerra  nosco. 
Quando  ai  giorni  maggior  gli  atri  serpenti 
Fan  viva  siepe  al  duro  varco,  e fosco 
E pur  or,  quando  il  velenoso  calle 
Chiuggnn  le  serpi  alla  profonda  valle; 

Tacile  al  penetrar  del  cieco  sasso 
Movean  le  schiere,  e sospettose , e preste , 
Perchè  dal  suon  del  periglioso  passo 
Il  diluvio  degli  angui  non  si  deste. 

Ma  indarno  pur,  eh’  ad  assalirle  al  basso 
Sibilando  strisciò  l'orrenda  peste , 

E la  piaggia , e la  valle , e ’l  piano , e 1*  erta 
Di  serpi  è tutta  a danno  lor  coperta. 

Aran  con  larghe,  e velenose  rote 
Gli  adirati  colubri  il  gran  deserto. 

Rigati  lubrici  il  suolo,  e ’l  elei  percotc 
Di  lor  sibili  ardenti  un  suono  incerto. 
Spaventosi  sembianti , c forme  ignote 
Precipitose  in  giù  scendon  dall’erto. 
Rassembraaiciel  s’oscuro  nembo  il  serra, 
Seminata  di  fulmini  la  terra. 

Suona  r orrida  valle , ogn’  antro  geme. 
Spargo»  le  biscic  avvelenala  spuma. 

Con  le  spade  i guerrier  l’ orrendo  seme 
Troncatisi  intorno,  e’I  varco  ondeggia,  e 
Seguita  il  popol  fiero,  e nulla  teme.  [fuma. 
E col  ferro , e col  piè  la  via  consuma , 
ramo  eh’  esco»  d’ impaccio , e ne  conduce 
Liberi  i suoi  guerrier  l’ardito  duce. 

La  loro  insegna  è con  argenteo  corno 
Quel  pianeta,  che  in  ciel  giù  mai  non  suole 
Tal  far  altrui,  qual  si  partì  ritorno. 
Compartendo  alla  notte  i rai  del  sole;[no 
Con  quel  da  poi  che  non  l' estingue  il  gior- 


EROICI. 

Il  barbarico  stuol mostrar  ci  vuole. 

Che  vai  per  buona,  e piu  per  rea  fortuna, 
Qual  notturna  assai  più  luce  la  luna. 

Vedi  gli  ultimi  due,  che  d’ un  colore. 
Che  nel  bianco  in  vermiglia  lian  la  divisa , 
Rara  coppia  gentil  eh’  ha  giunto  Amore 
Di  legittimo  nodo,  Alceste,  e Elisa. 

Vive  indistinto  infra  due  petti  un  core, 

E in  due  corpi  è tra  lor  l’alma  indivisa , 
Ella  per  lui,  mercè  d’ Amore,  audace 
(^imbatte  in  guerra,  egli  amoreggia  in 
pace. 

Di  dolore,  e d'amor  trafitta  e punta 
La  giovanotta  assai  fu  presso  a morte, 

E soffrendo,  ed  amando  a tale  è giunta. 
Ch’eli’  è ben  tra  i più  rari  esempio  forte. 
Chè  disperata , e dai  suo  amor  disgiunta 
Ben  la  tenne  qualtr’anni  acerba  sorte 
Sotto  ruvide  spoglie  infra  le  piante 
D’antica  selva  sconosciuta  amante. 

Sola  è donna  nel  campo,  e la  permette 
L’ imperador,  quantunque  pur  sia  tale , 
Però  die  doli  in  sè  raccoglie  elette. 
Ch’ai  virile  valor  la  fanno  eguale. 
Sicuramente  in  cerio  segno  mette 
Dall’ aurata  faretra  ogni  suo  strale. 
Rompe  ’l  corso  alle  fere  in  mezzo  al  suolo, 
E per  l’aria  agli  augei  la  vita,  e ’l  volo. 

E dall’arco  promette,  e se  nc  spera 
Della  man  feiuinil  prove  maggiori , 

E l’istoria  direi  pietosa,  c vera 
Delle  lagrime  sue,  de’  suoi  dolori, 
Pernii  divenne  in  mezzo  i boschi  arciera, 
S'io  non  temessi  i suoi  dolenti  amori 
Portarvi  noia,  e qui  sì  ferma,  c tace, 
Sovrastando  a mirar,  quel  eh’ a lui  piace. 

Ma  scorta  allor  nel  principe  Teodoro 
Dai  sacro  ambasciatine  l'aperta  voglia, 
Di  contar  di  que'  due,  eh’ un  tempo  foro 
Piangendo  amando  in  disperata  doglia, 
Volgesi  ad  ascoltar  gli  affanni  loro, 
Benché  i casi  d'amor  gradir  non  soglia. 
Ma  in  lievi  cose  affabilmente  in  lui 
Vinto  11  proprio  voler,  cede  all’ altrui. 

E rispondendo:  a me  l’udir  Ha  caro, 
Purch’avoi  forse  II  raccontar  non  grave. 
De’  legittimi  amanti  il  caso  amaro 
Dopo  lunga  stagion  patto  soave,  [chiaro 
Ciò  detto  ei  tacque,  e ’n  suoli  distinto,  c 
Ripigliando  Teodor  quei  eh’ a dir  ave. 
Con  lieta  fronte  al  sacro  messo,  e pio 
Più  volgendosi  ancor,  cosi  seguio: 

Nel  laconico  mar  Citerà  siede, 


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LA  CROCE  CONQUISTATA.  87 


Isola,  che  più  bella,  e più  feconda 
Sopra  ’l  nostro  orizzonte  il  sol  non  vede , 
Nè  più  bella  a veder  l’acqua  circonda. 
Qui>i  nacquer  gli  amanti,  c ’n  quella  sede 
Pargoletti  godean  vita  gioconda , 

Della  tenera  età  nel  dolce  loco, 

Partendo  il  riso,  e I*  allegrezza,  c ’l  gioco. 

Quivi  un  amor,  che  non  sapoa  d’ amare, 
D’un  incognito  affetto  i cori  univa, 
Sospirava»  talor  Tallirne  care 
Nè  sapean  quel  sospir  d’onde  ci  veniva; 
Chè  temer  non  avean  nè  che  sperare , 

E speranza,  e timor  l’anior  nutriva. 

E così  semplicetti  un  tempo  avanti 
Che  ’n  tendessero  amor,  vissero  amanti. 

L’età  crebbe,  c le  voglie,  c furon  poi 
Dai  letto  maritai  spente,  e raccese. 

Fin  che  Fortuna  con  gli  assenzi  suoi 
A conturbar  tanta  dolcezza  intese. 
Cosdra  affronta  Cartagine,  ed  a noi 
Convien  repente  apparecchiar  difese 
E già  già  parte,  e se  ne  va  per  Tonde 
La  nostra  annata  e’I  mar  tra  Degni  ascon- 
Cosi  a partir  dalia  diletta  moglie  [de. 
Dura  necessità  lo  sposo  astringe. 

Da  lei  congedo  lagrlmando  toglie 
E di  mesto  palior  tutto  si  tinge. 

Alfin  si  parte,  e la  sua  rela  scioglie 
L' afflitto  amante,  e 1*  Aquilini  la  spinge; 
Vaisene  senza  cor,  chè  lo  ritiene 
La  bella  sposa  alle  paterne  arene. 

Pien  di  lagrime  il  volto,  c 'I  seti  di  duolo 
Con  l’ altre  vele  II  doloroso  amante 
Sospirando,  varcò  l' umido  suolo, 

Ma  fermò  tardi  in  sul  terren  le  piante. 
Chè  l’amica  citta  r avverso  stuolo 
Area  disfatta  alcuni  giorni  arante. 

Più  di  fermossi  a racconciar  l’ antenne, 
Per  tornar  quell’  armata,  orni'  ella  venne. 

Or  tra  queste  dimore  un  cavaliero 
Novellamente  in  Affrica  venuto, 

Per  portar  a Cartago , ove  niesticro 
Ne  fusse  a lei , con  la  sua  destra  aiuto  ; 
Quando  alfin  della  cena  ogni  pensiero 
Con  poca  guardia  fi  più  dai  cor  tenuto, 
Veggendo  ei  pur  con  basse  ciglia,  e meste 
Dolente  star  l’ Innamorato  Alcestc  : 

Deh,  signor,  li  diss'ci,  sbandisci  orna) 
Cosi  tristo  pensier,  che  t' ange  il  core , 
Cbfi  nuli'  altro  può  far,  come  ben  sai , 
Nostro  pensar,  che  raddoppiar  dolore. 

E se  forse  fi  cagion  di  darti  guai , 

Come  fa  spesso  in  età  fresca  amore , 


Sterpalo,  chfi  non  fi  maggior  follia 
I)’ noni , rifa  femina  vii  soggetto  stia. 

Nfi  feinina  esser  può,  che  non  sia  vile. 
Nuli’ amor,  nulla  fedeltà  'I  sesso  avaro. 
Non  beltà , senno , non  v irtù  gemile , 

Ma  l’oro  fi  sol  ch'allc  lor  voglie  è caro. 
Provato  ho  mille , e mai  diverso  stile 
Non  vidi  in  una,  ond’a  fuggirle  imparo; 
E di  molte  il  gucrrier  narrando  disse 
Godute  a prezzo,  e l’ultima  descrisse. 

Sulla  sponda  a Citerà,  ond’  ella  vede 
I)  Asopo  il  dorso , fi  gran  magione  eretta. 
Che  sporge  fuorsopr’  uno  scoglio,  c siede 
Quasi  a specchio  del  mar,  che  l’ha  ristretta. 
Qui  una  donna  gentil,  ma  per  mercede. 
Pur  elib’io,  come  l’ altre.  Elisa  detta. 

E se  mai  dal  sembiante  alcuna  onesta 
Comprender  puossi , a me  parca  ben 
questa. 

Chè  ’n  sfi  raccolta,  e nel  suo  bruno  man- 
Del  crine  avara,  e del  pudico  sguardo,  [ lo 
Nell’ andar  schiva,  e vergognosa  alquanto 
Movea  guardingo  ogni  suo  gesto,  e tardo. 
E chinando  11  bel  viso  a terra  intento 
Scoccava  apifi  de’ suoi  begli  occhi  il  dardo 
Quasi  a dir,  non  guard’  io,  nessun  mi  miri. 
Ch’io  non  porto  pietà  d'altrui  martiri. 

Ma  '1  tesoro  d' amor  chi  più  raccoglie 
Fa  più  caro  parerlo,  ond'ei  più  s'ama, 
E cosi  avvien,  che  dell' ardenti  voglie 
Mantice,  fi  ’l  dinegar  quel  che  si  brama. 
Tal  io  d' filisa  in  quelle  honesle  spoglie 
Vie  più  m'accesi,  e ne  sfogai  la  brama. 
Glifi  per  far  me  dell’  amor  mio  felice , 
Chiuse  il  patto  tra  noi  la  sua  nutrice. 

Costei  dagli  anni  attenuala,  r trista 
Mostra  ipocritamente  atto  devoto. 
Formar  preghiere  ad  or,  ad  or  fa  vista 
Confondendo  i bisbigli  in  suono  ignoto. 
Baciar  sovente  il  terreo  sacro  fi  vista. 
Battersi,  e risonarne  il  petto  volo, 

D' ogni  inganno  è maestra , e con  suavi 
Detti  d'ogn'  altrui  cor  volge  le  chiavi. 

Costei  di  notte  tacito,  e soletto 
Mi  condusse  a goder  l' idolo  mio. 

Passai  per  varco  inusitato,  e stretto, 
Cli’ad  aprirmi  sul  mar  la  balla  uscio. 

La  sua  camera  a lui  descrisse,  e T letto. 
Tutte  sue  frodi  il  cavalier  gli  aprio , 
Loquacissimo  fatto  a mensa  lieta. 

Dove  scioglie  la  lingua  II  vin  di  Creta. 

Quindi  accorto  il  marito,  e certo  ornai 
Dello  scorno  da  lui  conira  sfi  fatto  : 


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K8  POEMI 

Ahi,  malvagio,  gridò,  tu  dunque  andrai 
Superbo  ancor  di  cosi  reo  misfatto  ? 

Tu  di  mia  moglie,  e l'onor  mio  tolt' hai? 
Per  pagarne  le  pene  il  cicl  t' ha  trailo 
Nelle  mie  mani  ; e ’l  ferro  trae  dal  fianco , 
Sospingendosi  a lui  feroce , c franco. 

Or  confuso  l'adultero,  e sorpreso. 
Tratta  con  l’cbra  man  la  spada  a pena; 
Mal  accorto  egualmente,  e mal  difeso 
Trafitto  cade  a insanguinar  l’arena. 

Dalla  mensa  alia  tomba  inulil  peso. 
Passar  gii  ò forza  alla  dolente  cena, 

E tra  i vasi  ravvolto,  e le  vivande, 

E col  sangue , e col  vin  l' anima  spande. 

Non  bada  Alcesle  ; un  plcciol  legno  sale, 
lasciando  gli  altri , c la  sua  vela  scioglie. 
Cui  l'Austro  gonfia,  e per  l’ondoso  sale 
Portatrice  ne  va  d’amare  doglie. 

Tinto  è nel  volto  di  pallor  mortale. 
Dolor  peggio,  che  morte  in  seno  accoglie. 
Tacilo  è sempre,  c ne’  sosplr  di  foco 
Talor  prorompe,  e non  ha  posa,  o loco. 

E ’l  quarto  di,  clic  ’l  disperato  amante 
Dal  confine  afTrican  partito  s’ era, 

I)i  lunghissimo  spazio  ancor  distante 
l’or  lo  piano  del  mar  vide  Citerà. 

Sia  ’l  senlier  torse  c poi  fermò  le  piante 
Sul  Icrrcn  di  Malica  giunto  la  sera, 

K quindi  un  messo  alla  consorte  manda 
Nel  proprio  legno,  c a lui  così  comanda  : 

Vanne , e imbarca  mia  moglie,  c come 
Tu  dall'isola  sei  tanto  lontano,  [poi 
Che  più  visto,  o sentito  esser  non  puoi, 
Dalle  morte  crudcl  di  propria  mano. 

0 se  ’l  sangue  di  lei  sparger  non  vuoi , 
Cettala  immantinente  al  flutto  insano; 

Fa  ch’ella  muoia,  e non  udir  da  lei 
Scusa , o pregar,  se  tu  fedel  mi  sci. 

Pronto  all’opra  crudel  vanne  colui; 
Giunge  a Citerà,  c l'innocente  Elisa 
Chiama  per  parte  del  marito,  a cui 
Menarla  intende , e ’l  suo  ritorno  avvisa. 
Ch'eL  giunto  è là  con  altri  amici  suoi 
Sulla  riva  del  mar,  quinci  divisa. 

Dove  C stretto  a badar  per  alcun  giorno , 
Pria  che  far  possa  all'isola  ritorno. 

L’ amorosa  consorte  al  noto  messo 
Volenterosa  immantinente  crede, 

E tutta  lieta  allor,  allor  con  esso 
Mette  nel  legno  suo  l’incauto  piede. 
Lascia  l'empio  la  riva,  ed  all' eccesso 
Come  il  luogo  opportuno,  e ’l  tempo  vede, 
Più  feroce  del  mar,  che  lo  sostiene 


EROICI. 

Contraila  donna  impetuoso  viene. 

E nel  viso  gentil , clic  forza  avrebbe 
Tor  lo  sdegno  alle  fere,  agii  angui  ’l  losco. 
E di  pleiade  intenerir  potrebbe 
Le  dure  querce  al  più  deserto  bosco; 
Poiché  fissato  orribilmente  egli  ebbe 
Spietatissimo  in  atto  il  guardo  fosco, 

Le  man  distende,  e'i  biondocrine  avvolto 
S’ ha  già  nell'  una,  c l' altra  II  ferro  ha  tolto. 

E con  aspra  favella , ed  interrotta 
Dall’orror  del  misfatto  : Elisa,  dice. 

Su  disponti  a morir,  chè  giunta  è l’otta 
Della  tua  fine , e viver  più  non  lice. 

0 vuoi  ferro , o vuoi  mar  : cosi  ridotta 
Al  partito  crudel  quell’ infelice,  [smorte. 
Tremante  , e fredda , e con  le  labbra 
Chiede  almen  la  cagion  della  sua  morte. 

La  cagione  è ’l  voler,  le  rispond' egli , 
Del  tuo  marito,  ed  ci  cosi  comanda; 

E traendo  a quel  dir  gl' aurei  capegli. 
Muove  il  ferro  ad  empir  l'opra  nefanda. 
Rasserena  allor  queta  i dolci  spegli 
lai  giovanotta,  e fuor  le  voci  manda; 
Eccoti  il  petto,  il  tuo  signor,  e mio. 

Se  cosi  vuole,  e cosi  voglio  anch'io. 

Per  lui  sol  non  per  me  piacque  la  vita. 
Per  lui  mi  spiaccia  or  eh' ci  l'abborre,  e 
schiva , 

Nodo  eterno  d’amor  l’ha  seco  unita 
Da  lui  dipenda,  e per  lui  mora,  e viva. 

E se  forse  parer  morte  gradita 
Non  mi  potrà,  poi  che  di  lui  mi  priva. 
Di  contentarlo  il  mio  contento  fia. 

Tal  ch’addolcisca  ogn' amarezza  mia. 

Hcn  mi  resta  un  sol  dubbio,  e t’addi- 
Pcr  l’estrema  mercò,  che  tu  ridica,  [mando 
Queste  parole  al  mio  signor  tornando, 
Ch'  ella  del  petto  fuor  trasse  a fatica  : 
Elisa  tua,  che  fedelmente  amando 
Non  l'ofTese  già  mai , morì  pudica. 

E qui  la  mente  a Dio  converte , e nudo 
Porge  altera  11  bel  fianco  al  ferro  crudo. 

Ma  quel  servocrudel,  che  s' era  armato, 
Contro  i preghi  d’ asprezza,  e contra  i pian- 
Rendon  (eh’  il  crederla?)  preso,  e legato  [ti. 
Del  magnanimo  cor  gli  atti  costanti. 

E due , c tre  volle  il  fiero  braccio  alzato , 
Quasi  maga  pietà  l'arresti,  e ’ncantl,  [sa. 
Non  può  muovere  II  colpo,  e non  l’abbas- 
Anzi  ’l  ferro  di  man  cader  si  lassa. 

Si  eh' ci  l'opra  abbandona,  e volto  a lei 
Cosi  spiegò  più  raddolcito  il  suono. 

Deli , che  morte  mai  dar  non  li  potrei. 


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LA  CROCE  CONQUISTATA. 


Ma  non  è in  poter  mio  darli  perdono. 
Che  qual  tu  moglie  al  signor  nostro  sei, 
Del  crudel  che  mi  manda,  io  servo  sono; 
Ma  della  morte  eterno  esilio  in  vece 
Aver  da  me,  se  pur  vorrai , ti  lece. 

Se  la  fede  per  pegno  a me  tu  presti 
Di  partir  quinci,  e non  mai  più  tornare, 
TI  lascerò  su  quelle  spiagge  agresti , 

E dirò  poi  che  l'ho  sommersa  in  mare. 

E tu  di  là  te  ne  potrai  da  questi 
Nostri  confin  peregrinando  andare. 

Ma  giura  a me  di  ricovrarti  dove 
Qui  non  s' odali  mai  più  d’Elisa  nuove. 

Risponde  : amico , uccidi  pur,  trapassa 
Purquesto  petto,  e che  vuoi  tu,  ch’io  viva. 
Da  quel  crudel,  clic,  benché  tale,  ahi  lassa, 
È pur  la  vita  mia,  lontana,  e priva? 
Abbassa , oìmè , la  mortai  mano  abbassa, 
Non  mi  lasciar  conir' a sua  voglia  viva, 
Chè  sarìa  troppo  a me  tal  vita  amara, 

E morte  a piacer  suo  m’ è dolce , c cara. 

Cosi  pur  ella  il  mortai  colpo  chiede , 
Perch’  adempiasi  in  lei  l’ empio  mandato. 
Ma  pietoso  il  morir  non  le  concede 
Olii  la  vita  negar  dovca  spietato. 

Or  che  lite  ammirabile  si  vede 
Nascer  tra  lor,  che  generoso  piato  ! 
Giovane  donna,  ed  innocente  prega 
Pur  la  sua  morte,  e i’uccisor  la  nega. 

Ma  poi  eh’  un  tempo  Inutilmente  Elisa 
All'omicida  suo  chiese  la  morte, 

E dimostrò  con  disusata  guisa 
Ne'  magnanimi  preghi  animo  forte; 

La  speme  alftn , se  non  rimane  uccisa , 

Di  scoprirsi  innocente  a miglior  sorte  , 

Fa  che  cede  la  misera , e dolente 
All’ odioso  suo  viver  consente. 

E di  lagrime  sparse  ambe  le  gote, 

Qual  rose  intatte  al  mattutino  giclo, 

Dì  trar  l'esule  plé  tra  genti  ignote 
Promette  a lui  sotto  diverso  cielo. 

Indi , per  variar  più  ch’ella  puote 
Suo  sembiante  gentil,  depone  il  velo. 
Tronca  il  bel  crino,  e la  purpurea  vesta 
Piangendo  spoglia,  e’n  servii  manto  resta. 
Colui  giicl  presta,  e sopr'  un'erma 
spiaggia 

La  depon  lagrimosa,  e se  n'  invola,  [saggia 
Pass’ ella  i monti , c fuor  chc’l  pianto,  as- 
Poe’  altro  cibo,  e va  dolente,  e sola. 
Parer  si  storia,  e ruvida,  e selvaggia 
Nutrit'  aneli’  essa  in  boscareccia  scola 
Tra  dura  gente  ov'ella  arriva,  o parte. 


Ma  non  giunge  al  desio  lo  studio,  e l’arte. 

Del  bel  viso  gentil  fa  prova  in  vano 
Nasconder  l’aria,  ei  portamento,  c’1  moto. 
Non  può  l'atto  civil  farsi  villano. 

Nè  restar  di  sue  grazie  il  ciglio  voto. 
Troppo  candida  appar  la  (iella  mano, 
Troppo  ad  ogn’opra  il  nobil  gesto  è noto. 
Cosi  nuvola  11  sol  con  atri  veli 
Non  può  tanto  celar  che  i giorno  celi. 

Ma  poi  ch’eli' ebbe  e quattro  lune,  e sci, 
Misera,  e sconosciuta  peregrina. 
Trascorso  errando,  e con  gli  accesi  omcl 
Fall' ogni  selva  risonar  vicina; 

Tra  la  sua  famigliuola  a raccor  lei 
Un  pietoso  pastor  pronto  s’inchina, 

E da  quei  panni  un  garzoncel  creduta, 
Pasce  or  greggia  lanosa,  ed  or  cornuta. 

E con  ruvida  verga,  e con  accenti 
Soavi  troppo  a cosi  duri  uffici , 
Correggendo  conduce  i bianchi  armenti 
A pascer  l' odorifere  pendici. 

E spesso  ai  suoi  dolcissimi  lamenti 
Fa  pietose  le  selve  ascoltatrici , 

E compiangon  sovente  al  suo  dolore. 
Alternando  i susurri,  or  l' acque,  or  l’ ore. 

Ed  ella  un  giorno  insidiando , aggiunto 
D'un  selvatico  capro  il  correr  lieve, 

Lui  feri  dall'agguato,  e '1  fianco  punto 
Pasce  ’l  ferro  la  vita , e ’l  sangue  beve. 

E l’un  poi  delle  corna  all'altro  aggiunto 
Ne  compose  ’l  grand'arco,  ond'eiia  In 
Divenne  arciera,  e sagittaria  tale,  [breve 
Clic  nè  '!  Parto,  nè  ’l  Perso  ha  forse  eguale. 

Quindi  corre  la  selva,  e poi  la  sera 
Ricca  di  preda  il  chiuso  albergo  riede, 

E ’l  di  soletta,  ov'è  più  folta, e nera 
L*  ombra  d' antiche  piante  alfrena  il  piede, 
Sfogando  allor  l' acerba  doglia , c fera. 
Che  l’usato  tributo  agli  occhi  chiede, 

E rimari  poi  della  sua  pena  acerba 
Tiepida  ai  sospir  l'aura, ai  piangerl'crba. 

Durò  lunga  stagion  l' amaro  stile 
Che  ’l  suo  fior  di  bellezza  In  uggia  tenne, 
E ’l  suo  più  vago  addolorato  aprile. 

Per  lei  pur  sempre  oscurità  mantenne. 
Ferito  intanto  un  cavalier  gentile 
Nel  medesimo  albergo  a morir  venne , 

Di  cui  la  donna  il  luminoso  arnese 
Da  lui  lascialo , e ’l  corridor  si  prese. 

E con  quell'  armi  ella  pensò  da  poi 
Fingersi  un  cavalier  cangiando  sorte , 

E passar  con  più  laude  i giorni  suol , 

0 i suol  lunghi  dolor  finir  con  morte. 


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90  POEMI 

E ben  che  grave  al  molle  pelto  annoi 
Tropp’  aspro  peso  il  duro  arnese,  e forte. 
Vi  s* avveri’ ella,  e non  so  dir,  se  pure. 
S’intenerisca  ’l  ferro,  o ’I  scn  s’ induro. 

Ma  tornato  il  famiglio,  a cui  commise 
La  sua  morte  il  marito , c inteso  come 
Egli  in  maria  sommerse,  c pria  l’uccisc 
Presala  di  sua  man  nell' auree  chiome; 
Data  a lui  ia  mercè , qual  ei  promise. 
Quindi  il  fa  dipartir,  però  che  ’l  nome 
Teme  dell’omicidio,  c ’l  fatto  ah  borre 
E *1  ministro  si  vuol  dagli  occhi  torre. 

Colui  si  parte,  c poi  nel  cor  martella 
Più  d’ un  sospetto  al  credulo  marito. 
Dubbio  della  ragion  d'opra  sì  fella 
L’immaturo  consiglio  il  fa  pentito. 
Torna  a Citerà , e la  nutrice  appella 
Ei  con  volto  feroce,  ella  smarrito, 

E le  dimanda,  ravveduto  tardi,  [di  : 
Col  ferro  insieme,  e con  gli  ardenti  sguar- 

Di’  su,  malvagia,  io  vo’ saperne  il  vero. 
Chi  fu  colui  eh’ a violar  menasti 
L*  impudica  mia  moglie  all’  aer  nero, 

Tu  ’l  sai,  tu  sei  che  l’onor  mio  macchiasti. 
La  mala  vecchia  a minacciar  si  fero 
Tremante  cade,  e non  ha  cuor  che  basti , 
Ma  gridando  mercè , mostra  in  che  guisa 
Sol  ella  ha  colpa  ; ed  è innocente  Elisa. 

Signor,  vinta  dall’oro,  orecchia  porsi 
Ad  un  vano  amntor,  che  qui  venuto 
Con  desir  mollo  e poco  senno  io  scorsi 
A dimandarmi  alle  sue  fiamme  aiuto. 

Ed  io  che  bene  ogni  tentar  m’accorsi 
La  casta  Elisa  tua,  tempo  perduto, 

Mi  rivolsi  all* astuzie,  e lui  contento  . 
Fei  d’amor  con  inganno,  e me  d’argento. 

Persuasi  a Terea  d’ accoglier  essa 
D’Elisa  in  vece  il  folle  amante  in  seno, 
Chè  d’  un’etade,  e d*  una  forma  impressa 
Terea  somiglia  alla  tua  sposa  a pieno. 

E nella  maritai  camera  stessa 
Trassi  il  vano  amator  di  gaudio  pieno, 
Chè  l’ incauta  tua  moglie  indussi  ad  arte 
A trar  la  notte  in  più  lontana  parte. 

Lascio  in  cantera  il  vago,  c poi  eli’ al- 
quanto 

Sovrastette  in  desio  del  mio  ritorno. 
Con  l’ancella  si ntil  chiusa  nel  manto 
Della  mia  donna,  a dii  m’aspetta  io  tonto, 
E spento  a un  tratto  un  piccìol  lume  tanto. 
Che  mai  vincer  polca  1*  ombra  d’ intorno, 
Avidamente  nel  tuo  proprio  letto 
L’un  dell’altro  di  lor  prcser  diletto. 


EROICI. 

Ed  io  prima  che  l’alba  In  Oriente 
Rianclicggiar  faccia  alcuna  parte  ancora. 
Affretto  lui,  che  tacito,  e repente 
Partir  sen  voglia,  e prevenir  l’aurora, 
Ed  egli  a pieno  al  creder  suo  contente 
L’accese  brame,  uscì  dell’uscio  fuora; 

E qui  tace  la  vecchia,  imntobil  cole 
Rintanai  Alcesle,  e poi  s’ infiamma,  e scote. 

Ed  ahi , grida,  malvagia,  io  dunque  a 
Per  te  la  donna , anzi  la  vita  mia,  [torto 
Fedele,  e casta , ed  innocente  ho  morta? 
Tanto  error  senza  pena  unqua  non  Ila. 
Vuol  trarre  il  colpo,  e rlman  poi,  che 
Ha  ’l  vile  oggetto,  in  cui  ferir  desia,  [scorto 
La  lascia,  e corre  a minacciar  Terea, 

Se  narratole  il  ver  la  balia  avea. 

E cosi  ’l  trova,  ond’ei  non  pur  ferito, 
Ma  trapassato  il  cor  d’aspra  saetta, 

Per  soverchio  dolor  di  senno  uscito 
Di  sè  far  pensa  Incontr’a  sè  vendetta. 

E ’l  suo  spirito  sciolto  avrla  seguito 
Lei,  che  nuda  si  crede  alma  diletta. 

Ma  v’accorser  gli  amici,  e gliel  vietaro 
E del  morir  la  miglior  via  mostraro. 

Persuaso  da  lor,  clic  *n  lui  non  deggia 
Morte  d’eterno  danno  esser  cagione , 
Passa  il  misero  in  Asia, e qui  guerreggia; 
Disperato  ai  perigli  il  petto  espone,  [già. 
Ma  quantunque  il  morir  pur  sempre  cltieg- 
Con  mlll* opere  ardite,  ov’ci  si  pone. 
Riserbandolo  a meglio  antica  sorte 
Gl’ incontra  gloria , ov’el  ricerca  morte. 

E già  quattr’anni  il  lagriinoso  amante 
Avea  miseramente  ad  ora  ad  ora 
Le  colpe  sue  rammemorate,  e piante. 
Nè  sentito  il  dolor  temprarsi  ancora  : 
Quando  un  guerriero  alle  trincee  d’avantc 
Venne  a chiamarlo  a guerreggiar  di  fuora. 
Tace  il  suo  nome  il  cavaliero,  e ’l  volto 
Tien  dentr’  all*  elmo  ascosamente  accolto. 

Del  guerrler  peregrin  più  d’nn  a voce 
La  disfida  ad  Alceste  in  fretta  porta. 
Subito  ei  s’arma,  e sul  destrier  veloce 
! Viensene  al  vallo,  e s’apre  a lui  la  porta. 

! E ben  del  petto  intrepido,  e feroce 
L’alta  virtù  nel  fier  sembiante  è scorta. 
La  lancia  stringe,  e si  rassetta  in  sella. 
Ma  pria,  clic  muova,  al  cavallcr  favella: 

Quell’ Alceste  son  io,  che  tu  richiedi 
Teco  a pugnar,  nè  la  ragion  dir  vuoi , 
Ma  se  neghi  a me  questo,  almcn  concedi 
Prima  dirmi  il  tuo  nome , e giostrar  poi. 

E ’l  peregrino  : Un  cavalicr  tu  Tedi, 


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91 


LA  CROCE  CONQUISTATA. 


Da  cui  questo»  e non  altro  intender  puoi  ; 
Ch’odio  non  ti  pori’ io,  ma  tu  nemico 
Non  bai  maggiore , c nulla  più  ti  dico. 

Equi  punti  i dcstrier  corronsi  incontra  ; 
Cader  la  lancia , il  peregrin  si  lassa , 

E ben  vedesi  a studio,  Alceste  incontra 
A lui  lo  scudo , e lo  divide , e passa. 

Ma  meglio  assai  clic  non  vorrìa  gl’ incontra 
Perchè  spezzasi  l’asta,  e si  fracassa 
Di  lui  più  molle,  e più  pietosa,  c solo 
Lo  scontrato  guerrier  batte  nel  suolo. 
Dismonta  Alceste , e corre  al  vinto  a 
piede. 

Per  torgli  Tarmi,  e tratto  a lui  T elmetto , 
Stupido,  ed  adombrato  Elisa  vede, 
Riconosce  ben  ei  l'amato  aspetto. 

La  sua  donna  gentil,  che  morta  crede, 
E pur  viva  mantiensi  in  mezzo  al  petto. 
Fermo  attonito  ei  resta,  e in  tutto  immoto 
Non  ha  voce , nè  suon , senso , nè  moto. 

E ben  morto  saria,  eh’  erranti,  e sparte 
Sue  virtù  dal  piacer  fuggian  dal  core , 

Se  non  eh' in  dentro  alla  più  nobil  parte 
Premcalc  il  duol  del  suo  commesso  errore  : 
Quindi  errando  la  vita,  or  toma, or  parte 
Nel  reflusso  di  morte,  e pur  non  muore; 
Potea  solo  il  dolor,  sola  la  gioia, 

Nè  pon  fare  amendue , eh’  Alceste  muoia. 

L'amorosa  consorte  in  fronte  il  mira 
E veggendo,  ch’ei  resta , c non  l’offende , 
Tacito  un  favellar  dagli  occhi  spira 
Che  solo  chiama , c nessun’  altro  intende. 
Crudel , poi  dice , or  chè  non  empi  l’ira, 
Chi  mi  salva  da  te , chi  mi  difende  ? 


Nelle  tue  mani  è pervenuta  Elisa, 

Sol  per  restar  dalle  tue  mani  uccisa. 

Già  so  ben  io  eh' è tuo  piacere,  Alceste, 
Non  ti  turbar,  non  ti  dirò  consorte , 

Chè  nè  moglie  nè  viva  Elisa  reste. 

Nè  vo’che  ’I  viver  mio  noia  t’ apporle. 
Morir  vogl’io,  ma  spargi  tu  di  queste 
Mie  vene  il  sangue,  c dammi  tu  la  morte. 
Fallo;  chè  più  tardar?  saziati  ornai, 

E sappi  sol  eh’  io  non  t*  offesi  mai. 

E se  già  per  pietade  or  è ’l  quart’  anno 
Ch’ebbe  il  servo  di  me,  morta  non  fui, 
Non  ti  doler,  chè,  benché  viva , ni’  hanno 
Poi  tenuta  sepolta  i boschi  bui. 

E vengo  a te  per  rimorire  : avranno 
Questo  nuovo  contento  i desir  tui, 

Chè  in  quanto  a te  morrò  due  volte,  e fla 
Con  tuo  doppio  piacer  la  morte  mia. 

Pentito  Alceste  a quel  parlar  tremendo, 
Qual  filo  d'alga  in  sulla  riva  al  mare. 

La  rea  cagion  dell'  error  suo  contando , 
Versa  per  gli  occhi  fuor  lagrime  amare  ; 
E d'amor  vinto,  e di  dolor  parlando 
Spesso  ammutisce,  e nel  silenzio  appare 
Quel  che  serra  la  lingua , c più  rivela 
La  v ista  in  lui , che  ’l  suo  tacer  non  cela. 

Ma  poi  eh’ a pieno  il  fallir  proprio  aper- 
Le  preghiere  condì  col  pianto  amaro,  [lo, 
Amaro  a lui,  ma  ’l  prntir  suo  scoperto 
D’ ogni  nettare  d’ Ibla  a lei  più  caro. 
L’amorosa  obliando  ogni  demerto  [ro, 
Con  un  guardo  il  mirò  tranquillo,  e chia- 
Chc  dell’ intimo  cor  nunzio  verace 
Perdon  li  porge  , e li  promette  pace. 


GRAZIANE 


IL  CONQUISTO  DI  GRANATA. 


Colombo  racconta  la  sua  prima  navigazione. 


I ndi  sorge  il  Colombo , e altrui  palesa 

II  suo  lungo  viaggio , c T alta  Impresa  : 
Poiché  gii  ordini  appresi,  e poiché  tolto 


Dai  cattolici  regi  ebbi  commiato , 

In  Palo  io  mi  trattenni . ove  raccolto 
De  le  mie  navi  era  lo  stuolo  armato. 
Qui  pria  che  il  sole  il  luminoso  vottp 


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92  POEMI 

Da  le  rive  del  Gange  avesse  alzato  , 

Del  inio  partir  nel  destinato  giorno 
Mi  apparve  in  sogno  un  gioianetto  adorno. 

Di  raggi  adorno  c di  purpurea  leste 
Scote  dorate  piume , e in  lieto  aspetto 
Cosi  parlando  il  giovane  celeste 
M’ empie d’ alta  speranza  il  dubbio  petto: 
Scaccia , amico , i timori  e le  tempeste 
Che  sinor  ti  agitar  coti  vario  affetto; 

Non  errò  tuo  pensler  quando  ha  creduto 
Di  trovar  nuovo  mondo,  e sconosciuto. 

Quel  corpo  clic  universo  il  i ulgo  chiama, 
E che  P acqua  c la  terra  in  sè  comprende, 
Forma  una  sfera,  a cui  l'antica  fama 
Duo  poli  consegnò  con  cinque  bende. 
Finse  alcun  per  frenar  l'umana  brama 
Che  il  mondo  quindi  agghiaccia,  e quinci 
incende; 

Onde  sotto  i duo  poli , e 1’  Equatore , 

0 non  vada,  o non  viva  abitatore. 

Ma  falsa  è tal  sentenza,  c falso  è il  grido 
De  la  gelida  zona  e «le  l'ardente: 

Vuol  La  somma  Bontà  che  in  ogni  lido 
Sia  fecondo  il  terreo , viva  la  «;onle. 
Circonda  da  l'aurora  II  mare  infido 
11  globo  universale  a I* Occidente; 

E nel  mondo  non  è strana  contrada. 
Ove  l' noni  non  alberghi , ove  non  vada. 

Con  vario  corso  il  Lusitano  ardilo 
Già  scoprì  l’Oriente,  e resta  solo 
Che  verso  l’Occidente  a l'altro  lito 
Tu  spieghi  adesso  il  fortunato  volo. 

Così  il  globo  terrcn  sarà  compito. 

Cosi  fìa  palesato  il  nuovo  polo  : 

Misura  i gradi , c le  distanze  osserva , 
Vedrai,  che  terre  immense  il  mar  riserva. 

De  P atlantica  terra  ancor  si  ascolta 
Un  debil  suono  a la  presente  etadc , 

E che  un  tremoto  avendo  1*  acqua  sciolta, 
Fece  mar  divenir  quelle  contrade. 

Dal  cupo  oblio  fu  la  memoria  tolta 
Di  quell’ estreme  c procellose  strade, 
Che  possono  guidare  ad  altri  regni 
Sottoposti  a l'Occaso  i vostri  legni. 

Nel  trigono  de  l'acqua  è già  congiunto 
Con  massima  unlon  Saturno  c Giove , 

Ed  in  sito  partii  mostrano  il  punto. 

Che  mostra  usanze  ignote,  e terre  nove. 
Forse  al  mondo  lunar  tanto  disgiunto 
Fiachc  l’uomo  il  commercio  un  di  ritrove: 
Vuol  Dio  eh*  ogni  secreto,  ogni  arte,  ogni 
lu  secoli  diversi  a P uoni  si  scopra,  [opra 

Lo  spazio  che  finora  è sconosciuto. 


EROICI. 

Fia  pari  di  grandezza  al  vostro  mondo  : 
Quivi  di  gemme  e d’or  largo  tributo 
Porge  d’ampi  tesori  il  suol  fecoiido. 
Vanne,  lo  son  P angel  tuo,  che  reco  aiuto  ; 
Ncn  temer  l'empia  Dite,  c ’l  mar  profondo  ; 
Vanne , soffri , confida  ; a la  tua  gloria 
Nuovo  mondo  rimbombai  nuova  istoria. 

Qui  tacque,  c sparve,  e me  lasciò  ripieno 
Di  piacer,  di  speranza  e di  stupore  : 
Sorgo , c parlo  ai  compagni , e sprono  d 
Con  stimoli  di  gloria  a nuovo  onore,  ^scno 
Spirano  aure  tranquille  in  cicl  sereno. 
Solcano  il  cupo  mar  P ardite  prore  : 
Fuggc  il  lito  di  Spagna , e solo  appare 
li  mar  del  ciclo,  e '1  ciel  confiti  del  mare. 

Per  l' immenso  Ocean  drizzano  il  corso 
Le  navi  a la  sinistra,  e si  penieue 
A P isole  Canarie,  ove  soccorso  [vene. 
Di  fresche  acque  prcndiam  da  fresche 
Quinci  veggiam  d’ uu  allo  scoglio  il  dorso. 
Clic  versa  fiamme  in  su  le  trite  arene 
De  l’arsa  Tenarife,  onde  altri  crede 
CIP  indi  si  cali  a la  tartarea  sede. 

De  la  vergine  Astrea  varcava  il  sole 
Con  Palata  quadriga  i primi  segni, 
Quand'io,  lasciale  le  Canarie  sole. 

Presi  il  viaggio  ai  desiati  regni. 

Di  quel  vasto  Ocean  per  l’ampia  molo 
‘ A l’acquisto  fatai  volano  i legni; 

E s'internano  ognor  le  vele  ardile 
Fra  Pignole  voragini  infinite. 

Nullo  aspetto  di  terra  a noi  rimane, 
Occupa  l’orizzonte  o il  cielo , o il  mare; 
D’orrida  morte  infra  quell’ onde  insane 
Fiero  teatro  ai  naviganti  appare. 

Mirano  ad  or  ad  or  le  plaghe  ispane 
Quanto  remote  più,  tanto  più  care. 

Gli  smarriti  compagni , e loro  avanza 
Di  salute  e d’onor  poca  speranza. 

Dei  gradi  de  la  Vergine  celeste 
Entrò  ne  la  Bilancia  il  sol  cadente  , 

Nè  terra  apparve,  onde  vie  più  moleste 
Cure  agitar  la  sbigottita  gente. 

Freme,  c par  che  a fatica  ella  si  arresta 
Di  sfogar  coulra  me  P impeto  ardente; 

E già  mi  accusa  il  pubblico  timore 
De  la  morte  comun  perfido  autore. 

Io  tento  di  frenar  l'impeto  insano 
Con  sensi  vari,  e con  ragion  diverse 
E di  ricco  tesor  con  larga  mano 
Prometto  i premj  a tante  prove  avverse. 
Mentre  ognun  sospirava,  ecco  lontano 
Verde  prato  nel  mare  a noi  si  offerse  : 


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IL  CONQUISTO 

Gode  ognuno  a tal  vista,  e spera  ognuno 
Di  fecondo  terren  lito  opportuno. 

Ma  fatti  più  vicini  appar  che  l’ erba 
Svelta  dal  lito  era  dal  niar  portata  ; 

Onde  Tassi  maggior  la  pena  acerba 
Ne  la  timida  gente  addolorata. 

Quindi  freme , minaccia , e disacerba 
Con  mordace  parlar  la  mente  irata  ; 

E de  le  sue  querele  e del  suo  sdegno 
Divenuto  son  io  ludibrio  e segno. 

Ma  già  P inferno  a danno  mio  prepara 
Novelle  insidie , c congiurati  l venti 
Da  le  tetre  caverne  escono  a gara , 

E gonfiano  del  mar  Tonde  crescenti. 

Già  si  offusca  nel  cicl  l'aria  più  chiara. 
Se  non  quanto  risplende  ai  lampi  ardenti  ; 
Fulmina  e piove  e già  confonde  il  loco 
L'orribile  procella  a l’acqua  e al  foco. 
Guerreggiando  col  mar  l'aria  imper- 
versa , 

Questa  con  un  diluvio,  e quei  con  I*  onde  ; 
Turba  l vari  pensier  cura  diversa, 

E T periglio  commi  tutti  confonde. 
Stillato  in  pioggie  il  cicl  in  mar  si  versa , 
Il  mar  coi  flutti  urta  dei  del  le  sponde; 
Pane  allor,  che  dai  venti  in  aria  alzate 
Navigassero  in  del  le  navi  alate. 

Fra  sì  vari  perigli,  e in  mezzo  a quella 
Fiera  tempesta  alzo  la  mente  a Dio , 

E V imploro  a frenar  l’alta  procella 
Con  umil  voce , e cor  devoto  e pio. 

Vidi  allor  fiammeggiar  lucida  stella, 

Che  Tonde  abbonacciò,  Paure  addolcio; 

E quasi  in  pegno  di  futura  pace 

Dal  ciel  cadde  nel  mare  un’aurea  face. 

Credono  i flutti  a lo  splendor  celeste 
Che  ai  venti  procellosi  impone  il  freno , 
E i turbini  fuggendo,  e le  tempeste, 
Lasciano  il  mar  tranquillo,  e ’l  ciel  sereno. 
Ma  clic?  se  foche  immense,  orche  funeste 
Sorgono  contra  noi  dal  cupo  seno? 
Balene  e tiburoni , c ciò  che  serra 
Proteo  di  mostruoso,  a noi  fa  guerra. 

Spezzano  i remi,  assalgono  i nocchieri 
Gli  orridi  mostri,  e rodono  le  navi. 

Ed  urtano  d'intorno  ingordi  c fieri 
Il  nodoso  timon,  P ancore  gravi. 

Panni  ancor  di  veder  Lurgo  , c (linieri, 
Che  i legni  risarcian  dai  colpi  gravi  ; 

ÀI  primo  un  tiburon  tronca  una  mano , 
L'altro  un’orca  inghiottì  ne  P Oceano. 

A sì  rigidi  assalti , a si  diversa 
Forma  di  guerra  oguun  paventa  e geme  ; 


DI  GRANATA.  03 

Ma  sol  io  con  la  mente  a Dio  conversa 
Ne  Pimaginc  sua  fondo  mia  speme. 
Questa  di  sangue  in  dura  croce  aspersa. 
Questa,  che  adora  il  del,  l’inferno  teme, 
Questa  alzata  da  me  sovra  quei  mostri 
Gli  rispinge  del  inar  nei  bassi  chiostri. 

Fuggon  le  belve,  e prende  alcun  ristoro 
La  gente  afflitta , affaticata  e stanca  ; 

Ma  breve  è tal  conforto  appo  costoro  ; 
Tosto  scema  P ardir  che  gli  rinfranca. 
Manca  il  vigor,  mancano  i cibi  a loro , 
Varia  la  calamita,  e se  non  manca 
Il  noto  polo,  almeno  pigra  e tarda 
Con  dubbiose  vicende  incerta  il  guarda. 

Allor  fu  che  occupò  P animo  afflitto 
Del  popolo  confuso  alta  paura  : 

Già  siam  noi  senza  forze  e senza  vitto, 
Già  ne  sembra  fuggir  la  Clnosura. 

Dispera  ognun  ; sol  io  mi  serbo  invitto , 
Poiché  Pangel  di  Dio  mi  rassicura; 
Spero,  vinti  i disagj  e le  procelle. 
Vincere  i mari , c dominar  le  stelle. 

Ma  non  sperano  gli  altri  ; anzi  ciascuno 
Contra  me  volge  P ire , c i detti  arrota  ; 
Contra  me  fremon  tutti , e vuole  ognuno 
Che  lo  sdegno  di  tutti  in  me  percola. 

Il  timor  di  naufragio  e di  digiuno. 

Di  mar  sì  vasto  in  regione  ignota. 

Fa  che  a mìo  scherno  in  minacciosi  detti 
Sfoghi  il  vulgo  adirato  i chiusi  affetti. 

Dunque,  dicean,  per  saziar  d’uom  vano 
Il  mal  fondato  ambizioso  instinto 
Fra  gli  abissi  del  torbid’  Oceano 
Ha  da  restare  il  popol  nostro  estinto? 
Sotto  incognito  clima,  in  mar  lontano 
Il  nocchier  temerario  ecco  si  è spìnto  : 
Or  che  farà  famelico  e confuso , 

Se  del  polo  c del  mar  perduto  ha  l’uso? 

Questi  sono  gli  acquisti  c le  venture 
Che  al  re  promise  ? E noi  seguirlo  ancora  ? 
E noi  lasciam  che  nel  suo  imperio  ei  dure  ? 
Chi  si  perde  per  lui  dunque  l’onora? 
Deb  perisca  P autor  di  lai  sciagure; 

Del  suo  popolo  invece  egli  sol  mora  ; 

Si  sommerga  nel  mar,  sé  stesso  incolpe  ; 
Nacque r dal  mar,  castighi  il  mar  sue  colpe. 

Direm  che  nel  mirar  le  stelle  e i sego) , 
In  cui  si  aggira  il  portator  del  giorno. 
Incauto  sdrucciolò  nei  salsi  regni 
Pria  eh’  aita  recasse  alcun  d’ intorno. 
Quinci,  salvi  noi  stessi,  c salvi  i legni, 

A le  rive  natie  farem  ritorno  : 

Altro  non  resta  in  così  estrema  sorte , 


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94  POEMI 

Clic  comprar  mille  vite  in  una  morte. 

Con  lai  detti  accendean  fili  animi  audaci 
A muover  contra  me  l’armi  rubelle  : 

10  pien  d’alte  speranze,  e di  vivaci 
Grazie  espongo  me  stesso  a tai  procelle. 
Deh,  gridai,  qual  furore , o miei  seguaci , 
La  prudenza  e la  fè  dal  cor  vi  svelle? 
Qual  nube  di  follia  la  meute  oscura  ? 

Chi  vi  spinge,  infelici,  a tal  congiura? 

Quella  fè,  che  a gli  Ebrei  da  rozza  cole 
Acque  vitali  a gli  arsi  labbri  aperse. 
Quella  fè,  che  del  Sol  fermò  le  rote, 

E la  vittoria  a Giosuè  scoperse; 

Quella  può  voi  condurre  a terre  ignote 
Fra  Tonde  procellose  e Paure  avverse  : 
L’ancora  de  la  fede  immobil  reste. 

Nè  si  temano  i mostri  c le  tempeste. 

Se  fussc  la  mia  vita  oggi  bastante 
A comprar  tante  vite,  io  da  me  stesso 
Vorrei  precipitarmi  al  mar  sonante, 

E farmi  autor  di  prospero  successo; 

Ma  chi  sarà  che  regga  voi  fra  tante 
Varie  procelle,  ov’io  rimanga  oppresso? 
Chi  dei  venti , del  mar,  del  del  ignoto 
Conosce  T influenze,  i siti  e ’1  moto? 

Ma  concedo  che  siano  amici  i venti , 
Tranquillo  il  mare,  e che  torniate  in  corte. 

11  re  non  crederà  gli  strani  eventi 
Che  fingeste  fra  voi  de  la  mia  morte. 
Vorrà  con  le  promesse , o coi  tormenti 
li  vero  penetrar  de  ia  mia  sorte  ; 

E punirà  quel  barbaro  pensiero 

Clie  a me  la  vita , a lui  scemò  l’ impero. 

Meglio  fia  dunque  avventu  rarsi  a l’ onde, 
Che  provar  del  re  nostro  il  certo  sdegno; 
Del  paese  fatai  le  care  sponde 

10  già  scorgo  vicine  a più  d'un  segno. 
Mirate  quegli  augelli , e quelle  fronde 
Colà  vaganti  entro  l’ondoso  regno  : 
Questo  è certo  argomento,  c mai  non  erra, 
Clic  non  lungi  di  qua  sorge  la  terra. 

E che  terra?  Ivi  l’ostro.  Ivi  gl’incensi, 
Ivi  nascon  gli  amomi,  ivi  gli  odori, 

E difendono  sol  quei  regni  immensi 
Pochi,  timidi  e inermi  abitatori. 

Vedrete  come  largo  il  cicl  dispensi 
Al  felice  paese  ampi  tesori  : 

11  mar  di  perle,  I rivi  e le  maremme 
llisplendono  colà  d’oro  e di  gemme. 

A che  dunque  temer?  Duriamo,  amia  ; 
Me  stesso  a tanti  rischj  anch’io  confido; 
Ecco  tranquillo  il  mar,  i’aure  felici; 

Ecco  vidn  T avventuroso  lido. 


EROICI. 

Venti  contrari , e turbini  nemici 
Non  ci  ponno  vietare  il  fatai  nido. 
Duriam  ; non  ha  l’inferno,  o la  fortuna 
Su  la  nostra  virtù  possanza  alcuna» 

Così  tentai  con  provvidi  consigli 
Del  lor  cieco  timor  fermare  il  corso; 

Ma  la  ragion  confondono  i perigli , 

E ricusa  la  fame  ogni  discorso. 

Non  appare  argomento  onde  si  pigli 
Speranza  di  salute  c di  soccorso; 

E ci  stimola  ognor  senso  importuno 
Di  vigilia,  di  sete  e di  digiuno. 

Quando  tale  io  mi  vidi,  a Dio  mi  volsi, 
E in  brevi  detti  i miei  desiri  esposi  : 
Signor,  questi  a la  patria  io  primo  tolsi , 
Ed  immense  ricchezze  a lor  proposi. 

Io  spirato  da  tc  primo  rivolsi 
Queste  lacere  vele  ai  regni  ascosi  : 

0 tu,  signor,  mi  scopri  il  nuovo  polo, 

0 salva  gli  altri , e fa  che  mora  io  solo. 

Dissi  ; e quasi  che  siano  i nostri  affetti 
Favoriti  nel  del  dai  re  sovrano. 

Tosto  volar  duo  candidi  augelietli 
Su  la  mobile  antenna  a destra  mano. 
Questi  sgorgando  armoniosi  detti  [no; 
Temprar  con  lieto  augurio  il  duolo  insa- 
E predissero  altrui,  ch’indi  non  lunge 
La  terra,  onde  volaro,  il  mar  disgiunge. 

Preso  da  tale  augurio  alcun  ristoro, 
Vediam  che  rosseggiava  il  di  cadente, 

E che  d’altri  augcilelti  allegro  coro 
Cantando  raddolcia  T afflitta  mente. 
Fermiamo  il  corso  infìn  clic  i raggi  d’oro 
Spieghi  per  l’orizzonte  il  sol  nascente; 

E con  animo  vario  attende  ognuno 
Che  succeda  la  luce  a l’aer  bruno. 

De  la  somma  Bilancia  il  Sol  correa 
Del  temperato  segno  inverso  il  fine, 

E dopo  otto  carriere  entrar  dovea 
Del  lucido  Scorpione  entro  il  confine, 
Allor  che  di  Tilon  la  bella  Dea 
Le  bramale  scoprì  terre  vicine  : 

Vaga  è la  spiaggia,  e i riguardanti  invita 
D’odoriferi  fior  l’erba  vestita. 

Di  tenerezza  e di  piacer  discese 
A ciascun  per  le  guancie  un  lieto  pianto, 
E ciascun  con  le  palme  al  cicl  distese 
Di  Galizia  adorò  l’ apostol  santo. 

Quinci  rendono  a me  de  l’ alte  imprese 
Con  vario  applauso  il  fortunato  vanto  : 
Tutti  accordano  i delti  a mio  favore , 
Tutti  accusano  umili  il  lor  timore. 

Da  varie  parti  in  su  T amena  riva 


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IL  CONQUISTO 

Concorse  intanto  il  popolo  straniero 
Per  osservar  chi  sia  coliti  che  arriva , 

E qual  sia  la  sua  patria  e ’l  suo  pensiero. 
Pende  al  color  de  la  matura  oliva 
De  gl*  inculti  abitanti  il  volto  nero  : 

Sono  essi  ignudi , ed  agili  e robusti 
Hanno  dai  caldi  raggi  i corpi  adusti. 

Sovra  lievi  battelli  andiamo  al  Ilio, 

E su  il  caro  terren  giunti  in  breve  ora, 
Lagriinando  di  gioia  intenerito 
Ognun  bacia  la  riva,  e ’l  cielo  adora. 

Con  lieta  pompa  e con  solenne  rito 
11  possesso  reai  prendesi  allora  ; 

E ’l  governo  de  l’ Indie  a la  mia  cura 
Conferma  il  vulgo,  e fedeltà  mi  giura. 

Seguendo  gli  abitanti  il  chiaro  esempio, 
A l’ispanico  re  giurano  omaggio  : 

10  dopo  alzo  una  croce,  e fondo  un  tempio 
A memoria  immortal  del  gran  passaggio. 
Quivi  rendo  le  grazie,  e i voti  adempio 
Del  nuovo  mondo,  e del  fatai  viaggio  : 
Concorrou  gl'  Indiani , e mansueti 
Osservano  di  Dio  gii  alti  secreti. 

Lungo  sana,  s’io  raccontar  volessi 
Di  quei  regni  idolatri  ogni  costume  : 
Basta  saper,  che  in  breve  a lor  porgessi 
De  la  fede  cristiana  ii  vero  lume. 

E sol  breve  dirò,  drivi  scorgessi 
D'oro  folgoreggiar  gonfìo  ogni  fiume; 

E clic  nei  monti , preziosi  c fini 
1 diamanti  lampeggino  e i rubini. 

L’aria  è salubre,  e temperato  il  sole. 
Misto  al  florido  aprii  ride  il  settembre. 
Onde  i pomi  congiunti  a le  viole 
Primavera  d'autunno  altrui  rasserabre. 
Donne  sincere  in  semplici  carole 
Mostrano  senza  colpa  igmide  nieinbre  ; 

11  vizio  non  alberga  in  mente  pura, 

A cui  norma  di  legge  è la  natura. 

Producono  le  piante  amomi  c incensi , 


DI  GRANATA.  OS 

Nutre  porpore  e perle  il  ricco  mare, 

Con  fortunata  messe  i campi  immensi 
Danno  miniere  preziose  c rare. 

Par  che  prodigo  quivi  il  ciel  dispensi 
Ciò  che  scarso  e diviso  altrove  appare; 
Con  felice  stagion  la  terra  serba 
Vaghi  i fior,  dolci  i frutti , e verde  l' erba. 

Mentre  io  godea  di  quel  paese  ameno 
Le  delizie  e i tesori,  arriva  al  lilo 
Gente  armata  di  frrccie  e di  vencno. 
Che  move  in  guerra  esercito  influito. 
Senza  fò , senza  legge  e senza  freno 
Corre  a libere  prede  il  vulgo  ardilo; 
Sono  delti  Caribi , e ai  loro  insulLi 
Lasciano  gl’ìndi  imbelli  i campi  Inolili. 

Contra  costoro  a sollevar  gli  oppressi 
Impugnai  l’armi  in  generai  conflitto; 
Ruppi  l’orgoglio,  e l’ impeto  repressi, 

K tolsi  al  giogo  indegno  il  vulgo  afflitto. 

10  primo  dei  Caribi  il  duce  oppressi 
Con  duo  ferite  in  mezzo  al  sen  trafitto; 
Mossa  la  gente  mia  da  tale  esempio 
Fe’  del  barbaro  stuolo  orrido  scempio. 

Vinti  appena  i Caribi , accese  i cori 
De  gl’indiani  ai  nostri  danni  AlcttO; 
Onde  per  rintuzzare  i lor  furori 
Fui  di  pugnar,  d’ incrudelir  costretto. 
S’inchinarono  umili  i perditori , 

E per  legge  accettaro  ogni  mio  detto; 

E fu  mio  vanto  in  sì  remota  sede 
Stabilire  il  battesmo , alzar  la  fede. 

A la  riva  del  inar  poco  lontana 
D’alta  rocca  fondai  poscia  le  mura, 

E con  altri  lasciai  Diego  d’ Arana , 

Che  del  loco  difeso  abbia  la  cura. 

Quinci  scorsa  la  terra,  a cui  d’ Ispana 

11  titolo  preposi  c la  ventura. 

Io  risolvo  portar  del  memorando 
Successo  i primi  avvisi  al  gran  Ferrando. 


CANTO  VIGESIMOQUINTO. 

Parlata  di  Fernando  agii  Spagnuoli  e di  Alimoro  ai  Mori 


Già  di  belliche  trombe  il  suono  altiero 
Chiama  dal  mar  la  sonnacchiosa  Aurora, 
Che  presaga  del  di  sanguigno  e fiero, 
D’un  torbido  vermiglio  11  ciel  colora. 
Sorge  nel  fcdel  campo  il  re  primiero, 

E lieto  in  volto  1 popoli  rincora  ; 

Indi  gli  schiera,  e con  mirabile  arte 
Divide  1 siti , c gii  ordini  comparte. 


Con  sembianza  di  luna  In  doppio  corno 
Il  saggio  re  l’esercito  dispose  : 

Egli  il  mezzo  ritenne,  c parte  intorno 
Col  duca  di  Sidonia  a destra  pose. 

Stese  parte  a sinistra  «al  mezzogiorno, 

E ’l  duca  d’ Alva  a cura  lor  prepose  : 
Stettcr  distinti  In  debiti  intervalli 
A difesa  comun  fanti  e cavalli. 


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96  POEMI 

Fremeano  i (Catalani, c quei  che  manda 
La  fertile  Sicilia  al  destro  lato , 

Quei  che  Maiorca  e Andaluzia  comanda. 
Quei  che  il  freddo  A ragone  avean  lasciato  ; 
Ma  si  vedea  ne  la  sinistra  banda 
Di  Cordova  c Valenza  il  vulgo  armato  : 
Quei  di  Leon,  d’Àsturia,  eque!  che  a prova 
Con  Murcia  alpestre  invia  (bastiglia  Nova. 

Nel  mezzo  intorno  al  re  viene  il  restante 
Del  campo  invitto,  ed  ei  medesmo  è duce, 
E con  augusto  intrepido  sembiante 
Sovra  un  baio  corsier  d’ostro  riluce. 

Fra  i piti  grandi  lo  siegucErnando  avante, 
Seco  al  pari  Darassa  il  re  conduce  ; 

Poi  dice  ad  Allabruno  : ove  la  selva 
Copre  il  fianco  nemico,  i tuoi  rinselva. 

Quando  Ha  poscia  il  gran  conflitto  acce- 
Tu  del  campo  africano  urta  le  spalle,  [so, 
Ond'egli  ria  con  maggior  danno  offeso, 

E di  sangue  nemico  empi  la  valle. 

Te  di  tale  opra  esecutore  ho  preso. 

Che  puoi  della  vittoria  aprire  il  calle  : 
Cosa  nuova  da  te  non  si  richiede. 

Ma  l’usato  valor,  l’usata  fede. 

Andrò  nel  bosco,  il  ravalicr  rispose, 
Per  insolite  vie  come  ti  aggrada , 

E dove  più  saran  Tarmi  dannose, 

A la  vittoria  io  li  aprirò  la  strada. 

Ben  è ragion  che  tu  T usate  cose 
Ti  prometta,  o signor,  da  la  mia  spada  : 
Mi  fla  legge  fatale  il  tuo  comando  : 

Vivrò  vincendo,  o morirò  pugnando. 

Tacque,  c di  sua  fortuna  i duri  eventi 
Troppo  veri  augurò  con  questi  detti  : 
Indi  i suoi  di  rapine  e d’ ira  ardenti 
Entro  al  bosco  vicln  guida  ristretti. 
Trascorre  il  re  veloce,  c a Taltre  genti 
Propon  di  nuove  glorie  usali  effetti  ; 

E magnanimo  parla  in  tal  maniera 
A l’esercito  suo  di  schiera  in  schiera  : 

Se  non  fossero  a rne  per  tante  prove 
Note  T opere  vostre,  o miei  soldati. 
Forse  in  voi  tenterei  con  arti  nove 
Seminar  di  virtù  sensi  onorati. 

Direi  che  le  vittorie  e i premj  altrove 
Sospirati  da  voi  sono  adunali 
In  questo  giorno  appunto,  c in  questo  loco, 
Dove  immenso  11  guadagno,  e ’1  rischio  è 
poco. 

Direi  che  in  quelle  schiere  ed  In  quel 
È riposta  dei  Mori  ogni  speranza  ; [duce 
Onde  , se  il  valor  prisco  in  voi  riluce. 
Vinti  costor,  non  altro  intoppo  avanza. 


EROICI. 

Direi  che  quella  turba  in  guerra  adduce 
Priva  d’armi,  d’ardire  e d’ordinanza. 
Non  rispetto  d’onor,  legge  di  fede. 

Ma  con  tema  servii  brama  di  prede. 

Direi  eh* audace  si,  ma  non  esperto 
D’arti  guerriere  il  capitan  garzone 
Forse  nei  boschi  d’orrido  deserto 
Con  le  belve  africane  ebbe  tenzone. 

Ma  Tonor  di  tal  opra  e di  tal  merto 
Diasi  a privato  awcnturier  campione; 
D’altra  lode  si  vanta,  e d’altra  legge 
Chi  gli  eserciti  aduna,  e chi  gii  regge. 

Dirci  più  chiaro,  e vi  porrei  davante 
De  la  perdita  il  danno,  e più  lo  scorno. 
La  patria  lagrhnosa  e supplicante, 

I.’ afflitte  mogli,  e i mesti  figli  intorno, 
lo  vi  direi  che  tante  ingiurie  e tante 
O vendicar  dovete  in  questo  giorno, 

O che  avete  a patir  miseri  servi 
Del  Moro  vincitor  gli  odj  protervi,  [glio 
Ma  ciò  tralascio,  e rammentar  non  vo- 
Quanto  acerbo  saria  mirar  da  gli  empj 
Con  grave  sì , ma  inutile  cordoglio 
Violati  i sepolcri , ed  arsi  i tempj. 
Pensate  di  veder  barbaro  orgoglio 
Far  de  1 teneri  figli  orridi  scempj  ; 
Pensate  di  veder,  che  prigioniere 
Servono  a sozzo  amor  le  donne  ibcre. 

Tutto  lascio  da  parte,  c non  ritardo 
Con  le  parole  mie  le  vostre  prove , 

Nò  propongo,  o miei  fidi,  altro  riguardo 
A la  virtù  già  conosciuta  altrove. 

50  che  voi  non  temete  il  suon  bugiardo 
Di  linguaggio  slranier,  di  genti  nove; 
Tirchi,  Egizi,  Etiopi  ed  Indiani 
Sono  vani  romori , e nomi  vani. 

Quante  volte  da  noi  vinti  restaro 
In  varie  guerre  i Saracini  c i Mori, 

Da  cui  per  vanto,  c per  trofeo  più  chiaro 
Questa  gente  deriva  i suoi  maggiori? 
Con  tra  il  ferro  cristian  dehil  riparo 
Son  di  cuoio  e di  lin  rozzi  lavori  : 

Durate  voi , che  in  una  breve  pugna 

51  vince  il  campo,  e la  città  si  espugna. 
Così  poi  goderà  dopo  mille  anni 

Intiera  libertà  T afflitto  regno, 

E del  vostro  valor,  dei  vostri  affanni 
Nobil  frutto  sarà  fatto  sì  degno.  [ni 
Mache  più?  Tonor  vostro,  e gli  altrui  dan- 
lo  preveggo  distinti  a più  d’un  segno  : 
Son  vosco,  ma  per  me  nulla  desio; 

Le  prede  a voi , serbo  le  glorie  a Dio. 
Disse , e tonò  da  la  sinistra  il  cielo , 


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IL  CONQUISTO 

Un  baleno  indorò  con  l'aria  il  campo , 

E dei  suoi  detti  accompagnando  il  zelo 
A ia  nuora  battaglia  accese  il  campo. 
Cinto  Michel  di  luminoso  volo 
Fu  l' autor  di  quel  tuono,  e di  quel  lampo  : 
Dei  Cristiani  a favor  schierò  quel  segno 
(Cosi  crede  pietà)  l’empireo  regno. 

Da  l’altra  parte  il  giovine  Alimoro 
Con  forma  cgual  l’esercito  dispose  : 

Per  sè  tenne  nel  mezzo  il  popol  moro , 

Gli  Egizi , e quel  di  Barca  a destra  pose. 
Collocò  da  sinistra  incontro  a loro 

I Neri , e gii  Etiopi , indi  prepose 

II  circasso  Orcomanne  al  destro  lato  ; 

Da  Termute  il  sinistro  era  guidato. 

Chiama  poscia  i Numidi  e i Trogloditi, 
Esperti  sagittari,  e loro  impone 
Che  precorrano  ognun  lievi  e spediti , 

E dian  principio  a la  crudel  tenzone. 

Con  presidio  opportun  lascia  muniti 
Gli  steccati , e gl'infermi  ivi  ripone, 

E gl’ inutili  a l’armi  : in  colai  guisa 
La  gente  saracina  era  divisa. 

Schierato  il  campo,  il  giovine  africano 
Scorrendo  va  sopra  un  destrier  feroce 
Di  pel  morello , e di  tre  piè  balzano , 

E col  guardo  favella , c con  la  voce  : 

Non  varcaste  l’Atlante,  e l’Oceano, 

E de  l’erculeo  mar  l’orrida  foce, 
Guerrieri  miei,  perchè  arrivali  in  Spagna 
Voi  perdeste , e fuggiste  a la  campagna. 

So  che  dal  patrio  lido  aura  d’ onore 
VI  spinse  a liberar  gli  oppressi  amici  j 
E so  che  voi  col  solito  valore 
N’anUrete  a soggiogar  gli  empj  nemici. 
Dunque  inutil  sarà  che  al  vostro  core 


DI  GRANATA.  9T 

Io  procuri  accostar  caldi  artifici 
Per  infiammarvi  a quella  pugna  istcssa 
Chevoi  tanto  bramaste, e che  si  appressa. 

Sol  dirò  che  in  breve  ora  èqui  ristretta 
Libertà,  servitù,  vergogna,  e gloria, 

E che  quinci  da  voi  PAfric’  aspetta 
0 di  biasmo,  o di  lode  alta  memoria. 

Se  vincete,  lo  vedrò  tosto  soggetta 
I.a  Spagna  riverir  la  mia  vittoria  ; 
Granata  goderà  gli  antichi  onori , 

E saran  vostre  prede  ampi  tesori. 

Nè  vi  rechi,  o soldati , alcun  spavento 
0 Ferrando,*  l’esercito  cristiano;  fto. 
Poiché  alfine  il  lor  grido  è un  fumo,  un  ven- 
Che  sparisce  vicino , c appar  lontano. 
Quel  titolo  di  Grande  è un  ornamento, 
Che  dona  un  re  sagace  a un  popol  van«, 
Che  non  sa  de  la  guerra  i duri  modi , 

Ma  fra  i lussi  di  corte  usa  le  frodi. 

Vinse  talor,  noi  niego,  e di  ciò  fanno 
Questi  campi  distrutti  aperta  fede  ; 

Ma  fu  de  l’ onor  suo , del  nostro  danno 
La  discordia  dei  Mori  unica  sede. 

Or  non  vagliono  più  l’arte  c l’ inganno; 
Sofferenza  c valor  l’ opra  richiede  : 

A noi  dunque  farà  breve  contrasto 
Di  gente  ambiziosa  inutil  fasto. 

Su,  a l’armi  su, voi  non  sperate  aitron- 
Chè  vincere,  o morire  oggi  conviene  ; [de  ; 
Del  procelloso  mar  le  torbide  onde 
Tolgono  di  fuggir  l’ ultima  spene. 

0 drizzate  i trofei  su  queste  sponde , 

0 morite , o vivete  a le  catene. 

Ma  del  vostro  valor  perchè  diffido  1 
Noi  vinccrem,  voi  seguitate,  io  guido. 


& 


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POEMI  SACRI 


TORQUATO  TASSO. 


LE  SETTE  GIORNATE  DEL  MONDO  CREATO. 


GIORNATA  PRIMA. 

Nell»  quale  Dio  creò  il  Croio , U Terre,  e la  Luce,  e la  distinse  dalle  tenebre. 


Padre  del  cielo , e tu  del  Padre  eterno 
Eterno  Figlio , c non  creata  prole . 

Dell’ lmmulabil  mente  unico  parto; 
Divina  iminago,  al  tuo  divino  esempio 
Egual  ; e lume  pur  di  lume  ardente  : 

E tu,  che  d’aml>o  spiri,  e d'ambo  splendi, 
O di  gemina  luce  acceso  Spirto , 

Che  se’  pur  sacro  lume , e sacra  fiamma , 
Quasi  lucido  rivo  in  chiaro  fonte , 

E vera  immago  ancor  di  vera  iminago , 

In  cui  sè  stesso  ’1  primo  rscmpioaggu  iglia 
(Sedircontiensi).c  triplicato  Sole,  [stri; 
Clic  Palme  accendi,  c i puri  ingegni  i 1 In- 
sani o don,  santo  messo,  c santo  nodo, 
Che  tre  sante  persone  in  un  congiungi  ; 
Dio  non  solingo,  in  cui  s'aduna  ’l  tutto, 
Che  ’n  varie  parti  poi  si  scema  e sparge  : 
Termine  d’infinito,  alto  consiglio, 

E dell'ordine  suo;  divino  Amore, 

Tu  dal  Padre,  c dal  Figlio  in  me  discendi, 
E nel  mio  core  alberga  ; e quinci  c quindi 
Porta  le  grazie,  e ’nspira  i sensi  c i carmi, 
Perch'io  canti  quel  primo  alto  lavoro, 
Ch’fc  da  voi  fatto,  c fuor  di  voi  risplcndc 
Maraviglioso,  c '1  magistero  adorno 
Di  questo  allor  da  voi  creato  mondo , 

Jn  sci  giorni  distinto.  0 tu  l’ insegni,  [so, 
Cbc’n  un  sol  punto  chiudi  1 spazj.c’lcor- 
Che  per  oblique  vie  sempre  rotando 
Con  mille  girl  fa  veloce  il  tempo. 


Piacciati  ancor  clic  del  tuo  foco  all'  aura 
Canti  ’l  settimo  di,  soave  e dolce 
Riposo  eterno,  in  cui  prometti,  e rendi 
Non  pur  sedi  lucenti,  e gioia  e festa. 

Ma  di  breve,  terrena,  incerta  guerra 
Alfin  certe  lassù  corone  e palme, 

E trionfo  celeste.  0 pure  intanto 
Questa  quiete,  in  cui  m'attempo,  e piango 
(Se  quiete  è quaggiù  fra  '1  pianto  c l’ira) 
Somigli  quella,  a cui  n’invita  e chiama 
D'iiifallibil  promessa  alta  speranza. 
Ch’ai  suon  d'eterna  gloria  ’l  cor  lusinga. 
Tu  le  cagioni  a me  del  nuovo  mondo 
Rammenta  ornai , prima  cagione  eterna 
Delle  cose  create  innanzi  al  giro 
De’  secoli  volubili  e correnti. 

E qual  pria  mosse  Te,  cui  nulla  move, 
Motor  superno,  alla  mirabil  opra. 

Già  novissima  esterna,  ornai  vetusta,  [bo  ; 
Che  lutto  aduna  e tutto  accoglie  ’n  grem- 
E serba  ancor  le  prime  antiche  leggi , 
Mentre  risplcnde  pur  di  luce  c d’oro 
E di  vari  colori  e varie  forme 
Mirabilmente  figurata  a’  sensi. 

Dimmi,  qual  opra  allora,  oqual  riposo 
Fosse  nella  divina  e sacra  mente 
In  quel  d'eternità  felice  stato. 

E ’n  qual  ignota  parte,  e ’n  quale  idea 
Era  l'esempio  tuo,  celeste  Fabbro, 
Quando  facesti  a te  la  reggia  e ’l  tempio. 


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LE  SETTE  GIORNATE 
Tu,  che ’l  sai,  tu  ’l  rivela:  e chiare  e conte, 
Signor,  per  me  fa’  l’opre,  I modi  e Parti. 
Signor,  tu  se’  la  mano.  Io  son  la  cetra , 
La  qual  mossa  da  te , con  dolci  tempre 
Di  soave  armonia  risuona , e molce 
D'adamantino  smalto  1 duri  affetti. 
Signor,  tu  se’  lo  spirto , lo  roca  tromba 
Son  per  me  stesso  alla  tua  gloria  ; e langue. 
Se  non  m’ Inspiri  tu , la  voce  e ’l  suono 
Tu  le  tue  maraviglie  In  me  rimbomba. 
Signore  : e Ila  tua  grazia  ’l  nuovo  canto  : 
Perchè  non  pur  s’ ascolti  In  riva  al  Tebro, 
Al  bel  Sebeto,  all*  Arno,  al  re  de*  fiumi , 

Al  Mincio,  al  Brembo,  al  Rcn  gelato,  all’  I- 
Ma  dove  ’l  Nilo  i suo’  vicini  assorda,  [stro, 

E quei  che  fa  più  sordi  errore  e colpa , 
Desta  per  tempo , o tardi  a’  sacri  accenti. 

Pria  che  facesse  Dio  la  terra  e ’l  cielo, 
Non  eran  molti  Del , nè  molti  regi 
Discordi  al  fabbricar  del  nuovo  mondo. 

Nè  solitario  in  un  silenzio  eterno 
In  tenebre  viveasi  ’l  sommo  Padre- 
Ma  col  suo  Figlio  e col  divino  Spirto 
In  sè  medesmo  avea  la  sede  e ’l  regno; 

De’  suo’  pensati  mondi  alto  Monarca. 
Perch’opra  fu  ’I pcnsicr  divina,  interna, 

Nè  d'uopo  a lui  facean  le  schiere  e l’armi, 

Nè  teatro  alla  gloria,  in  cui  rlsplende 
Solo  a sè  stesso , e parte  altrui  s' Involve. 

Ma  narrarnon  si  può,  nè  ’n  spazio  angusto 
Cape  dell' Intelletto  umano  c tardo, 

Come  ’n  sè  stesso,  e di  sè  stesso  ’l  Verbo 
Generasse  ab  eterno  ; c ’l  sacro  modo 
Di  sua  progenie;  e l’ineffabll  parto 
Del  suo  Figliuol , clic  ’n  maestà  sublime 
A sè  medesmo  adegua  assiso  a destra. 
Taccia  l’amica  ornai  Grecia  bugiarda 
La  progenie  di  Celo  e di  Saturno, 

E de’  cacciati  Del  le  tronche  parti  ; 

E i Giganti  c 1 Titani  al  fondo  avvinti 
Della  tartarea,  tenebrosa  notte; 

E gli  usurpati  seggi , c ’l  figlio  ingiusto 
Contaminato  dal  paterno  oltraggio; 

E quella , che  dal  capo  el  fuor  produsse , 

Dea  favolosa,  e collo  scudo  e l’asta; 

E con  Osirl  c col  latrante  Anubl 
Taccia  i suo'  mostri  11  tenebroso  Egitto, 

Che  d'antiche  menzogne  ’l  vero  adombra. 

0 (se  n’è  degno)  il  chiaro  suono  ascolti 
Di  lei,  ch'uscio  dalla  divina  bocca 
Dell'altissimo  Padre  innanzi  ai  tempo 
Delle  cose  creale , e seco  alberga 
D’ antica  eternità  gli  eccelsi  monti , 


DEL  MONDO  CREATO.  99 

Primogenita  sua  nell'alta  luce, 

A cui  la  mente  umana  aspira  indarno. 
Onesta  nata  di  lui  figliuola  eterna 
Sempre  fu  seco,  e ’l  raggirar  de'  lustri 
Non  l'è  vicino,  o ’l  variar  degli  anni. 

E non  erano  ancor  gli  oscuri  abissi , 

Nè  rotto  avean  la  terra  i primi  fonti , 
Quando  fu  conccputa;  e l'erto  giogo 
Non  alzavano  ancor  Pirene  ed  Alpe, 

Ossa,  Pello  ed  Olimpo  e ’l  duro  Atlante 

0 gli  altri  monti  ; e dall'  aperto  fianco 
Non  correan  ondeggiando  al  mar  i fiumi 
Dalle  quattro  del  mondo  avverse  parti , 
Quando  lei  partoriva  ’l  sommo  Padre. 
Seco  era  allor  eh’ a’  ciechi  abissi  intorno 
Egli  facea  l’oscuro  cerchio  e T vallo; 

Seco  era  allor  che  ’n  elei  le  stelle  affisse, 
K ('acque  sue  librando  appese  in  alto; 
Seco  era  allor  ch’ali’ Ocean  profondo 
Termine  pose , e diè  sue  leggi  all’  onde. 

E quand’ei  collocò  dell’ampia  terra 

1 fondamenti , era  pur  seco  all' opre. 

Seco  ’l  tutto  fornio  di  giorno  in  giorno. 
Quasi  scherzando  ; e fu  l’oprar  diletto. 

Ma  questa  fatt'avea  l’aurato  albergo 

Di  chiare  stelle  e d’ oro  adorno  e sparso, 
Alla  creata  Sapienza , e ’n  parte 
Lei  dell'eternità  felice  e lieta. 

Ma  quell'albergo  in  disusate  tempre 
Per  sua  natura  si  trasmuta  e cangia  ; 
h nel  suo  variar  già  quasi  algente 
Pur  diverrebbe  ottenebrato  in  parte; 

E qtial  caduca  e ruinosa  mole 
' aclllar  già  potria;  però  s’appressa, 

E giunge  a lui  che  gli  è sostegno,  e ’l  folce, 

E tutto  del  su’amor  l’illustra  e ’nfiamma, 
Talché  non  si  dissolve  e non  paventa 
Morte , o mina  mai , nè  caso , o crollo 
Per  vicenda  di  tempo,  o per  rivolta  : 
Benché  pur  d’IssTon  la  ruota , e il  pondo 
Del  Mauri tano  stanco  altri  racconti,  (na 
Ma  ’n  lui  s’acqueta , e ’n  contemplar  s’eter* 

La  celeste  magion,  che  ’n  sè  n'accoglie. 

E quella  da  principio , a Dio  presente  , 

Pria  ch’el  facesse  ’l  suo  lavoro  adorno, 
Seco  era  nel  principio  aliorch’ci  volle 
formar  co'  detti  le  mirabil  opre. 

É buono  Dio , tranquillo  e chiaro  fonte. 
Anzi  mar  di  bontà  profondo  e largo, 

Che  per  invidia  non  si  scema , o turba  : 

Ma  quel  eh' è buono  c ’n  sè  perfetto  ap- 
pieno, 

La  sua  bonlate  altrui  comparlc , e versa. 


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100  POEMI 

Dunque  ei  di  sua  bontà  fecondo  e colmo, 
La  sparge,  quasi  un  mar  che  ronde  spar- 
ga ; 

La  spiegò  come  un  Sol  che  spiega  1 raggi  : 
E volere  e natura  In  un  congiunse. 

E quinci  fur  quasi  germogli  o parti , 

Le  cose  poi  creale,  in  cui  si  scorge 
Più  c men  chiaramente;  e dall’ eccelse 
Insin  all’ ime  ancor  riluce  e splende. 

E ’n  tutte  ’l  Creatore  alto  vestigio 
Dì  lei  c’impresse,  c lìgurolle  a dentro. 
Ma  della  sua  bontà  la  vera  immago 
In  altre  appare , c con  sembianza  illustre 
Son  degne  d’innalzare  al  ciel  la  fronte. 
Di  sua  divinità  parte  mostrando. 

Anzi  non  è si  vii  di  pregio,  o ’n  vista 
Cosa  fra  le  create , o si  lontana 
Dalle  pure  del  ciel  lucenti  forme 
Per  faticosa  via  non  move , o serpe  ; 

0 non  s’ appiglia  ’n  terra,  o ’n  dura  pietra, 
Che  bagni  ’l  mar,  non  si  ritrova  affissa  ; 

0 non  giace  in  palude,  o ’n  ima  valle, 

In  cui  non  si  ritrovi , e non  si  mostri 
Mirabil  arte  del  suo  Mastro  eterno , 

Che  fc’  di  nulla  ’l  magistero  c l’opre. 
Questa  fu  l’ una  del  creato  mondo 
Alta  cagion,  ch'l  vari  effetti  adempie 
Di  sè  medesma,  ed  infinita  avanza. 

E non  mai  de’  suo*  doni  avara  c parca , 
Sua  largità  comparto.  A questa  arroge 
La  gloria  sua,  che  star  non  deve  occulta. 
Ma  come  in  ciel  fra  gli  stellanti  chiostri , 
In  quel  sacro  al  suo  nome,  eterno  tempio, 
È chi  l’ adori , e con  perpetuo  suono 
D’alta  voce  immortale  il  lodi,  e canti  : 
Sicché  degli  onor  suoi  lieto  rimbomba 
L’Orto c l’Occaso, l’Aquilone  c l’Austro; 
E dell’ eternità  gli  anticld  monti 
Risuonan  tutti  all'armonia  superna; 

Cosi  deve  quaggiuso  aver  la  terra 
Adoratori , c chi  ’n  sonoro  carme 
Sacrificio  di  laude  a Dio  consacri  : 
Perchè  quanto  adempiè  superna  ed  alta 
Bontà  divina,  ancor  sua  gloria  adempia, 
E colmi  il  tutto,  c co’  suo'  raggi  illustri 
Per  le  parti  di  mezzo  c per  l’ estreme. 

Già  di  quel  eh’  ab  eterno  in  sè  prescrisse 
Dio,  di’ è senza  principio  e senza  fine, 
Era  giunto  ’l  principio  c giunto  ’l  tempo 
Col  principio  del  tempo.  E qual  di  gorgo, 
0 di  pelago  pur  tranquillo  ed  alto, 
Chcsenza'lmotoel’  onde, e posi  e stagni, 
Esce  talvolta  ’l  rapido  torrente  : 


SACRI. 

Tal  dall’  eternità , che  ’n  sè  raccolta 
Si  gira,  e di  sè  stessa  è sfera  e centro. 
Ornai  prendeva ’l  tempo  ’l  molo,  c’i  corso, 
Quando  ’l  suo  Creator  lo  spazio  al  passo, 
E la  misura  diè , lo  stato  eterno. 

Gl’ invisibili  oggetti  appena  intesi, 

(Se  lece  dir  a> ariti)  erano  acanti. 

E l’origin  degli  altri  esposti  a’  sensi, 

Già  cominciava  alior,  che  ’l  sommo  Padre, 
Che  ’l  suo  Figlio  c ’l  suo  Spirto  all’ opre 
esterne 

E comuni  fra  Ior,  non  lascia  addietro. 
Diè  ’l  pensato  principio  al  nuovo  mondo, 
Più  d’ogni  creatura  antico  e prisco. 

Il  sommo  crei  creando,  e l’ima  terra. 

Ma  come  di  sublime  c chiaro  albergo, 
Glie  pareggi  le  cime  agli  erti  colli  ; 

E gli  aurei  tetti  infra  le  nubi  asconda; 
li  principio,  che  ’n  lui  si  loca  e fonda. 
Non  è l’ albergo  ancora  : c ’n  calle  obliquo 
Non  è ’l  principio  suo  l’istesso  calle  : 
Così  lo  stabil  punto , onde  si  volge  [po, 
li  tempo  in  sè  non  è ’l  suo  spazio  o T torn- 
eile parte  dal  principio,  e ’n  lui  ritorna. 
Dio  fece  nel  principio  ’l  cerchio  estremo, 
E quella,  eh’ a noi  par  costante  e salda 
Sede  , pur  fece  in  mezzo  all'ampio  giro; 
Nè  fu  del  suo  poter,  che  sia  disgiunto 
Dell’eterno  volere , ombrato  effetto , 
Come  lalor  del  corpo  opaco,  e denso  [gio; 
È l’ombra,  e del  lucente  ’l  lume  e ’l  rag- 
E ’l  voler  fu  potere  ed  opra  eletta. 

Ma  siccome  di  creta  in  Lesbo,  o ’n  Samo 
Mille  vasi  compone,  e ’n  mille  guise 
Il  suo  buon  mastro  li  colora  e pinge  ; 

Nè  consuma  ’l  poter  coll’arte  insieme. 
L’arte  infinita,  onde  pon  fine  all’ opre  : 
Cosi  del  mondo  il  Fabbro  eguale  a un 
mondo 

Non  ha  la  possa,  che  soverchia  ’l  tutto, 
E mille  mondi  e l’infinito  eccede. 

Quel  che  ne’  vari  e smisurati  campi. 

In  cui  trovar  non  lece  il  sommo,  o l’imo, 
Nè  ’l  manco  ivi  segnar,  nè  ’l  lato  destro; 
Dal  vago  incontro  di  minuti  corpi 
Commossi  a caso,  e ’n  lungo  error  volanti, 
Simili  a quei  eh’ ove  risplcnde  ’l  Sole, 
Talor  veggiamo  in  varia  turba  c mista, 
Fa  vari  mondi , e li  riforma  c guasta, 

E di  sito  diversi  e di  figura  : 

Meutr’  egli  insieme  gii  congiunge,  o parte, 
Tela  forma  d’Aracnc,  e fral  contesto. 
Che  leggermente  poi  disperde,  o solve 


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tot 


LE  SETTE  GIORNATE 
Della  fortuna  errante  ’l  solilo  c l'aura, 

0 'I  dubbio  respirar  del  corso  Incerto. 

Ma  queste  (se  dir  lece)  alte  colonne  [già, 
Forma  in  ben  salda  base,  c ’n  lor  s’ appog- 
Come  a lui  piace , la  profonda  terra  ; 

E crollar  non  la  può  tempesta,  o turilo, 
Ma  solo  II  suo  voler  la  move  e scuote. 

Il  suo  voler,  che  d'infiniti  abissi 
Ha  tenebrose,  oscure,  alle  latebre, 

In  cui  s’ aperti  avesse  i ciechi  lumi 
Quel , eh’  1 termini  tolse  al  vasto  mondo , 
Le  fiammeggianti  mura  a terra  sparse, 

E ’l  vano  immenso  col  pensier  trascorse, 
Non  avria  dato  a Dea  fallace  ed  orba 
Della  terra  c del  del  lo  scettro  e '1  regno. 
Folle!  clic  non  conobbe  ’l  modo  e l’arte, 
Per  cui  creato  è ’l  mondo,  al  primo  esem- 
Chc  ']  divin  Architetto  in  sè  dipinse  [pio, 
Maggior  dell'  opraassai,  che  poscia  offerse 
Quasi  da  contemplare  oggetto  al  sensi. 

Ma  qual  mastro  terren  scolpisce  c forma 
Di  preziosa  gemma  In  giro  angusto 
Il  ciclo  e I suo’  lucenti  e vaghi  segni  ; 

Tal  11  Fabbro  immortale  In  queste  im- 
Sparse  di  varie  luci  erranti  sfere  [presse 
L’ interna  idea , cui  non  è pari  il  mondo  : 
E da  lei  stanca  è la  materia , e perde , 

La  qual  creata  fu  dal  primo  Mastro , 

Che  fece  l'opra,  e non  eletta  altronde, 
Ch’ altra  origine  a lei  si  cerca  indarno. 
Ella  al  suo  Creator  si  volge , c veste 
Vaga  di  sua  beliate  : e ’n  rozzo  grembo 
Mille  forme  colora  ; e in  mille  lumi 
Della  sua  luce  in  varie  guise  accende. 

Chi  pone  1 due  principj , c ’l  doppio  fonte  ; 

E quinci  1 beni  sol  deriva,  quindi 
Origina  di  mali  ampi  torrenti  ; 

0 divide  l'imperio,  o ’n  due  l’adegua 
E di  tenebre  un  Dio  si  finge , ed  orna , 

E fa  di  sua  malizia  a lui  corona. 

E se  ciò  fosse,  in  contrastar  rubella 
I.a  materia  sarebbe,  o schiva,  o tarda 
Si  mostreria  sotto  ’1  contrario  manto 
A quel  che  la’nvaghì  pur  dianzi  e piacque. 
Ma  noi  veggiam  eh’  ella  bramosa  e pronta 
Le  forme  accoglie,  e le  trasmuta  e varia , 
Come  piace  a colui  che  si  l’ adorna. 

Forse  nelle  più  belle  è più  costante  ; 

Ed  in  guisa  di  lor  sue  brame  adempie, 
Che  spogliar  sen  ricusa,  anzi  che  ’l  mondo 
Ruinoso  vacilli  ; e ’l  corso  obliquo 
Cessi  del  Sole  e dell’ erranti  stelle. 

Ma  sia  pur  questa  in  elei  materia,  od  altra 


DEL  MONDO  CREATO. 

D'altra  ragion  : d’eternità  superba 
La  materia  non  vada , e non  s’agguagli 
Per  antica  vecchiezza  e veneranda 
A quel  degli  altri,  e suo  vetusto  Padre, 
E vetusto  Signore  e Dio  vetusto. 

Dunque  lo  Spirto  suo  non  poscia,  od  ante, 
Ma  colle  forme  la  creò  spirando, 

E di  bellezza  e di  bontà  divina 
Spirollc  al  seno  un  desiderio  interno. 

Un  vago  istinto,  anzi  un  leggiadro  amore, 
Ch’alia  natia  diti  fine  orrida  guerra, 

Per  cui  ritrosa,  fella  c ribellante 
Era  a sè  stessa , in  suo  furor  discorde  ; 
Se  dir  si  può  che  mai  la  terra  al  foco 
Fosse  confusa  In  quella  orribil  mischia. 
Nè  foco  era,  nè  terra,  e l’aria  e Fonde 
SI  distruggean  nelle  contrarie  tempre. 

E ciascuna  di  lor  nel  dubbio  acquisto 
Se  medesma  perdeva , e fiera  morte 
Era  la  sua  vittoria,  e l’imo  al  sommo 
Male  adegualo,  e mal  confuso  appresso. 
Onde  quella  incomposta  e rozza  mole 
Nè  tutto  era,  nè  nulla,  c nulla  parve 
Fu  questa  forse  immaginata  guerra , 

E d' altra  guerra  pur  immago  ed  ombra , 
E simulacro  di  tenzon  maligna , 

Che  fe’  natura  al  suo  Fattore  avversa. 

Ma  l' alto  Dio  creò  quasi  repente 
La  materia  c le  forme.  E qual  sia  prima 
Oquesta,o  quelle,  io  non  mi  glorio  e vanto 
Già  di  provare  in  periglioso  arringo , 
Dall'accademia  uscito  c dal  liceo. 

Sla  pur  l’arte  divina  è prima , c vince 
L' altre  per  dignitalc,  c vince  ’l  tempo. 
Ma  l'arte  umana  pargoleggia,  c sembra 
Negli  scherzi  fanciulla  all’ opre  intorno. 
Prima  vestia  le  mansuete  agnelle 
La  bianca  lana;  c poi  la  tesse,  c Unge 
11  buon  testorc,  e ’n  rugiadosa  conca 
Porpora  coglie  pur  Sidone  e Tiro, 

Quasi  marini  fiori.  E l'alto  pino 
Pria  con  acute  foglie  in  verdi  monti 
Frondeggia,  o pur  l'abete,  o l’orno,  o ’l 
Poscia  F arte  ne  fa  le  navi  e l’ aste,  [cerro  ; 
Prima  nell’ampio  sen  la  terra  avara  [ma 
Nasconde  ’l  ferro,  e quinci  ’l  tragge,  e for- 
L' industria  umana  o spada,  o lucid'  elmo, 
Od  innocente  a’  duri  campi  aratro. 

Ma  quella  innanzi  al  tempo,  e innanzi  al 
Arte  divina  fe’  la  terra  e ’l  cielo,  [mondo 
Ed  intiero  ciascun , nè  parte  addietro 
Lasciò  ; ma  riempi  gli  estremi  e ’l  mezzo. 
E ’n  lor  dispose  ’l  foco  e l’ aria  e l’ onda , 


102  POEMI 

Ch'alia  terra,  gravosa  c ferma  sede. 
Stese  le  braccia  mormorando  intorno, 
Vaga , lnstabil , ma  grave  ; e ’n  giro  cinta 
Fu  dall'  aria  più  vaga  c più  leggiera. 

E levissimo  '1  foco  a lei  corona 
Fece , e vicino  al  del  suo  loco  scelse. 
Cosi  l’ arte  divina  insieme  avvinse, 

Quasi  catena  inanellata  c salda. 

Gli  elementi  fra  lor  vari  c discordi, 

E fra  gli  estremi  per  natura  avversi 
Pose  in  parte  contrari , in  parte  amici , 
In  due  di  mezzo  : e fe'  costante  c fermo 
In  qnesta  guisa , e ’ndissoltibil  nodo. 
Invisibile  ancor  la  nuda  terra 
Era  dianzi  creata , e non  adorna , 

Quasi  nuovo  teatro , e voto  I seggi , 

In  cui  non  sla  chi  miri , o pur  contenda  : 
Chi  nati  ancora  1 miseri  mortali 
Non  erano  a vederla , c vasta  ed  erma 
Solitudine  incuba  i campi,  e 1 monti 
Empica  d’ orrore , e le  deserte  arene , 
Non  spiegavano  ancor  l' ombrose  chiome 
Gli  alltcri  eccelsi  ; e di  lor  fronde  ed  ombra 
Non  facean  vaga  scena  a'  verdi  colli. 

Non  fiorivano  ancor  rose  e ligustri  ; 

E 1 giacinti  e i narcisi  c gli  altri  fiorì 
Non  diplngeano  'I  seno  a prati  erbosi , 
Ni  fean  lieta  ghirlanda  a’  chiari  fonti. 

Era  quasi  coperta  ancor  dall’  acque  ; 

Chi  parca  tenebroso  c fosco  'I  velo , 

Ond'  ascosa  tcnea  l’ orrida  faccia 
E le  squallide  membra  e '1  rozzo  grembo, 
Quasi  attonita  ancor  l’ antica  madre. 

ET  del  sublime  ancor  non  era  adorno; 
Ni  ’l  miratili  lavoro  in  lui  distinto 
Splcndea  d’ un  bel  sereno  e d’aurei  fregj, 
E di  segni  lucenti.  E 'I  Sol  rotando 
Non  scuotca  l’immortale  ardente  lampa. 
Nè  la  candida  Luna  in  colmo  giro 
Gli  si  opponeva , o con  argentee  corna 
Per  distorto  cammin  volgeva  ’l  corso. 
Mancavan  le  carole  e ’l  suono  c 1 cori , 

E delle  stelle  fisse  c dell' erranti; 

Lui  non  clngeano  ancor  l’altc  corone; 
Ni  creata  era  ancor  la  vaga  luce. 

Ma  sulla  faccia  degli  oscuri  abissi 
Eran  tenebre  oscure.  In  tale  aspetto 
Nascendo  ancor  non  si  vedeva  ’l  mondo. 
Ma  qual  fur  (se  spiarlo  a noi  conviene) 
Quelle  tenebre  antiche  e quegli  abissi  ? 
Quando  non  anco  il  Sole  ad  altre  genti 
Portando  T giorno  : a noi  la  notte  e l'ombra 
Algente , usda  dal  grembo  opaco  e denso 


SACRI. 

Della  terra , e giungeva  insln  al  delo  ? 
Ni  gli  molte  potenze  incontra  opposte 
Gli  abissi  fur,  com' altri  estima  a torto  : 
Ni  le  tenebre  furo  al  bene  avverse , 

E di  gran  forza  potesti  maligna. 

Perchè  se  fosse  pari  al  bene  il  male 
Di  possa  c dì  valor,  perpetua  guerra 
Saria  fra  loro,  anzi  perpetua  morte. 
Morendo  ’nsieme  i vincitori  e i vinti. 

Ma  se  T ben  di  potere  avanza  e vìnce , 
Perchè  non  si  distrugge  ’i  male,  e sterpa? 
Deh  ! sari  mai  che  senza  mali  il  mondo 
Solo  di  beni  abbondi?  e parte,  o loco 
Più  non  sì  lasci  all'Importuna  Morte? 
Ma  trionfi  la  Vita , c Morte  ancida 
Nella  vittoria?  e dell'antica  fraude 
Nou  rimanga  fra  noi  vestigio , od  orma  ? 
Or  non  ardisca  ingiuriosa  lingua , 

Che  si  rivolge  in  Dio,  profana  e lorda, 
E le  bestemmie  in  lui  saetta  c vibra , 
Non  ardisca  affermar  che  T mal  derivi 
Generalo  da  lui,  eh'  i largo  fonte 
Ond' ogni  bene  a noi  si  sparge  e spande. 
Perché  niuu  contrario  (ornai  distingui 
Si  genera  dall'  altro , o si  produce. 
Benché  se  cade  l’ mio  iu  terra  estinto, 
Pur  l'altro  dopo  lui  risorge  c vive, 

E dai  simile  anzi  i prodotto , e nasco 
11  suo  simil , come  dal  foco  il  foco. 

Ma  dalla  chiara  luce  indarno  uom  tenta 
Dar  principio  alle  tenebre  maligne  ; 

E dalla  morte  originar  la  vita , 

0 pur  da'  morbi  la  salute  agli  egri 
E miseri  mortali.  Or  non  c'inganni 
Falsa  di  verità  sembianza  e larva. 

Non  i natura  T mal , non  vera  essenza  : 
Ni  di  lui  ricercar  lontane  parti  ; 

Ni  pur  d'intorno  a te  riguarda,  o fuori, 
Come  sia  cosa  in  si  fondata , c salda  ; 

Ma  ’n  tc  stesso  'I  ritrova,  e’n  mezzo  all’alma 
Rimira  lui , pur  quasi  macchia , od  ombra 
Di  volontaria  colpa , c di  gradita. 

A tc  medesmo  sai  perpetuo  fabbro 
De'  propri  mali , e li  colori  ed  orni  ; 

E 'maghilo  di  lor,  con  vano  affetto, 

Pur  com’ idoli  amali , in  te  gli  adori  ; 

Ma  la  vergogna  e l’ infelice  esilio, 

E l' odiosa  povertate , e quella , 

Che  tanto  ne  spaventa,  orrida  morte, 
Veri  mali  non  sono.  Or  cessi , o lunge 
Vada  ’l  timor.  Ma  i veri  beni  indarno 
Ne’  contrari  quaggiù  ricerchi,  o speri  : 
Benché  sia  mal,  quando  più  i beni  agogni. 


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103 


LE  SETTE  GIORNATE 
L*  esser  privo  di  loro.  Il  loco  adunque , 
Che  privato  è dei  bene,  il  male  adombra. 
E le  tenebre  furo  (o  ch’io  vaneggio) 
Nell’aria,  che  di  luce  è priva,  e cicca 
Quaiitate , od  affetto  antico , o nuovo. 

Ma  se  più  antiche  fur  del  nuovo  parto 
Dell'  universo , il  male  è prisco  e veglio  : 
Ma  non  convien  che  sia  più  vecchio  1 peg- 
gio. 

Dunque  era  luce  eterna  innanzi  al  mondo, 
E le  tenebre  esterne  ond’egli  è cinto  : 
Luce,  che  luce  alle  beate  menti, 

A’  sensi  no,  ma  quel  ch'i  sensi  illustra. 
E questa  a’  sensi  esposta  adorna  mole , 
Visibil  lume,  e sol  di  luce  immago  : 
Immago  che  s’ adorna  al  primo  esempio; 
Esempio  da  cui  lunge  11  Sole  è raggio 
Che  si  perturba  spesso  in  nube,  e ’n  ombra; 
Era  luce  increata  innanii  al  mondo, 
Forse  e creata  luce , e mille  e mille 
Lustri  non  solo  e secoli  volanti 
Erano  innanzi  a lui  rivolti  In  giro. 

Ma  quasi  eternili  (se  dir  convìensi), 
Precedevano  ancora  ’l  mondo,  e ’l  tempo 
Da  che  furo  creati  ai  primo  lume 
I secondi  splendori , Angeli  santi. 

Nè  già  doveano  1 Principi  celesti , 

Le  Dignitari , e le  Virtù  sublimi , 

Tante  armate  lassù  d' oro  e d' elettro 
Gloriose , immortali , elette  schiere , 

Tanti  eserciti  suoi  sita  si  lunga 
In  tenebre  menare  oscura  e fosca. 

S’eran  dunque  primier  create  menti, 

Era  creata  luce  ; e ’n  festa  e ’n  canto 
Elle  gii  si  virean  lucida  vita, 

A sembianza  di  lui  eh'  è vita  e luce , 
Facendo  I sacri  balli  e lieti  cori, 

E i sacrifici  di  sovrana  laude , 

Allo  splendor  della  sua  gloria  eterna , 

In  quel  sereno  e luminoso  impero. 

E questa  luce  dagli  antichi  Padri 
Fu  gii  promessa  a'  giusti,  e 1 giusti  avranno 
Sempre  luce  immortai , sortiti  a parte 
Della  luce  de'  Santi.  Avranno  incontra 
Pene  in  tenebre  eterne  iniqui  spirti. 

Nelle  tenebre  allor  de’  ciechi  abissi 
Lo  Spirito  disino,  c sovra  Tacque 
Era  portato , e 1*  umida  natura 
Gii  preparava.  Anch'el  presente  all'opra 
Spirando  già  forza  e virtude  all'  onda , 

D' uccello  in  guisa , che  da  frale  scorza 
Col  suo  caldo  vital  covata,  e piena 
T rae  non  pennato ’1  figlio,  e quii  informe. 


DEL  MONDO  CREATO. 

E disse  ; Fatta  sia  la  luce;  ed  opra 
Fu'l  detto,  al  comandar  del  Padre  eterno. 
Ma  ’l  suo  parlar  suon  di  snodata  lingua. 
Nè  percossa  fu  già,  che  l'aria  imprima 
Di  sè  medesma , e di  sua  voce  informe  ; 
Ma  del  santo  voler,  eh* all’ opre  inchina, 
Quell' inchinarsi  è la  parola  Interna. 

Cosi  la  prima  voce  e *1  primo  impero 
Del  gran  Padre  del  elei  creò  repente 
La  chiarissima , pura  c bella  luce , 

Che  fu  prima  raccolta , c poi  divisa , 

E ’n  più  lumi  distinta  ’l  quarto  giorno. 
Sgombrò  l’orror,  le  tenebre  disperse, 
Illustrò  da  più  lati  il  cicco  mondo  ; 
Manifestò  del  ciclo  il  dolce  aspetto  ; 
Rivelò  con  serena , alma  sembianza 
L’ altre  forme  leggiadre  ; e d*  ogni  parte 
Egli  indusse  la  cara  c lieta  vista , 

Cioia  della  natura , almo  diletto 
Delia  terra  e del  elei , piacere  c gloria 
Della  mente  e del  senso,  equasi  a prova 
Delle  cose  mortali  e delT  eterne. 

Ed  in  un  punto  l'Aquilone  e T Austro, 
E parimente  ancor  P Occaso  e P Orto , 
Tutto  irrigato  fu  dall'aurea  luce. 

E rapido  sembrò  mirabil  carro , 

Vieppiù  del  tempo  e del  pensier  veloce, 
Che  disina  virtù  cosparga  c porte. 

E qual  carro  più  bello , o più  veloce , 

O bellissima  luce , o luce  amica 
Della  natura  e della  mente  umana , 

Della  divinità  serena  ìmmago, 

Che  ne  consoli , e ne  richiami  al  cielo, 
Potea  ’ntorno  portar  virtutl  e doni 
Celesti  in  terra  a’  miseri  mortali 
Da  quei  tesori , e da  quei  regni  eterni , 
Ch’a  noi  dispensa  con  si  larga  mano 
De'  lumi  il  Padre,  e ’l  Donator  fecondo? 

Come  possente  re  di  Persi , o d'indi. 
Del  grembo  oscuro  dell’  avara  terra 
Preziosi  metalli  insieme  accoglie, 

E dall' arene  pur  d’oro  cospartc 
E dal  profondo  mar  le  perle  e gli  ostri 
Aduna  ; e I bei  rubini  a questi  aggiunge, 
E ì bel  smeraldi  e 1 lucidi  giacinti , 

E qual  pregiata  più  s'indura  e ’mpelra 
Nell'Oriente  luminosa  gemma  ; 

Cosi  dell'universo  11  Re  superno 
Nel  elelo  empireo  ascoso  a'  vaghi  sensi , 
E ignoto  al  contemplar  degli  alti  ingegni. 
Che  misurar  degli  altri  I giri  e 1 corso , 
Ha  di  luce  divina  eterni  ed  ampi 
Tesori , e quinci  poi  gli  parte , o serba. 


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104  POEMI  SACRI. 

Anzi  Tlstesso  ciclo  è pura  luce.  La  scompagnò  dall’ altre,  e quasi  impresse 

In  cui  nulla  giammai  si  turba , o mesce.  Della  sua  nota , onde  sen  va  solinga. 
Luce  *1  suo  tempio  adorno,  e l'alta  reggia  Questa  è di  del  Signor,  da  lui  s' appella, 
E son  di  luce  le  corone  e Tarmi,  Chè  nomarsi  dal  Sole  a sdegno  prende; 

Onde  gli  eletti  suoi  circonda  e veste.  E da  sè  caccia  1 miseri  mortali 

Ma  vedendo  quaggiù  creata  luce.  Intenti  all' opro  faticose  e ’ndegno. 

Disse,  eli' è buona;  e '1  testimonio  aggiunse  Questa  è di  del  Signor  grande  ed  illustre; 

Della  sua  voce , anzi  ’l  giudizio  espresso.  Alfin , quando  clic  sia , sarà  disgiunta 
E perdi’ ò buona  c bella,  e non  si  vanti  Dal  numero  de’  giorni,  anzi  degli  anni, 

Per  bellezza  di  parti  aggiunte  insieme,  E de’  lustri  c de’  secoli  correnti  ; 

E con  giusta  misura  in  un  composte.  Ned  altra  a lui  sarà  seconda,  o terza. 

La  natura  terrena , o la  sublime  ; Ma  voi,  che  del  Signor  cercale  ’l  giorno. 

Ni  ricerchi  in  frondosa  ed  ima  valle  Deh  non  seguite  i sogni  antichi  c l' ombre 

Di  mal  cauto  pastor  gludicio  errante,  Di  questo  di  nell’orrida  tenèbra  : 

E fallace  sentenza  : Espcro  in  ciclo,  Seguite  ornai,  eh’ a voi  riluce  c splende 
Espero  miri  in  cicl  lascivo  sguardo,  La  chiara  dell’ottava  e nuova  luce. 

Che  Lucifero  £ poi  recando  ’l  giorno,  I-a  qual  non  corre  faticosa  al  vespro  : 

E la  sua  desiata  e chiara  luce  : Non  ha  sera,  oconfìn  di  fosco,  od' ombra; 

E di  sua  puritatc  I sensi  appaghi,  Ned  altro  in  lei  surcede  in  giro  alterno, 

Perch’ascenda  la  mente  a’  primi  oggetti.  Giorno  Unito  da  nemica  notte; 

Però  Dio  separò  la  chiara  luce'  : E costante  sarà  felice  stato 

Dalle  tenebre  oscure;  c 1 nomi  impose.  Alfine,  e resterà  solinga  ed  una, 

Queste  notte  chiamando,  e giorno  quella.  Giorno , o secolo  sia , che  pur  s’ eterni , 
E fece  solo  un  di  da  mane  a sera , Questa  a voi  dimostrò  nc'  primi  tempi 

Fra'  tenebrosi  c lucidi  confini  Del  profetico  spirto  il  chiaro  suono. 

Quinci  e quindi  ristretto,  a cui  rotando  Questa  poi  dimostrò  quando  risorse. 

Il  Sol  non  stabili  l'eccelsa  meta,  in  guisa  di  Icone,  il  Re  celeste. 

Mentre  in  sè  stesso  pur  ritorna  e gira  i E trionfò  del  tenebroso  Inferno. 

Ch’  el  non  aveva  ancorla  forma,  o ’l  corso,  E quella  clic  per  lui  guerreggia  e vince , 

Ma  quel  che  fu  del  tempo  eterno  Fabbro,  Santa  Ghicsa  di  Roma , a voi  T insegna , 

Gli  dii  lo  spazio , la  misura  e I segni  : E la  celebra  in  sacri  accenti , ed  orna 

E col  quattro  e cor  tre  rivolse  in  giro  Di  ben  mille  sacrate  ed  auree  spoglie. 

Le  sue  misure,  e riempii  d’un  giorno,  E d’altissimo  seggio,  in  cui  s'adora. 
Che  sette  volte  in  sè  si  volge,  c rlede  Pur  anco  a voi  la  benedice,  e segna 

Con  tal  numero  pur,  lo  spazio  Intero.  Quegli  al  cui  sacro  regno  in  cielo  e ’n  terra 

Questa  figura  ha  in  sè  principio  c fine  : Non  è confine,  o meta.  E ben  convlensl 

Ed  all’ eternità , non  solo  al  tempo , Che  l’Ottavo  Clemente  ’l  giorno  ottavo 

Convlensl  ; anzi  del  tempo  èquasi  uncapo;  Della  divina  luce  I cori  illustre, 

Però  di  esser  primiera  ancor  si  sdegna , E I rozzi , tenebrosi  e tardi  ingegni. 
Perchè  11  suo  Creator  scacciala , e scevra 


GIORNATA  SECONDA. 

Nella  quale  Dio  creò  il  Firmamento,  con  le  Stelle,  e divise  lo  Acque  superiori 
dalle  inferiori. 

Anzi  le  porte  del  mirabll  tempio,  E del  fervido  Cane  a’  raggi  estivi. 

Che  ri  portava  d'  una  ad  altra  parte,  E ’n  lor  già  s'accogliea  profana  turba, 

In  lochi  aperti  c nell' aperto  ciclo,  Edes(inatialferroarmenti,ogregge,  [do 

Cui  tetto  non  ricopre , o velo  adombra , Tal  son  pur  quelli,  in  cui  n'alberga  ’l  mon- 
Erano  esposti  alle  pruine,  al  ghiaccio,  Nella  profonda  sua  parte  più  fosca. 

Al  torbido  spirar  d’orridi  venti , Di  lui  parlando,  c di  terreni  obietti. 


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LE  SETTE  GIORNATE 
Or  da  caliginose  alte  tenèbre 
Già  trapassali  alla  serena  luce 
Siam,  dove  in  sette  lumi  appar  distinto 
Il  candelabro,  c ’neslinguibil  lampa, 
Lieta  e sicura  dal  soffiar  dell' Austro, 

A Dio  s' accende  : c qui  d' immondo  alTelto, 
O di  brutto  desio  le  parti  sacre 
Non  ha  contaminate  T puro  albergo. 
Lunge , lunge , o profani , ite  in  disparte. 
Or  chi  rimove  a gran  misteri  il  velo , 
Sicché  n'  appaia  fiammeggiando  in  ala 
L’alato  Chcrubin,  qual  prima  apparse? 

Già  nel  suo  Figlio  avea  creato  il  Padre, 
Nel  Figlio,  eli’ è principio,  il  primo  cielo, 
Ch’è  fuor  degli  stellanti  e vaghi  giri. 

Già  si  godca  tranquilla  e stabil  pace , 

Cui  non  perturba,  o Tarla  T corso,  a destra, 
Od  a sinistra  pur  volgendo  intorno. 

Già  coll'  empireo  del,  di  pure  menti 
Gli  angelici  splendori  insieme  acccnsi , 
Eran  del  sommo  Sol  diffusi  i raggi  : 

E s' altri  fur  creati  in  altre  parli, 

Fur  di  grado  mon  alto,  e meno  eccelse 
Ebber  le  sedi , c i loro  officj  e l’opre. 

Già  rivolgcasi  da  mattino  a vespro 
Lor  conoscenza  : e quasi  iu  lucid’alba 
Ciascun  in  Dio  mirando  al  ver  s'illustra 
Ma  nelle  cose  quel  saper  s' adombra , 

E quasi  assera  : e già  la  grazia  c '1  merlo 
Gli  fa  beali,  egli  riempie,  ed  orna; 
Quando  continuò  di  giorno  in  giorno 
Le  sante  maraviglie  il  Fabbro  eterno. 
Facciasi,  disse,  c sia  costante  c fermo 
In  mezzo  all’ acque,  il  cielsparso  di  stelle, 
Lo  qual  divide  pur  Tacque  dall' acque. 

E fece  un  chiaro  ciel  di  stelle  sparso, 
Incontra  'I  tempo  di  robusta  forza , 

E saldo  al  raggirar  d’ un  lungo  corso  ; 
Perch'egli  al  variar  degli  altri  erranti 
Sia  quasi  certa  norma  c certa  legge. 

E col  denso  di  lui  l' acque  distinse 
Vaghe,  rare,  sottili,  preste  c snelle, 

O d'ondeggiante,  o di  gelata  e salda 
Natura  in  sè  raccolta  ; e dipartine , 

Altre  sotto  lasciando,  altre  di  sopra. 

Cosi  Dio  fece  ; e '1  nome  imposto  al  cielo 
Da  sua  fermezza  il  firmamento  appella. 
Quel  die  l’uom  chiamò  poi  stellante  sfera, 
0 pur  girl  stellanti  : c fatto  insieme 
Fu  da  mattino  a sera  il  dì  secondo. 

Come  Dedalo  o Scopa , od  altro  antico 
D'artificio  gentil  famoso  mastro 
Prima  raccoglie  1 peregrini  marmi, 


DEL  MONDO  CREATO.  105 

E i lucidi  metalli  c i cedri  eletti, 

I quai  del  tempo  c dell'età  vetusta 
L'iuvido  dente  non  consumi,  o roda: 
Poi  forma  T tutto , e la  superba  mole  [chi 
Comparte  e compie , eie  sue  volte  egli  ar- 
Fonda  sovra  marmoree  alte  colonne , 

0 pur  di  Caria  a’  simulacri  appoggia, 

E fa  teatri  c logge  entro  c d'intorno 
Con  lavori  di  Ionia  e di  Corinto  : 

Cosi  di  sua  materia  il  Fabbro  eterno 
Pria  l’universo  informa  e poi  distingue 
Le  varie  parti , e l’abbellisce  ed  orna. 

Nè  vero  è quel  che  si  descrive  e mostra 
Da'  saggi , onde  la  Grecia  ancor  si  vanta, 
Che  tutta  la  materia  ai  far  d’ un  mondo 
Consumasse  el  nell' opra,  e quinci  awegna 
Clic  ne  facesse  un  sol , che  ’i  tutto  cinge, 
E tutto  accoglie  ancor  nel  vasto  grembo. 
Ned  infiniti  sono  i mondi  e i cieli. 

Coni' altri  afferma,  die  d'opposta  parte 

II  furor  letterato  adduce  in  guerra. 

Ma  Dio,  clic  generò  la  forma , e 'nsieme 
La  materia  del  mondo  allor  produsse. 
Molli  far  ne  polca , di  bolle  in  guisa , 
Clic  di  spumoso  umor  riempie  ’l  vento. 
Perché  allato  al  poter  che  tutto  avanza , 
Son  quasi  gonfie  bolle  i mondi  c i deli. 
Ma  pur  ne  fece  un  solo  il  Fabbro  eterno  ; 
Perch'uno  era  l’esempio,  ed  uno  il  ma- 
E della  sua  virtù  formollo  impresso,  [stro  ; 
L’no  è l’ordine  ancora,  c ’n  un  si  volge. 
Ma  ’n  molte  sfere  si  comparte , e gira 
La  somma  delle  sfere,  o 'I  sommo  cielo, 
Cile  non  ba  moto , onde  conosca  'I  senso 
limano  e ’nfermo  le  sostanze  eterne. 
Corpo  ancora  non  è,  ma  pura  forma. 
Clic  di  serena  luce  arde  c fiammeggia; 

E questo , empireo  del  fra  noi  s' appella. 
L'altro,  ch’è  pur  corporea  c vaga  mole, 
E conosciuto  ancor  da’  sensi  erranti, 

In  nove  giri  si  divide  e volve. 

E della  sua  materia  è lite  c guerra, 

Per  cui  la  dialettica  faretra 
S'empie  d’acuti  sillogismi  a prova 
E n’armale  nemiche  avverse  parti. 

Altri  pur  di  mistura  informe  c rozza, 
Ond’  uscir  gii  elementi , il  forma  e finge 
Ruinoso  e caduco,  esposto  a morte. 

Ma  colla  forma  sua,  clic  tutto  adempio. 
Un  suo  desio  leggiadro  il  tiene  In  vita 
Eterna  quasi  ; ed  alle  cose  eterne 
Il  fa  sembiante  in  si  mirabil  vista. 

Altri  degli  clementi  il  sommo  e T puro, 


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106  POEMI 

Dall’ immondo  e feccioso  aduna  e sceglie, 
E ne  figura  gli  stellanti  chiostri , 

C‘  hanno  dal  foco  la  serena  luce , 

E dalla  terra  ’l  suo  costante  e saldo. 
Questi  libera  ancor  d’ orrida  morte , 
Quasi  giudice  amico,  il  nato  mondo  : 
Non  per  natura , che  soggiace  a fona 
Di  tenebrosa  morte  al  duro  fato; 

Ma  perchè ’l  suoFattore'l  regge,  e’ifolce, 
E sol  per  suo  volere  eterno  il  serba. 

Altri  vieppiù  vicino  a'  primi  tempi , 

De’  suoi  quattro  principi  in  sè  diversi 
Alternando  le  volte , il  face  c guasta  ; 

Ma  come  vuol  Discordia»  o vuole  Amore. 
E se  Discordia  è vincitrice  in  guerra. 

Ma  vinto  Amor,  nasce  il  sensibit  mondo. 
E s*  all*  incontro  la  Discordia  è vinta , 
Amor  vittorioso  *1  suo  riforma 
Agl'intelletti , c ’n  lui  trionfa  e regna. 
Altri  un  vano  intelletto  affanna  e stanca 
Nella  confuslon  torbida  c mischia 
Dell*  infinite  parti  : e quinci  indarno 
La  mente  folle  s'argomenta,  e ’ngegna 
Di  separarle.  Altri  corporea  moie 
Genera  di  figura  In  vari  aspetti  : 

Di  piramide  acuta  il  sottil  foco; 

Di  quadriforme  poi  lastabii  terra; 

DI  venti  quasi  faccie  il  vago  e leve 
Spirante  aer  sublime  egli  compone, 

E d’ otto  r acqua  : c vuol  clic  peso  e corpo 
Vane  figure,  e sema  moto  e pondo, 
Dieno  a*  quattro  elementi  in  varie  guise. 
Altri  una  quinta  essenza  al  cielo  assegna, 
Sciolta  da  tutte  qualitall  umane; 

E da  morte  ’l  difende , c d’ogni  oltraggio 
Mortale  ’l  guarda,  e nel  suo  corso  eterna. 
Ch’egli  volge  e rivolge  In  vari  giri 
Al  suo  Motor,  come  bramoso  amante. 

Ma  che?  nostra  ragion  ha  corti  i vanni 
Dietro  il  senso  fallace,  e strada  Incerta 
Il  vario  moto  ne  dimostra  e segna. 

E perchè  al  mezzo  pur  s’inchini  il  grave, 
Ed  inverso  l’estremo  *1  leve  ascenda, 

E ’l  corpo  non  leggiero  e non  gravoso , 
Dintorno  al  centro  si  raggiri  c volga , 

E quinci  e quindi  a non  veduti  oggetti 
Non  trova  ingegno  umano  aperto  *1  varco  : 
E ne’  veduti  ancor  sovente  adombra  ; 
Negli  altri  al  troppo  lume  i lumi  abbaglia. 
Di  qual  materia  sian  le  stelle  e 'I  ciclo , 
Dicalo  quel  che  lui  spiegò  d’ intorno. 
Qual  picclol  velo,  o quasi  leggier  fumo 
Formare  ’l  volle,  c *1  fe'  costante  c fermo, 


SACRI. 

Più  di  cristallo  assai  ch'ai  gel  s' induri, 

E lucido  divenga  in  aspro  monte  ; 

Più  di  metallo  che  s’impetri  e stringa, 

E renda,  come  specchio,  altrui  1*  immago. 
Di  seminante  materia  il  Padre  eterno 
Fece  ancor  di  cristallo  un  puro  cielo 
( Se  le  cose  terrene  alle  celesti 
Tanto  pon  simigliare),  e questo  ancora 
Girò  d’intorno  alle  stellanti  sfere; 

E sopra  Tacque  vi  ripone  e serba. 

Quali  acque,  o Dio,  sovra  le  stelle  c ’l  lume 
Del  Sol  ponesti  ? ed  a qual  uopo,  o (piando, 
Come  a tc  piace  le  riserbi  e versi? 

Son  le  sostanze  spiritali  e pronte. 

Onde  il  tuo  nome  glorioso,  eterno. 

Di  chiarissime  laudi  ivi  risuona? 

Ma  che?  ti  loda  la  tempesta  e ’l  foco? 
Son  l’ acque  forse  la  materia  informe? 
Ma  da  principio  tu  T imprimi  c fingi. 

Son  Tacque  gravi , ove  non  giunge  il  leve. 
Che  vola press’ al  del,  nè  passa  innanzi? 
Dunque  a natura  in  ciel  minata  è legge? 
Ma  del  turbato  ciel  Torride  porle 
Tu  apristi  all’ acque,  e le  spargesti  a terra, 
Lei  ricoprendo , c i più  superbi  monti , 
Quando, sommerso  in  grau  diluvio’! moti- 
Appena  rlcovrossl  a’  monti  armeni  [do. 
Il  seme  de*  mortali  in  fragil  legno. 

Sono  adunque  di  pena  c di  spavento 
L’ acque  lassù  nel  ciel  ministre  eterne 
A’  miseri  mortali  ? o pur  son  anco 
Incontra  ’l  foco  refrigerio  e scampo, 
Oud’hasuavita  ’l  mondo  in  varie  tempre? 
S’è  necessario  ’l  foco  all’uso,  all’arte 
Del  viver  nostro,  e di  natura  amico; 
Necessarie  son  Tacque,  ’n  varie  sedi 
L'uno  dall’altro  si  difende  e guarda. 

E ’n  paragon  dell’  acque  ha  seggio  angusto 
La  terra  antica  madre , e pieciol  giro. 
Però  nel  grembo  degli  oscuri  abissi 
Già  nascosa  si  giacque;  appena  or  mostra 
Parte  delle  sue  membra , appena  innalza 
Dalle  spumose  braccia  al  ciel  la  fronte. 
Ma  gran  parte  del  inare  anco  è sommersa: 
Nè  sole  accolte  In  un  oscuro  fondo 
Son  T acque  ascose  entr’  a perpetua  notte, 
0 fan  sotterra  un  tenebroso  corso  : 

Ma  sovra  1 volto  suo  diffuse  e sparte 
Quinci  vedi  stagnar  paludi  c laghi , 

E sorger  mormorando  i chiari  fonti , 

E Talte  rive  empir  torrenti  c fiumi. 
Corron  dall’ Oriente  ldaspe  ed  Indo, 

E degli  altri  maggior  trascorre  ’l  Gange , 


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LE  SETTE  GIORNATE 
Ed  il  Caspio  e l‘  Arasse , e Cirro  c Battro. 
La  Tana  ancor,  col  l' onde  'I  ghiaccio  strin- 
Nella  salsa  discende  alla  palude  ; [ge , 
E dal  Caucaso  'I  Fasi  al  mare  Eusino , 
Ball’ recidente  ancor  Tarteso  ed  lstro  : 
Quegli  olirà  le  Colonne  in  mar  si  sparge, 
Questi  nel  Ponto;  e pria  divide  e parte 

I popoli  d’Europa,  i campi  e I regni. 

Oh  quanti  ancor  dagl’iperborei  monti 
Corron  veloci , e da  Pirenc  e d’ Alpe , 
Distinguendo  Germani , e Belgi  e Celli  ! 
Dal  Mezzogiorno  l' Etiopia  inonda 

II  Nilo  ; e i campi  impingua  al  verde  Egitto. 
E ’l  Cremete  e l' Egon , e ’l  Nlsio  e ’1  Negro  ; 
Altri  nd  nostro  mar  si  spande  e mesce: 
Altri  si  vota  all'  Oceano  in  grembo. 

E l’ondoso  Ocean  superbo  ’n  vista 
L'uuiil  terra  percuote,  e lei  circonda. 

E fu  secreta  provvidenza  ed  alta. 

Che  di  tattl'acque , e tanti  untori  occulti, 
Tanti  palesi , assecurò  la  terra 
Dal  foco  violento,  a lei  nemico. 

Perdi’ el,  che  signoreggia,  e ’l  tutto  vince 
D’ impeto  e d’ ira , e di  contraria  possa , 
Non  signoreggi  ancor,  quasi  tiranno. 
Usurpando  degli  altri  i regni  e i seggi , 
Sin  a quel  paventoso  estremo  giorno , 

Da  giudido  divino  a lui  prescritto. 
Tempo  certo  verri , come  rimbomba 
Sacra  fama  in  pii  lingue , e gii  vetusta , 
Che  ’l  foco  infiammerà  la  terra  e l'onde , 
E tutto  in  un  incendio  accolto  ’1  mondo 
Calieri  sparso  in  cenere  c ’n  faville. 
Allor  tutti  fien  secchi  i fiumi  c i fonti; 
Ni  fien  sicuri  i tenebrosi  abissi 
Dal  foco  vindtor.  N’affida  intanto 
Quel  che  dispose  in  pii  soavi  tempre 
Le  cose  tutte  insta  dal  sommo  all'  imo , 

E quell' acque  da  queste  allor  distinse. 

Acque  son  dunque  ; e la  stellante  sfera. 
Che  sette  giri  in  sè  contiene,  e copre , 
Soggiace  aU'acque.  ET  suo  Maestro  eterno, 
Quando  gli  fece  cosi  adonti  in  vista. 
Quadrata  lor  gli  dii  costante  e salda 
Figura,  ovver  simile  a turbo  acuto; 

Ni  piramide  volle , o pur  cilindro 
Assomigliar  nel  magistero  antico  : 

Ma  l’un  nell'  altro  giro  intorno  avvolse. 
In  guisa  tal , che  i più  subitoli  ed  ampi 
Cingon  gli  altri  men  ampi  e men  sublimi  : 
E come  quel , die  pria  disegna  e fonda , 
E nelle  pani  sue  dispone  ’1  tutto, 

E poi  l' adorna , e di  colori  e d’aure 


DEL  MONDO  CREATO.  107 

Fa  vari  fregj  ai  magistero  Hlnstre; 

Ed  Immagini  aggiunge , e simulacri  : 

Cosi  tutte  ci  facea  del  mondo  Intero 
Le  parti  ornate  ; e la  sublime  sfera 
El  figurava  già  di  stelle  ardenti 
In  vari  modi  ; e le  sne  note  e I segni 
Imprimea  di  sua  mano  il  Mastro  eterno. 
Quei  di  eh’  ei  fece  i bei  stellanti  chiostri  : 
E non  sol  fece  Arturo  ed  Orione; 

Ma  tutte  l’ altre  onde  s’ adorna  ’l  deio , 
Immagini  lucenti  a'  vaghi  sensi, 

A cui  l’età  futura  i nomi  impose. 

E la  rota  al  girar  leggiera  e pronta , 
Sovra  due  punti  in  sè  contrari  affisse  , 

E 1 duo  poli  nel  ciel  costanti  e fermi. 

L’ un  mai  sempre  si  mostra  ed  erge  in  allo, 
L'altro  s’inchina  «ila  profonda  Stige, 

E si  rimane  ognor  sotterra  ascoso. 
Questo  Dio  fece , e poi  l’ umana  gente , 
Nei  ciclo  immaginando  I vari  ccrdil, 

Col  pensiero  M distinse , e ’n  cinque  zone 
Parlino;  e ’n  altre  e tante  Impari  fasce 
Sotto  '!  del  diparti  l’opaca  terra. 

E’I  maggior  cerchio,  ebe’n  due  partì  eguali 
Seca  per  mezzo  ’l  deio;  e quinci  e quindi 
Lascia  i due  fissi  poH  incontra  opposti , 
Fu  nomato  Equator,  perch’egli  adegua, 
AUorehè’1  .Sol  vi  giunge,  il  giorno  e l'ombra 
L’altro  di' obliquo  si  rivolge  intorno 
Sino  ai  due  punti , onde  ritorna  ’I  Sole 
A rilesser  di  nuovo  T giro  istesso , 
Cerchio  degli  animali , o deila  vita , 

E de'  segni  appellar  future  genti. 

E I due  minori  intorno  al  punto  affissi , 
Onde  T torto  viaggio  T Sol  converte , 
Tropici  fur  chiamati , e gli  altri  due 
Fatti  da  poli  ebber  di  Polì  il  nome. 

E i duo’  cerchi  imperfetti  anco  nomare 
Dalle  rivolte  del  pianeta  illustre. 

E quel  che  terminò  l’ umana  vista 
Ne’  tenebrosi  e lucidi  confini , 

Orizzonte  fu  detto,  e dal  meriggio 
Quello,  acni  giunge  a mezzogiorno  II  Sole, 
Cb'a  vari  abltator  si  cangia  e varia. 

Ma  quell’ obliquo , in  cui  distinto  cade 
Fecer  poscia  girando  erranti  lumi , 

Seca  in  due  parti  eguali  il  largo  cinto , 
Che  parte  ’l  mondo  ; e giorno  a notte  ag- 
guaglia , 

Ed  a'  Tropici  aggiunto  e quinci  e quindi; 
Talch'egli  solo  è con  tre  cerchi  affisso; 
E la  metà  di  sè  dimostra  ognora 
Con  sei  di  stelle  adorni  ardenti  segni 


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108  POEMI 

Sopra  la  terra;  e l’altra  parte  ascosa 
Con  altri  c tanti  pur  sotto  rimansi  : 

E ciascun  spailo  eguale  in  ciclo  ingombra: 
Ma  con  tempo  ineguale  or  nasce,  or  cade, 
Veloce , o tardo  ; e sci  la  notte  oscura 
SI  fuggon  di  lassù  cadenti  segni , 

E sei  riveggon  poi  tornando  ’l  cielo 
Immagini  di  stelle  accese,  c d'auro, 
Come  le  lìgurar gl’ ingegni  audaci, 

Che  gii  produsse  ’l  tenebroso  Egitto. 

E la  Grecia  I suo’  mostri  ancor  ci  linsc  ; 
E,  di  favole  vane  il  ciel  ripieno, 

Più  adorno  ’l  fece  di  menzogne  illustri. 

Primo  (come  si  scrive  c si  figura) 
Sovra  l' aurate  spoglie  oscuro  lume 
Dimostra  ’l  portatordi  Frisso  e d’Elle, 
Che  dopo  ’l  verno  primavera  adduce. 

Poi  col  ginocchio  ripiegalo  ’l  Tauro 
Distende  ’l  corpo;  c dall' accese  corna 
Gravido  fa  di  sua  feconda  luce 
I.*  umor  terrestre;  e i due  Gemelli  aggiunti 
Spargon  da  chiare  stelle  ardente  foco. 

E rinfiammato  Cancro  al  Sole  indugio 
Par  che  sia  quasi , e gli  ritardi  ’l  corso. 

E ’l  superilo  Leon  con  torvo  aspetto  [eia. 
Fiammeggia,  e ’nsln  dal  ciel  ancor  minac- 
La  Vergine  vicina  a lui  risplendc 
Coll'aurea  spiga,  e poi  la  luce,  e l’ombra 
L’alta  Libra  celeste  agguaglia  in  lance. 
Indi  lo  Scorpton  del  ciclo  usurpa 
Più  del  suo  giusto  spazio  ; c par  eli’  ei  faccia 
Colle  branche  ad  Astrca  lucida  libra. 

Il  Sagittario  ha  nell’orribil  destra 
L’arco  piegato,  e ’l  Capricorno  ’1  segue 
Con  Ber  sembiante  : c del  gran  Sole  al  corso 
Par  ch’egli  sia  lassù  di  nuovo  intoppo, 

E ritenga  le  notti  algenti  e pigre. 
Risplcnde  dopo  lui  con  lucid’urna 
Il  Fanciullo  troiano.  E ’n  una  stella 
Luminosa  catena,  ed  aureo  nodo 
Fan  di  squamosa  coda  umidi  Pesci. 

Cosi  nel  cerchio  obliquo  i Segni  ardenti 
Poi  figurò  nel  cielo  li  secol  prisco. 

Altre  immagini  a destra,  altre  a sinistra 
Versoli  fredd’ Aquilone,  e ’l  nubil Austro 
Collocò  poscia,  e I chiari  nomi  impose. 
Vicina  al  Polo,  che  s’innalza,  e scopre , 
Con  brevissimo  giro  intorno  ruota 
L’Orsa  minor,  che  già  fu  scorta  e segno 
Della  Fenicia  a’  naviganti  audaci. 

Di  sette  stelle  poscia  adorno  ’1  vello 
L' Orsa  maggior  fa  brevi  giri  e lenti  ; 
L’Orsa,  eh' a’  Greci  in  tempestoso  mare 


SACRI. 

Fu  già  fidata  duce  e segno  amico. 

Par  ch'ci  le  gridi  appresso  ad  alta  voce 
11  suo  pigro  Boote.  E ’l  fiero  Drago 
Fra  l'Orsa  fiammeggiando  orrido  serpe. 
Ccfeo  poser  non  lunge,  c d'Arianna 
La  stellata  corona  ;c  ’l  grand’ Alcide, 

E la  Cetra  col  Cigno.  E l’altro  figlio 
Del  favoloso  Giove  In  ciel  sublime. 

Cui  d' Aquilone  ’l  fiato  aspira,  c d’alto 
Il  fiede  : a Cassiopea  la  destra  ei  tende; 
E i piedi  alzati  vincitore  ai  cielo 
Porta , quasi  di  terra  alzato  a volo 
Polveroso , c repente  ; e ’ntorno  al  manco 
Ginocchio  con  tremante  e debil  luce. 

Le  stelle  picciolette  anco  locaro, 

Che  Vergilie  chiamò  l'età  vetusta  : 
Segno  del  ciel  d’oscuro  e picciol  lume. 
Ma  pur  di  nome  ancora  e chiaro  c grande, 
Perché  i principj  della  State  illustra, 

E gl’ industri  mortali  all’ opre  imita  : 
Perdi' ò già  tempo  eli' all' antica  madre 
Confidi  T buon  cultore  il  some  sparso. 
Qui  insidile  collocar  sublime  auriga , 
Che  di  serpente  1 piè  nel  carro  ascose, 
Kd'Ksculapio  (ocosi  parve)  all’angue 
Raffigurato.  E la  Saetta  accesa 
Di  cinque  stelle,  e l'Aquila  superba; 

E ’l  guizzante  Delfino,  e ’l  gran  Pegaso, 
Clic  già  portò  Bcllerofonte  a volo. 

E la  figlia  di  Ccfeo,  e ’l  Delta  appresso; 
E quella  immago  clic  figura  c segna 
L’Isola  che  tre  monti  innalza  In  mare; 

E del  nudo  Muntoli  l'oscura  testa  [parte 
Del  suo  splendore  ’nfiainina;  c ’n  quella 
Alle  vie  degli  erranti  è più  vicina. 

Dall’  altre  verso  T Polo  opposto  all'  Orse, 
Press’ al  torto  viaggio  ò il  fiero  mostro, 

A cui  fu  ignuda  esposta  in  riva  all' acque 
Andromeda  legata  al  duro  scoglio  : 

E par  clic  ’n  cielo  ancor  di  lei  ricerchi 
Già  lontana,  e sicura  in  parti  eccelso, 
Ricoverata  d' Aquilone  all’aura. 

Ed  Orlon  di  fiamme  armato  e d' auro 
V’immaginar,  che  nella  notte  estrema, 
Allorché  nasce  Scorplo  egli  s'asconde  : 

E l’inimagin  del  Fiume  ivi  risplende 
D'eterno  foco.  E timidetta  Lepre 
Fuggir  di  Can  veloci  I fieri  morsi 
Vi  figuraro,  e ’l  minor  Cane  ardente 
Di  rabbia  ’l  cielo  ancor  nascendo  attrista 
Coll'infelice  lume,  e i campi  infiamma, 

E dopo  l’altro  a noi  sorgendo  appare. 

Ma  prima  a quei,  di' olirà  l’obliquo  cinto 


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LE  SETTE  GIORNATE 
Abitatori  son  di  terra  adusta, 

Argo  conversa  in  del  si  volge  addietro 
Con  proda  oscura , e la  ritroso  corso  : 

Ma  l’ altra  parte  ha  luminosa  e illustre. 
Quii’  Idra  e ’l  Vaso  e ’l  Corvo  e ’i  gran  Cen- 
tauro ; 

E qui  risplende  ’l  Lupo , e qui  l’ Altare. 
Altra  corona  ancor  di  stelle  adorna 
Da  questo  lato  ’i  cielo,  ed  altro  Pesce 
In  più  lontana  parte  in  lui  risplcndc  : 

Il  Pesce , eli’  adornò  ne’  propri  alberghi , 
Siccome  proprio  Dio,  l’antica  gente 
Di  Siria  abitatrice;  a cui  non  basta 
Farlo  in  magion  terrene  e vivo  e nume , 
Ma  nel  ciclo  ’l  figura  c ’n  ciel  l'adora , 
Fatto , come  stimò , nel  cielo  eterno. 

0 delie  pazze  genti  antico  errore , 

E prisca  fraude,  e mal  nodrito  inganno. 
Che  torse  ’l  mondo  al  culto  iniquo  ed  cm- 
E di  cerchi  c di  stelle  in  un  congiunte  (pio  ; 
\ane  figure,  immaginate  indarno 
Conira  la  Provvidenza,  e con  tra  ’l  vero! 
0 vana  sapienza , e vano  ingegno 
Della  natura  umana  in  Dio  superba  ! 

Van  pensier,  vano  ardire  e vano  orgoglio, 
Che  ’n  ciel  presume  annoverar  le  stelle  ; 
E quaggiù  le  minute  inculte  arene, 

E misurar  gli  smisurati  campi 
Della  terra , del  mar,  del  ciel  profondo  ; 
E terminar  degl1  infiniti  abissi 
L*  altezza  e ’l  fondo  ; e por  costante  meta 
A questo  spazio  della  vita  Incerto; 

E prescriver  de’  fati  eterna  legge  ; 

Serva  facendo  la  natura  a forza; 

E ’l  libero  voler,  libero  dono. 

Cui  non  vince,  nè  forza,  stella,  od  astro. 
Egli  all'Incontro  signoreggia  e vince; 

E può  rapire  ’l  gran  regno  celeste 
Con  violenza , se  d’ amor  s’ infiamma  ; 

Ma  d' altro  amor  più  santo,  o d’ altre  fiam- 
Di  quelle,  onde  l'età  vetusta  e folle  [me 
Coll’ immagini  sue  mentite  c false 
Tentò  di  far  quasi  profano,  immondo 
Dei  cielo  ’l  luminoso  e puro  tempio. 
Poco  era  dunque  dei  lascivo  Cigno 
Furto  amoroso,  o d'Aquila  ministra, 
Non  di  folgori  più , nè  d' ire  ardenti , 

Ma  di  pianeti,  la  rapina  Ingiusta, 

E la  corona  d’Arianna,  e mille 
Favole  v agite , c favolosi  amori , [che 
Che  Grecia  aggiunse  alle  menzogne  anti- 
Di  Babilonia  c del  superbo  Egitto  ; 

Se  d’Alessandro  ’1  succcssor  novello 


DEL  MONDO  CREATO.  109 

Non  aggiungeva  ancor  la  tronca  chioma 
Di  Berenice  all’ altre  stelle  ardenti? 

Tanto  lece  a'  mortali  adunque  ’n  terra , 
Ch’  osan  di  far,  non  sol  di  rozza  pietra , 

0 di  ruvido  pur  selvaggio  tronco 
Dei  ior  terreni , ed  idoli  superbi  : 

Ma  fanno  oltraggio  alle  nature  eterne. 

Ed  alla  gloria  de'  celesti  giri  ? 

Chè  delle  stelle  è gloria  ’l  chiaro  lume, 
Ond'è  stella  da  stella  in  ciel  diversa. 

Ma  quei  già  non  dovean  si  pure  forme 
Farsi  cagion  di  si  dannoso  inganno; 

E ’n  tenebre  cader  da  pura  luce. 
Precipitando  negli  oscuri  abissi  : 

Anzi  salire  a Dio  di  lume  in  lume, 

E riconoscer  Lui  nell’  opre  eccelse  , 

Cile  son  del  suo  splendor  faville  e raggi. 
Dio  solo  è quei  die  numerare  appieno 
Nel  mar  puote  le  stille , e ’n  ciel  le  stelle. 
E Dio  pose  a ciascuna  ’l  proprio  nome , 
Onde  chiamata  ai  suo  Signor  risponde , 
Pronta  al  servizio  del  sublime  impero. 

E quai  fidi  guerricr  locati  in  guardia, 
Nella  più  tenebrosa  oscura  notte 
Giran  le  mura  vigilando  attorno  ; 

Tal  circondano  ancor  notturne  c preste 
L’alte  parti  del  ciel  le  stelle  ardenti 
Come  Ior  pria  dispose  ’l  Re  superno, 

Lo  qual  non  Orso,  non  Leone,  o Drago, 
Non  Aquila  sublime  in  elei  dipinse 
D'eterni  lumi,  e di  perpetue  fiamme  ; 
Non  altra  forma,  che  nel  ntar  profondo , 
O'n  fiume  si  rimiri, o'n monte, o'n bosco: 
Ma  quella  croce,  ove  ’l  suo  Figlio  estinto 
Trionfar  poi  dovea  de'  regni  sligi , 

In  cielo  impresse,  e ne  formò  l' esempio 
Con  quattro  luminose  e chiare  stelle; 

Le  quai  non  rimirò  Pelate  antica 
In  questo  Polo , in  cui  Boote  e ’l  Carro 
Immaginossi , e l’ altre  forme  illustri  : 

Ma  la  nuova  le  scorge  in  ciel  sublime, 

E P altro  Polo  a'  nostri  sensi  ascoso 
Ad  altri  abitatori  in  sè  l'esalta; 

E di  certa  vittoria  è segno  eterno 
Al  giusto  Re  nella  pietosa  guerra 
Quella,  che  fiammeggiando  in  aria  apparsa 
D’EIena  al  figlio  glorioso , invitto. 

Che  ’l  nuovo  Faraon  sommerso  In  Tcbro 
Fece  cader  dai  ruinoso  ponte , 

E Roma  liberò  dal  giogo  oppressa, 

E gl’  idoli  superbi  a terra  sparse  ; 

E quella  poi  che  folgorando  in  alto 
Pur  dimostrassi  al  successore  indegno 


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no  POEMI 

Si  dlssolvea , come  vapori  accesi , 

In  ciuci  dell’aria  tempestosi  campi. 

Ma  questo  In  ciel  di  lumi  eterni  e fissi 
E trofeo  non  caduco , e scalili  segno 
(Se  sperar  lece)  di  costante  Impero; 

E quasi  nota,  onde  sue  leggi  inscrisse 
Il  Re  superno  a'  vincitori,  a’  vinti  ; 

Chi  gloria  agli  uni , e dì  salute  agli  altri. 
Ben  se  n’ avvide  ancor  l’antico  Egitto 
Nelle  tenebre  sue  più  fosche  e dense  ; 
Onde  tra  l’ altre  sue  figure  e note 
De’  suol  misteri , ancor  la  croce  Impresse. 
E figurò  la  croce  il  Fabbro  eterno 
Nelle  quattro  del  mondo  avverse  parti , 
Talché  la  forma  sua  divide  e segna 
L’Orto,  l’Occaso , l’ Aquilone  e l’Austro. 
Son  dunque  segni  di  salute  i segni , 

Ch’  impresse  Dio  nel  magistero  eterno. 
Nè  cosa  feo  lassù  malvagia,  o fella, 

0 di  morte  cagione , o d’ altro  danno 
A’  miseri  mortali.  Ahi  ! cessi  or  l’ empio , 
Cessi  il  superbo,  che  saetta  c vibra 
Inconlr'  al  elei  l’ ingiuriosa  lingua. 

Non  son  maligne  le  serene  stelle , 

Nè  pon  nuocer  altrui  con  fiero  aspetto , 
Nè  per  eletlon , nè  per  natura. 

Non  per  elealon , che  senso  ed  alma 
Avrlanle  stelle;  e d'animali  in  guisa, 
Perturbati  sarian  da’  nostri  alletti. 

Non  per  natura  ancor,  se  Dio  creolle; 
Chè  non  è creator  di  mali  Iddio , [faro. 
Nè  mal  d'opra  non  buona  è mastro,  o fab- 
Nè  mai , per  variare  ’l  loco  e ’l  sito , 
Potrìan  di  buone  divenir  maligne , 

0 pur  buone  dì  ree , chinando  ’l  guardo, 
0 mutando  figura , o pur  sembiante , 
Come  si  dice  che  più  lieta  ’n  vista 
Alcuna  si  rallegra , allorché  nasce , 

E Innanzi  al  suo  cader  si  duole  e turba. 
Altra  all’  incontro  è lieta  nell'  Occaso , 

E dogliosa  nell'  Orto.  Altra  si  sdegna , 

E poi  si  placa  nel  cangiare  ’l  grado. 

Chè  se  ciò  fosse , la  natura  umana 
Saria  men  variabile  e ’ncostante 
Della  celeste;  e ’n  quelle  eterne  leggi 
Certezza  non  saria , ma  vano  errore. 

Nè  già  convieu  che  ’l  messaggier  di  Giove 
(Come  animai  da’luoghl.a  cui  s’appressa, 
In  mille  guise  si  colora  e varia), 

Cosi  mille  colori  e mille  forme 
Prenda  da’  suo’  vicini.  Adunque  in  cielo 
Non  si  perde  bontì  per  grado,  o scema , 
Chè  ’1  cielo  è tutto  buono  ; e ’u  ogni  grado 


SACRI. 

La  div  ina  bontì  diletta  e giova. 

Tacciansi  ancor  delle  sublimi  stelle 
Gli  odj  celesti , c i lor  celesti  amori 
(Ma  non  degni  del  ciclo),  c i vari  aspetti , 
Ch'altri  si  miri  da  contraria  parte, 

Altri  congiunto,  altri  girando  intorno 
T re  segni , o quattro,  o sei,  si  trovi  in  mezzo 
Mentre  riguarda  la  su’  amica  stella , 

0 la  nemica  ; chè  discordia  in  cielo 
Esser  non  può , nè  ingiurioso  sdegno , 
Ne’  cinque  aspetti  soli  ; c ’n  altre  guise 
L' una  potria  ver  l’altra  esser  conversa 
Benigna  stella  in  placido  sembiante. 

E se  dimostra  pur  dal  ciclo,  c segna 
Quanto  sthivar,  quanto  seguir  comlrnsl 
In  questo  spazio  della  vita  incerto, 

Non  cl  costringe  a forza,  c non  ci  offende  ; 
Ma  giova  sempre, o ’l  bene,  o ’1  mal  predica. 

Giova  al  nocchiero  cntr’  al  sicuro  porlo 
La  nave  ritener,  se  ’l  vento,  e l’ onda 
Spaventosa  tempesta  a lui  minaccia; 

Ed  armato  Orlon  guerra  gl’  indice. 

E giova  al  pcregrin  volgendo  ’l  passo 
Fuggir  la  noia  d' importuna  pioggia , 

E ricovrarsi  in  solitario  albergo. 

E giova  agli  egri  l’osservar  de’  giorni 
Giudici  della  vita  e della  morte.  [ga, 
E'1  buou  cullor  de'  campi , o’I  seme  spat- 

0 pianti , osserva  pur  nell’  opre  usate 
Il  nascer  c ’l  cader  di  stelle  amiche , 

Ed  opportuna  la  stagione  c ’l  tempo. 

Ma  che?  l’alto  Signor  a noi  predisse 
Ch’appariran  gli  spaventosi  segni 
Del  mondo , che  ruina  alfin  minaccia , 
Nel  Sole,  nella  Luna  e nelle  Stelle. 

Cl  negherà  la  Luna  il  lume  e i raggi , 

E fia  converso  ’l  Sol  turbato  in  sangue. 

E questi  fian  della  mina  estrema 
Orridi  segni.  Or  chi  trapassa  ’l  guado, 

Di  nostra  vita  le  regioni  assegna  : 

E quasi  avvinta  con  un  saldo  stame 
Al  fatai  fuso  di  severa  Parca , 

La  fa  soggetta  ai  variar  de’  cieli, 

E loda  de'  Caldei  gl'  ingegni  c l'arte. 

Ma  concedasi  pur  che  ’n  elei  descritti 

1 segni  sien , non  di  tempesta , o nembo, 
0 dell'incerto  variar  de'  tempi , 

Ma  della  vita , c di  sue  varie  sorti  ; 

Che  ne  diran?  che  delle  stelle  erranti , 

E deir  affisse  nell'obliquo  cinto 
Congiunte  insieme , gl'  implicati  nodi , 

E le  varie  figure  e i vari  incontri 
Sien  di  felice  avventurosa  vita 


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LE  SETTE  GIORNATE  DEL  MONDO  CREATO.  Ut 


Alta  cagione , a chi  lo  del  sortilia , 

0 di  contraria  pur  dogliosa  sorte  ? 

Ma  pur  dirò  per  illustrare  ’l  dubbio 
Quel  che  degli  altri  è detto,  e’detti  in  prora 
Pur  addurrò  contra  gli  stessi  in  lite. 
Gl'inventori  dell’arte  In  poco  spazio 
Vider  molte  figure,  e ’n  breve  tempo, 
Che  disparian  troppo  veloci  Innanzi 
Agii  occhi  loro  ; onde  raccolte  e chiuse 
Fur  dagl’ìstessi  entr*  a misure  anguste. 
Quasi  in  un  solo  indivisibi!  punto,  [parve, 
Che  ’nun  sol  batter  d’occhio  altrui  dis- 
Quind  di  quei  che  da’  materni  chiostri 
Nascer  doveano  alla  serena  luce , [presso. 
Nel  primo  punto , o ’n  quel  che  segue  ap- 
Molte  varietà  d’ingegno  c d’arte 
Notare , e dì  possanza  e di  fortuna  ; 
Ch’altri  ci  nasce  pur  Cambise,  o Ciro, 
Od  Alessandro , o fortunato  Augusto , 

A se  euro,  a regno,  a glorioso  impero, 
All’onor  di  trionfi  e di  vittorie  ; 

Altr*  Ire  a ricercar  di  porta  in  porta 
Quel  che  sostegna  la  noiosa  vita 
in  vergognosa  povertate , e grave. 

Però  in  dodid  parti  il  cerchio  obliquo 
Wvlser  prima,  ed  ogni  parte  in  trenta  : 
Che  'n  unti  giorni  un  segnoil  Sol  trascorre 
Di  que’  dodici  in  lui  segnati  c ’mpresst. 
E poi  secar  le  trenta  ; e risecaro 
Le  sessanta  in  sessanta  ; e ’n  si  minute 
Parti  distinte  fer  gli  aspetti  e Tore, 

Per  trovar  quella  di  chi  nasce  ai  mondo. 
E non  fur  certi  dell'  istabil  punto  ; 
Perchè  sparire,  e dileguar  repente 
In  cielo  ’l  vedi  col  volar  del  tempo. 

É nato  appena  il  fanciullclto  ignudo, 
Che  si  riguarda  ’l  sesso,  e poi  s’aspetta 
Il  pianto,  segno  dell'umana  vita 
Lagrimoso  e dolente , a lei  conforme  : 
Predice  indi  ’1  Caldeo  le  varie  sorti. 
Quanti  punti  trascorsi  intanto  a volo 
Son  nell’  indugio?  e chi  descrive  appunto 
La  figura  dei  cielo  ? e quale  ascenda 
Sublime  stella , e signoreggi  intanto, 

E prescriva  al  fanciullo  ’l  proprio  fato  ? 
Però  nelle  figure  e varie  e vaghe 
t.  certo  inganno , e nel  volar  dell’ ore. 

Nasce  costui  di  grazioso  aspetto , 
Pladdo  e grave,  c lento,  e crespo  ’l  crine  ; 

E l’ora  sua  deli'  animai  di  Frisso 
Aver  si  crede  ; e questi  è d*  alto  core , 

E magnanimo  ancor,  chè  tal  si  mostra 
L'animai  che  degli  altri  è quasi  duce. 


Ardito  al  cozzo , ed  al  ferir  di  corno , 

E mansueto  poi  mentre  si  spoglia 
Senza  dolor  la  molle  e bianca  lana , 

Di  cui  natura  poi  l' orna  e riveste 
Agevolmente.  E quel  eh’  i lumi  aperse 
Mentr'  ha  nel  Tauro  ’i  Sol  lucido  albergo, 
É faticoso  e tollerante  all’ opre; 

Ed  in  atto  servii  sè  stesso  ei  doma, 
Perocch’  avvezz’  è ’l  tauro  al  grave  giogo. 
Quegli,  a cui  Scorpio  in  elei  lucente  a- 
Altrui  percuote  disdegnoso  e fere,[scende. 
Come  la  fera  che  le  piaghe  attosca. 

Ma  Libra , che  le  cose  agguaglia  in  lance, 
Giusto  fa  l’ uomo  e di  giustizia  amico. 

Or  tieni  ’l  riso?  Il  segno  in  via  distorta. 
Onde  prendi  alla  vita  alto  principio, 

0 sia  ’l  Monton,  che  già  le  notti  adegua 
Co*  di  sereni,  o pur  lucida  Libra, 

Poca  è del  cielo,  e piò  lontana  parte. 

E dalle  fere  e dalle  greggi  immonde 

1 costumi  dell'uom  figuri,  e formi  ? 

E ferina  per  te , non  pure  immonda , 

È la  natura  umana?  Ai  cielo  ancora 
La  feritale  assegni.  Il  del  dipende 
Dalie  contaminate  e lorde  mandre  ? 

E fai  soggette  le  celesti  sfere 

Alle  terrene  belve?  Oh  ! sciocca  e stolta 
Sapienza  mondana , ond’  uom  si  gonfia 
Di  vano  fasto  e di  superbo  orgoglio, 
Simile  a tela  d’ infelice  aragna , 

Che  nella  sua  testura  appena  ’nvolvc, 

E ’ntrica  l’ale  all’importuna  mosca; 

Ma  se  peso  più  grave  in  lei  s'incappa, 
Non  si  ritlen , ma  la  dissolve  e frange. 

Oh  ! piaccia  alui  che  ne  distringe  c lega, 
Coni' a lui  piace,  e lalor  solve  e snoda 

I lacci  del  peccato , c I duri  nodi 
Onde  ’l  fato  quaggiù  tien  Palme  avvinte: 
Oh  ! piaccia  (dico)  a lui,  cui  tanto  aggrada 

II  libero  voler , celeste  dono , 

Anzi  divino,  e non  soggetto  al  deio, 

Di  squarciar  de’  contesti  antichi  ingaunl 
La  fragil  tela  ; c peso  aggiunga  a detto 
Liberator  degl’  infelid  ingegni. 

Dunque  dirò  che  nel  continuo  corso 
De'  sette  erranti , altri  a)  suo  centro  intorno 
Fan  più  veloce  il  giro,  altri  più  tardo. 
Ed  In  un*  ora  altri  guardarsi  insieme 
Soglio» , altri  celarsi , e mille  e mille 
Fanno  di  sè  negli  stellanti  chiostri 
Varie  figure , e da  minuto  inganno 
Nel  suo  principio , che  s’ avanza  e cresce, 
Un  infinito  errore  alfin  deriva. 


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112  POEMI 

E s'in  ogni  momento 'I  elei  si  cangia, 

E muta  in  un  sol  di  mille  sembianze. 
Porche  non  ogni  giorno  il  re  ci  nasce  ? 

0 perch’al  padre  nel  paterno  regno 
Succede  '1  figlio  nato  in  vario  clima 
Sott’a  varia  del  cicl  figura,  od  astro  ? 
Perchè  non  tutti  i regi,  e i grandi  Augusti 
Regia  figura  in  elei,  reale  aspetto. 
Attendono  de’  figli  al  nuovo  parto  ? 

E qual  nel  generarli  almeno  elegge 
L’ora  opportuna?  e di  bramata  prole 
Chiede  consiglio  alle  fatali  stelle? 

Ebbe  forse  nel  ciel  reale  iramago 
Di  fortunate  luci , allorché  nacque 
Gigc,  che  re  di  servo  alfin  divenne? 

0 Servio  che  di  Roma  al  regno  ascese  7 
0 ’l  Tartaro  clic  l’Asia  vinse  e corse  ? 
Creso  all' incontra  con  servile  aspetto 
Nacque  di  fiera  stella  e di  maligna  ? 

E Perseo  e ’1  Ber  Giugui  ta  c gli  altri  regi, 
Qie  ’l  trionfo  onorar  di  Roma  invitta  ? 
E come  gli  altri  l'infelice  Augusto. 

Preso  dal  re  de’  Persi,  e l'altro  avvinto 
Dal  barbarico  orgoglio  ha  pari  scempio? 
Ma  nell'estremo,  quel  che  tutto  avanza, 
Ponga  ornai  fine  alle  question  profonde  : 
Perchè  vane  sariau  le  sacre  leggi, 

Vani  i giudicj,  onde  virtù  s'onora 


SACRI. 

Col  guiderdone,  e T vlziohapenae  scorno, 
Se  i gran  principj  derivati  altronde 
Fosser  dell' opre  giustee  dell' inique, 

E non  in  noi  medesmi  : e ladro  il  ladro 
Non  fora , c non  farla  col  furto  oltraggio. 
Nè  percuotendo  ’l  micidiale  ’ngiusto  ; 

Se  non  potesse  la  sua  errante  destra 
Quel  dall’oro  aslcner,  questi  dal  ferro  ; 
Sospinto  a forza  dal  destino  avverso. 
Vani  sarlano  i magisteri  e Parti, 

E le  fatiche  ancora,  e i campi  Indarno 
Segneria  coll’  aratro  ’l  buon  cultore, 

O domeria  col  rastro  e col  bidente. 
Aguzzando  talor  l'adunca  falce  ; 

Se  dall’  ira  del  Cicl  matura  messe 
Fosse  negala , o dal  voler  del  Fato. 

E ’nvaoo  altri  solcando  T mare  Eussino, 
O’I  Caspio,  o l'Eritreo,  travaglia  e merca  ; 
Se  ’l  Fato  le  ricchezze  accoglie  e sparge. 
E quella  de'  fedeli  antica  speme, 

Ch’ai  gran  regno  del  ciclo  invitta  aspira , 
Perirpotrebbe,  ove ’l  suo  premio  al  giusto 
Non  si  conceda,  e la  sua  pena  all’  empio  ; 
Chè  dove  ’l  Fato  signoreggia  e sforza. 
La  dignitate  e la  virtù  sublime 
Non  ban  loco  fra  noi  conforme  al  merlo. 
Ma  temer  non  dobbiam  che  ’l  Clel  non  serbi 
Alle  buon’ opre  alfin  corona  e palma. 


GIORNATA  TERZA. 

Nella  quale  per  comandamento  di  Dio  ai  congregarono  le  acque  in  un  luogo,  e la  terra 
apparve,  e produsse  le  erbe  e le  piante  cu’ frutti. 


Sono  città  del  suo  valor  superbe, 

E di  bellezza  e d’arti  varie  e d'opre 
Meravigliose,  e d'edifìci  eccelsi, 

Od  onorate  pur  di  gloria  antica  ; 

Che  dal  nascer  del  giorno  al  Sol  cadente , 
E talor  anco  insin  che  gira  intorno 
La  fredda  notte  ’l  suo  stellalo  carro, 
Empion  di  turba  lieta  e di  festante. 
Piazze , campi , teatri  adorni  c logge , 
Ove  a’  dialetti  vari  intende  e passa 
L'orc  del  di  fugaci , c le  notturne 
Lunghe  ed  algenti,  e nel  volar  del  tempo 
Pur  sè  medesma  volontaria  Inganna. 

Altri  dall'apparente  c vana  fraude 
D’arte  fallace,  ond’è  schernito  ’l  senso, 
Deluso  pende,  e ne’  prestigi  incerti 
Meravigliando  quasi  T falso  afferma. 

Ed  altri  all'armonia  di  vari  accenti, 


0 pure  al  dolce  suon  di  cetra,  o d'arpa, 
Die  l’ alme  acqueta,  e i cor  lusinga  c molce, 
E gli  licn  lieti , o mesti  In  varie  tempre , 
Oblia  le  cure.  Altri  carole  e balli 
Lieto  rimira;  e d'impudica  donna, 

Che  ’n  varie  guise , e quasi  ’n  varie  forme 
Le  pieghevoli  membra  c muove  c cangia, 
Mira  i lascivi  salti  e i modi  c l’arte. 
Lusinghieri  c vezzosi  : c parte  agogna. 

0 dove  splende  pur  dipinta  scena 
Di  colori  e di  lampe,  c quinci  innalza 
Gli  archi  c le  mete,  c ’ntorno  a’  sacri  tempj 
Con  marmorei  giganti  alte  colonne, 
Piange  I casi  d’ Edipo , o di  Ttestc  ; 

E ’n  finto  cielo  il  finto  Sol  gli  appare 
Tornar  turbato  addietro  in  mezz’ai  corso: 
0 con  Davo , o con  Siro  allegro  rido 
Degli  scherniti  vecchi  i falsi  inganni. 


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113 


LE  SETTE  GIORNATE 
Altri  1 destrier  feroci  e pronti  a)  corso, 
A destra  ed  a sinistra  in  giro  volli 
Riguarda,  o ’n  chiuso  arringo,  o ’n  largo 
I simulacri  pur  d’orrida  guerra,  [campo 
Al  chiaro  suon  della  canora  tromba , 
Contempla,  e de’  guerrier  l’ insegne  c 
E lor  virtù  con  lieti  gridi  esalta,  [l’arme, 
Ma  noi,  che  ’l  Re  del  ciel,  Fattore  c Ma- 
D'opre meravigliose, invitae chiama  [stro 
A contemplare  ’l  magistero  e 1’  arte 
Divina , c questo  sol  lavoro  adorno , 

Cli’  0 di  cose  celesti  e di  terrene 
Con  sì  diverse  tempre  in  un  conteste  ; 
Sarem  pigri  a mirarlo  ? o pur  languenti 
Ascoiterem,  come  l’elenio  Fabbro 
Fe’  di  sua  man  le  meraviglie  eccelse  ? 

E non  più  tosto,  rimirando  intorno 
Questa  si  varia  e si  mirabil  mole , 

Ciascun  per  sé  colla  sua  mente  indietro 
Ritornerà,  pensami’ al  primo  tempo, 

Ch’  ebbe  principio  ’l  tempo  e T nuovo  mon- 
ln  guisa  di  gran  volta  II  elei  ricopre  [do? 
Le  somme  parti , e gli  stellanti  chiostri  ; 
Onde  con  tante  faci  altrui  risplendc 
Questo  sacrato  a Dio  terreno  tempio. 

E ’n  sè  medesina  si  riposa , e fonda 
La  gravissima,  vasta  c rozza  terra  : 

E l’aer  vago  si  diffonde  intorno 
Tenero  e molle,  In  cui  non  trova  Intoppo 
Chi  si  muove  per  luì,  si  proni' el  cede, 
E ch’allr’il  fenda  di  leggier  consente. 
Senza  contesa  egli  si  sparge  a tergo, 
Umido  nodrimento  a chi  respira 
Porgendo , o dolce  refrigerio  intorno  : 
Tant’è  l’acre  amico  ai  vago  spirto,  [usi 
L’acqua  ancor  nutre  ; cil  opportuna  agli 
Della  vita  mortai  del  mondo  immondo 
Ordinata  lor  fu  dal  Padre  eterno  ; 

Ma  non  contenta  già  d’incerta  scile, 

Ebbe  tonnine  proprio,  e certo  loco 
Tra  suo’  certi  confini.  In  cui  s'accolse 
Ubbidiente,  e ragunossi  insieme 
Al  comandar  delia  divina  voce. 

Disse  ’l  gran  Dio  : L'acqua  cli’è  sotl’al 
In  una ragunanza ornai s'  accoglie,  [cielo 
Perchè  l’arida  fuore  indi  si  reggia  : 

E cosi  fatto  fu.  L’acqua  repente, 

Ch’  è soli'  I giri  del  sereno  cielo , 

Nelle  sue  ragunanze  allor  s'accolse. 

Onde  veduta  fu  l’arida  parte; 

E l’eterno  Fattor  per  proprio  nome 
L’arida  chiamò  Terra  ; e l’acque ondose 
Mare  nomò  negli  ampj  spazj  accolto. 


DEL  MONDO  CREATO. 

E come  suol  lalor  ceruleo  velo , 

Che  gran  teatro  ricoprendo  adombri , 
Quinci  e quindi  ritratto  in  sè  raccorsi, 

E discoprir  della  dipinta  mole 
Archi,  statue,  colonne,  altari  c tempj  : 
Così  al  raccor  dell'  umida  natura 
Nell'  arida  apparirò  il  plano  e i colli  : 

E gli  altissimi  monti  alzar  la  fronte 
(Dianzi  coperti)  imperiosi  in  vista. 

E ’l  mare  ondoso  mormorando  appena 
Lavava  i piedi  al  mauritano  Atlante , 

E del  gran  Tauro,  e dì  Parnaso  e d’ Alo, 
Ch'allungar  può  la  breve  c fragil  vita 
De’  mortali  tigri  ; e d' Apennln  nevoso 
L'ime  parti  bagnava,  c quinci  e quindi. 
E correvano  al  cliin  dal  seno  alpestre 
Degli  aspri  monti  i rapidi  torrenti  : 

E con  rimbombo  impetuoso,  al  corso 
Precipitando  gian  le  torbide  onde. 
Corrcano  a basso  i quieti  e lenti  fiumi, 

E ’n  giù  corrcano  i lucidi  ruscelli. 
Perocché  Dio  colla  parola  eterna,  [pose. 
Clie  scendessor  correndo  all’  acque  Im- 
E da  principio  l' affrettare  ’l  passo 
Fu  comandato  all'  umida  natura 
Dell’ acque  vaghe,  e lor  negò  quiete 
Della  divina  voce  II  santo  impero  : 
Perchè  nell’  ozio  l'acqua  è pigra  c torpe, 
E là  dov’ella  s’ impaluda  e stagna. 

Da  neghittoso  grembo  esala  intorno 
Vapor  grave  e nocente  e feri  spirti 
D'aure  maligne;  onde  perturba  ’l  cielo, 
E quasi  l’aria  infetta  : c parte  in  seno 
Mal  sano  nutrimento  accoglie  c serba 
Nel  suo  limo  tenace , onde  sovente 
Lo  sfortunato  abitatore  ammorba. 

Ma  l'acqua  che  veloce  in  giù  discende, 
Da  qual  parte  ’l  suo  corso  ella  rivolga, 
Salubre  i sani  in  sull' erbose  rive 
Nutre  ; e i tesori  suoi  lieta  dispensa 
Poscia  con  auree  squame  e molle  argento, 
0 liquidi  cristalli;  onde  s'estingua 
L’ardente  sete  a'  miseri  mortali. 

Ma  più  salubre  è,  se  tra  vive  pietre 
Rompendo  l'argentate  e fredde  corna, 
Incontra  ’l  nuovo  Sol,  clic  ’l  puro  argento 
Co’  raggi  indora,  e i passi  in  breve  avanza. 
Quasi  rimembri,  ubbidiente  ancella, 
Dell'alta  voce  ancora  ’lsuon  celeste. 
Che  pria  la  mosse,  e la  fe’  pronta  al  corso. 

Ma  s’ è natura  pur,  eh'  è propria  all’  ac- 
que, 

L’ andare  a basso,  e’i  non  fermarsi  Inalto, 


POEMI  SACRI. 


114 

Ricercando  quiete  in  umìl  parte , 

A die  fu  d'uopo  la  divini  voce  ? 

Bastar  polca  la  sua  natura  al  corso  ; 

E fu  soverchio  ’l  comandar  severo , 

Che  le  tolse  ’l  riposo,  e ’n  moto  eterno 
La  fe’  inquieta , istallile  e vagante. 

E pur  fu  necessario  ’l  santo  impero: 
Perocché  ’l  suoi)  della  parola  eterna 
Se  creh  l’ acque,  creatore  Insieme 
Fu  della  tnobil  lor  natura  errante, 

Chela  conserva;  e nel  suo  moto  eterna 
Quasi  la  rende , e l'assomiglia  al  ciclo  ; 
Onde  la  sua  natura  è certa  legge 
Doli' inumi  tallii  verbo;  c certa  sede 
Dopo  ’l  suo  lungo  corso  a lei  prescrive  : 
Ma  quivi  ancor  dalle  superne  rote 
Agitata  si  muove,  e turni  indietro. 
Cedendo  intanto  all’arenosa  terra 
Gli  usurpati  confini.  E ’n  questa  guisa 
Segue  del  Sole  e delle  stelle  erranti. 

Ma  più  della  vicina  c bianca  luce, 

11  certissimo  errore  e ’l  vago  giro  ; 

E da  sei  ore  in  sei  s' ai  ama,  o scema. 
Perocché  quando  all' orizzonte  ascende 
La  vaga  Luna,  In  riva  al  mar  sonante 
Cresce  ’1  canuto  flutto,  c i lidi  inonda 
Vittorioso , e parte , o copre , o sparge 
D’arida  terra,  lusin  ch’ai  sommo  cielo 
Aggiunga  della  Luna  il  freddo  carro. 
Quinci,  mcntr’ella  all' orizzonte  estremo 
Declina  in  ver  l’Occaso,  il  mar  decresce, 
E'n  sé  medesmo  si  raccoglie;  c scopre 
Di  bianchissima  spuma  I lidi  aspersi. 

Ma  ferve  ’l  mar  di  nuovo , c ‘n  fera  vista 
Gonfia  P onde  spumanti , e spazio  ingoni- 
Ncll’  occupala  terra,  allorché  torna  [bra 
Ella  a quel  punto  dell'opposta  parte; 

E nell'altra  emlspero  ad  altre  genti 
Altissima  risplendc  in  mezz'ai  cielo. 

Di  nuovo  cala  ’1  mare,  e'n  unii!  faccia, 
E par  che  fugga  ed  abbandoni  ’l  lito  ; 
L’onde,  fervide  dianzi,  appiana  e queta. 
Quando  la  Luna  fa  ritorno  in  alto 
Nel  suo  Oriente,  ond'  ella  a noi  si  mostra. 
Ma  non  serba  ogni  mar  l' istcssa  legge 
Quand'  egli  cresce  o scema  : e varia  ’n  parte 
L’ordine  e'I  moto,  e ’n  altri  modi  ondeggia. 
Presso  i Tauromilani  assai  più  spesso, 

E nell'  Etilica  (come  si  legge)  il  mare 
Ben  sette  volte  ’l  di  s’ avanza , c scema  ; 
Gran  maraviglia  ! onde  sublime  ingegno 
Affaticato  e vinto,  a morte  giunse, 
Metilr'ci  cercando  la  cagione  occulta , 


Si  dolse  che  natura  a noi  1*  asconda 
Nel  suo  profondo  e tenebroso  grembo. 

Ma  tre  fiale  ’l  giorno  assorbe  e mesce 
L' onde  la  tempestosa  empia  Cariddl , 

Da  cui  latra  non  lunge  orrida  Scilla. 

Altri  mari  vi  son  (come  s’ afferma) 

Che  nello  spazio  pur  d' un  mese  integro 
Soglion  due  volte  alzar  Tonde  spumose  , 
E due  volte  chinarle  in  sé  ripresse. 

Anzi  nel  inar  degli  Etiopi  adusti 

Non  v'ha  flusso  e riflusso.  E più  lontano 

Soli’ un  altro  endspero,  e un  altro  polo, 

I n cui  non  splende  ’l  pigro  Arturo  c T Orsa , 
Solca  un  gran  mar  d’ una  perpetua  pace 
L'ardito  navigante.  E quel  ch'intorno 
La  terra  mormorando  ognor  circonda , 
Indomito  Ocean  respinge , e caccia 
Lunge  nel  crescer  suo  torrenti  e fiumi , 
Talché  paion  fuggendo  1 porti  e ’l  lido 
Lasciar  per  tema , e le  deserte  arene , 

E tornarseli'  indietro  a propri  fonti  : 
Tanl’ é'1  poter,  che  gli  reprime  e sforza, 
Dell’ Ocean  che  mugge  alto  e superbo  ! 
Ma  *1  ligustico  seno , e quel  de'  Toschi , 
Ch’ondeggia  presso  alla  novella  Pisa, 

Clt' a’  più  onorati  studj;  I premj  serba, 

E le  corone  alle  più  dotte  fronti. 

Non  ha  quasi  dell’ onde  ’l  moto  alterno. 

Ma  se  da  prima  T acque  al  chiaro  suono 
Fur  mosse  già  della  divina  voce. 

Perché  cercare  In  terra,  o’n  mezzo  all’on- 
Altra  ragion  del  lor  perpetuo  moto?  [de 
0 pur  lassù  tra  gli  stellanti  chiostri  ? 
Come  fer  molti , Il  cui  pensiero  ondeggia 
Pur  quasi  d’ acqua  il  tremolante  lume. 

Altri  al  moto  divino,  onde  si  gira 
I-a  sfera  più  sublime,  assegna  c rende 
L'alta  cagione  ; altri  alle  stelle  erranti, 
A quelle  più  della  più  bassa  luce,  [forza 
Ch’é  più  vicina,  c quinci  ha  maggior 
Nelle  cose  mortali  a lei  soggette. 

E di  questi,  altri  vuol  eh’ obliquo,  o dritto 

II  bianco  raggio  innalzi  Tonde,  o spiani; 
Altri,  clic  della  Luna  il  pieno  aspetto 
Riempia  ’1  mar  di  tempestoso  flutto; 

E scemando  lo  scemi  ; ed  altri  afferma 
Che  per  consentimento  di  natura 
Tacito  Imiti  il  mar  del  cielo  II  corso  : 

Ma  sono  questi  In  ciò  quasi  concordi. 

Altri  de'vcnti  al  respirare  obliquo 
E ’n  sé  stesso  ritorto , il  corso  all’  onde 
Ritorce,  c le  commove  or  quinci , or  quindi. 
Altri  fu,  che,  seguendo  antica  fama, 


Die 


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LE  SETTE  GIORNATE 
Disse  che  *1  mar , quasi  spirante  e Tiro 
Grand'anlmal,  che  del  gran  mondo  è parte, 
Manda  fuori,  e raccoglie  ’l  corso,  e l’ onde , 
Spirando,  e respirando  in  vari  modi. 
Altri  nell'  inegual  suo  letto  angusto 
Non  vuoi  die  trovi  '1  mar  riposo , o pace  : 
E quinci  sempre  egli  si  muova , e lagni 
Con  roco  pianto,  e l'inquieto  regno 
GU  sia  di  guerra  pur  turbalo  campo  ; 

Ma  più  si  muova  nelle  parti  eccelse , 

Che  son  quelle  rivolte  al  freddo  Carro, 

Li  dove  sempre  di  gelato  umore 
Gravidi  e pieni  son  gli  orridi  monti , 

Lo  qual  compresso  in  marsi  stilla  eversa. 
E perche  la  gelata  alta  palude. 

Che  T Aquilon  superbo  astringe,  c 'ndura, 
È più  sublime  assai  : però  discende 
NelTtnospile  Bussino  : e quel  trascorre 
Nel  mare  Egeo  col  suo  veloce  fluito  : 

Ma  poi  respinto  d' arenosa  piaggia 
Fa  l’Egeo  ncH’Eussin  ritorno,  e riede 
L' Eussin  nella  medica  palude  : 

Quinci  hanno  1 mari  ognor  flusso  e reflusso. 

Alcun  vi  fu  di  più  sublime  ingegno 
Ch'a  non  giuste  bilance  '1  mar  somiglia  ; 
Ed  una  parte  sua  solleva  in  alto , 

L’altra  deprime  ali’ arenoso  fondo  : 

Ma  da  quel  favoloso  antico  varco , 

Ove  Alcide  innalzò  le  mete  e 1 segni 
(Come  si  disse),  e dall'  ondose  porte 
(Se  pur  sue  porte  ha  l'Ocean  profondo) 
In  guisa  di  torrente  '1  mar  si  sgombra 
Di  seno  in  seno,  e con  diversi  aspetti 
Egli  sè  stesso  pur  figura , e stringe 
Trai  curvi  lidi  e l’ arenose  sponde. 

Anzi  fu  l’ alta  man  dei  Mastro  eterno , 
Clic  *n  unte  forme  flgurollo , e finge , 

Or  facendo  '1  mar  lungo,  or  tondo,  orqua- 
E'n  guisa  di  piramide  c di  croce  [dro  ; 
Anco  formollo , e di  mirabil  vaso  ; 
Siccome  la , dove  '1  Tirreno  inonda 
Di  Partenope  bella  i lidi  e i colli , 

Gran  tazza  colma  di  spumoso  umore. 

Maquai  si  sia  del  mar  la  forma  e 'I  moto, 
Posa  diurna  mai , posa  notturna 
Non  trova,  nè  silenzio  in  chiaro  tempo , 
Od  in  turbato , ed  in  orror  profondo , 
Benché  i silenzi  nell’  amica  notte 
Abbia  la  Luna,  lo  la  cagion  primiera 
Non  reco  al  Sole , od  alle  strile  erranti , 
Non  a’  raggi  di  Luna  obliqui , o dritti , 
Non  al  ritorto  respirar  la  rendo 
Degl’Inquieti  venti,  al  vario  fondo. 


DEL  MONDO  CREATO.  115 

In  cui  s'appende  ’1  mar  sospeso  bilance  : 
Cliè  la  prima  cagion  fu  l’alta  voce, 
Movendo  ’l  cielo  in  giro,  e i mari  insieme, 
De'  qual  (com'  altri  disse)  in  giro  parte 
L’onda,  ed  al  suo  principio  in  giro  toma. 
Deh  '.  se  giammai  sovra  una  viva  fonie , 
Che  d’ acqua  intorno  larga  copia  spande, 
Sedesti  lasso  ; e nel  pensler  l’ occorse , 

Chi  è colui  che  fuor  del  seno  algente 
Della  profonda  e tenebrosa  terra 
Manda  fuor  l'acqua  7 e chi  la  spinge  avanti, 
Perch’ella  mal  non  cessi  e non  s’arresti? 
Qual  sono  1 vasi  eie  spelonche  interne, 

Da  cui  deriva?  ed  a qual  loco  alTretta 
Mai  sempre  ’1  corso  ? cd  onde  av  viene  e 
come , [s’empia  ? 

Che  quesU  mai  non  manchi  c qnel  non 
Questi  effetti  si  ascosi  al  nostro  senso 
Pendon  da  quella  prima  c chiara  voce  [so. 
Ch'aH'acque  indulse,  e le  fe’  pronte  al  cor- 

Tu  che  volgesti  pur  le  antiche  carte , 

E spesso  volgi  le  moderne  Illustri , 
Ricorda  pur  fra  te , come  rimbombi 
Di  quella  prima  voce  11  chiaro  suono  : 

• Si  ragunlno  Tacque;  > e quinci  innalza 
il  tuo  pensiero  alle  cagioni  eterne. 

Il  correr  pria  fu  necessario  all'  acque 
Per  occupar  la  certa  cd  ampia  sede. 
Giunte  nel  proprio  loco  a lor  convenne 
In  sè  stesse  fermarsi,  cd  oltra  ’l  corso 
Non  affrettar  con  un  perpetuo  errore. 

E quinci  certo  avvien  ch'alfin  si  scorga 
Ogni  torrente  in  m are,e’l  mar  non  s’empie: 
Perchè  fu  dato  in  sorte  all’  acque  il  corso, 
E circoscritto  entri  a’  confini  il  mare, 
Com’  impose  ’l  buon  Re  che  fece  ’l  mondo. 
E quel  suo  comandar  fu  prima  legge , 
Legge  eterna  e comune,  a cui  rubclla 
Non  è natura , e tra  gli  spaz]  angusti 
Qucta  ’l  mar  violento  il  fero  orgoglio. 

Se  dò  non  fosse,  el  già  diffuso  c sparso 
Coperto  avria  con  nn  diluvio  eterno 
La  bassa  terra  eh*  ci  circonda  e parte. 

Nè  quel  di  lei,  che  fuor  dell’  acque  appare, 
Picciolo  spazio  ci  lascercbbe  Intero 
A’  faticosi  e miseri  mortali. 

Quando  agitato  è più  fra'  tuoni  e lampi 
Dal  gran  furor  de’  procellosi  spirti , 

E volge  al  lido,  e sino  al  cielo  innalza 
Gran  monti  d’onde  rapidi  e spumanti  ; 
Appena  tocca  T arenose  rive , 

Che  ’l  suo  furor  si  frange,  e ’n  lieve  spuma 
L’ impeto  si  dissolve , e rotti  e sparsi 


110  POEMI 

Caggiono  i monti,  ond’  ci  ritorna  indietro. 
Qual  dell'arena  più  minuta  e vile 
E dcbil  cosa  più  trovar  potresti? 

0 qual  più  violenta  e più  superba 
Dell' orgoglioso  mare  ? e pure  a freno 
L’arena  tien  del  mar  l'orgoglio  e l'ira. 

E non  temerem  noi  quel  ite  superno , 
Che  pose  al  mar  con  si  niirabil  arte 
Per  termine  l’arena?  ò perdi’ uom  pensi 
Al  magistero,  eglimedesmoil  dice. [vieto. 

Qual  potrebbe  altro  intoppo, e qual di- 
Qual  podestà  terrena,  o legge,  o forza, 
Tener  il  «osso  mar  sublime,  o gonfio, 
Cb' all' Egitto,  di  lui  più  cavo  c basso, 
F'atl'avria  prima  impetuoso  assalto, 

E lui  sommerso  entr'a'  suo’  vasti  abissi? 
Gii  coll'indico  mar  si  fora  aggiunto 
Senza  fatica,  c senza  ingegno,  od  opra 
Degl'  industri  mortali , e senza  'I  vanto 
De’  superbi  tiranni.  Il  gran  Sesostre, 
Ch'i  regi  calenati  al  duro  giogo, 

Quasi  cavalli  o buoi,  soggetti  a forza 
Tenne,  e tragger  li  fece  il  proprio  carro 
Per  le  già  dome  e soggiogate  genti  : 

Quel  Sesostre,  dich'io,  terrore  c scempio 
De’  regni  d' Aquilone  , ov'egli  in  alto 
Pose  la  sede  { c ben  di  dò  si  vanta 
Con  fama  antica  'I  favoloso  Egitto), 

Quell' istesso  Sesostre  ’l  mar  degl' Indi, 

E l’Eritreo  tentò  d'unire  insieme 
Con  quel  d’ Egitto  : e la  mirabil  opra 
Il  re  possente  abbandonò,  temendo 
Che  sommersa  dal  mar  la  verde  terra 
Non  rimanesse,  e quell' istessa  teina 
Poscia  ritenne  ’l  successor  di  Ciro. 

Eran,  quando  fu  dato  ’l  corso  all’ acque, 
Pieni  di  cavernosi  c curvi  monti 
Gli  antri,  c le  tenebrose  atre  spclunche, 
E le  valli  palustri  in  varie  forme 
Pendenti,  ed  ime  infra  montagne  e colli  : 
E quali  eguali  al  mare  i larghi  campi 
Eran  già  colmi  d’argentato  umore  : 

E tutti  insieme  si  voltar  repente 
AI  comandar  della  divina  voce, 

Dacui  l' acque  furmosse,  c ’ngiù  sospinte 
Dalle  quattro  del  mondo  avverse  parli, 

E ’n  una  ragunanza  insieme  accolte. 

Anzi  nel  tempo  istesso  allor  costrutti 
Per  opra  fur  della  divina  destra 

1 larghissimi  vasi,  i fonti  e l'urnc. 

Egli  altri  lochi,  in  cui  s'accoglie,  oversa. 
Non  era  ancor  di  là  dal  varco  angusto , 
Che  divide  coll’ onde  Abita  e talpe. 


SACRI. 

Anzi  Libia  ed  Europa,  il  mar  d’ Atlante, 
Nò  quel  si  paventoso  a’  naviganti 
Tempestoso  Ocean , che  ’ntorno  inonda 
Di  Gerlonc  i fortunati  regni , 

E l' Inghilterra,  e la  vicina  Irlanda  : 

Ma  fur  di  quella  voce  al  gran  rimbombo 
Fabbricate  le  rive , e ’l  vasto  letto , 

In  cui  si  ragunar  l' acque  correnti. 

Nò  ’ncontra  ’l  vero  insuperbire  ardisca 
L’esperienza  de’  mortali  erranti. 

Fallace  e vana , a cui  di  pochi  lustri 
Il  brevissimo  spazio  orgoglio  accresce. 
Perchò,  dich'io,  se  ben  riguardi  e pensi 
Il  numero  de'  secoli  volanti, 

A lui  non  giunge  esperienza  umana. 

E non  adduca  incontra  noi  l'esperto, 
Che  del  mondo  cercò  le  parti  estreme. 
Fosse , stagni  fangosi , imi  e palustri 
Laghi,  in  cui  si  raccoglie  il  pigro  umore, 
Cile  Dio  stimò  di  si  gran  nome  indegni. 
E mari  egli  chiamò  sol  l' ampie  c grandi 
Ragunanze  dell'acqua,  anzi  quell’ una 
Grandissima,  e perfetta,  in  cui  s’accoglie. 
Come  ’n  suo  loco , ’l  liquido  elemento. 

E come  ’l  foco , che  diviso  e scevro 
In  parli  minutissime,  risplende 
Qui  per  nostr’ uso  in  verde  legno,  o’n  esca 
Arida  , in  forma  di  carbone  acceso, 

0 di  lucida  damma,  o di  fumante. 

Per  cui  si  sparge  ’n  cenere  e ’n  faville: 
Ma  sotto  ’l  del , ch’ò  men  sublime  ed  ampio. 
Nel  cavo  spazio  si  raccoglie  insieme  : 

0 come  l'aria  che  si  spande,  c spira 
Per  varie  parti,  e nell’occulto  grembo 
Passa  dell'  onda,  onde  germoglia  e spuma  ; 
E fra  spelonche  e cavernosi  monti 
Penetra  ancora,  e nell’ interne  vene 
Della  profonda  c tenebrosa  terra. 

Ma  pu  re  insieme  ’l  proprio  loco  ingombra  : 
Cosi  l'acqua  non  men  s’aduna,  e sparge 
In  vario  letto,  c Ira  conditi  angusti; 

Ma  poi  raccolto  in  voto  spazio,  e vasto, 
Empie  ’l  salso  elemento  il  proprio  sito. 
L' altr'  acque  in  varie  parti  insieme  accolte 
A questa  somiglianza  anco  sortirò 
Di  mari  ’l  nome  si  famoso  e illustre  : 
Siccome  là , dove  Aquilone  algente 
Versa  mai  sempre  le  pruine  c ’l  gelo,  [eia, 
E i larghi  campi  e gli  aspri  monti  agghiac- 
Chc  son  canuti  di  perpetua  neve. 

Ivi  [come  la  fama  a noi  divolga) 

Sono  ampissimi  stagni , e nel  profondo 
Letto,  e fra  le  superbe  orride  rive. 


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LE  SETTE  GIORNATE  DEL  MONDO  CREATO. 


Quasi  pinole  del  mare,  alle  paludi, 

E in  gel  converse,  anzi  indurate  e strette, 
Quasi  in  lucente  adamantino  smalto. 
Delle  veloci  rote  II  corso  e '1  pondo 
Sostengon  del  gravoso  ed  ampio  carro, 
Che  gli  animali  ignoti  a'  nostri  sensi 
Soglion  tirar,  la  fronte  alta  e superba, 
Di  più  ramose  armali  e lunghe  corna, 
Facendo  lunga  strada  al  grave  plaustro, 
La  've  dianzi  correa  spalmata  nave. 

Ma  di  lutti  maggior  candido  lago 
Là  sotto  a’  sette  gelidi  Trioni  [no. 
Biancheggia,  e quasi  eguale  al  mare  Irca- 
Mollc  ha  dintorno  alle  sue  ignote  sponde 
Città,  provinde,  regni,  Ignote  genti, 
Popoli  barbareschi  ; c quesli  a caccia 
Van  per  le  rive  degli  augel  volanti  ; 

Osu  peri’ onde,  e dentr’ all' onde  (stesse 
Cercali  l’umida  preda,  c ’l  cibo  usato 
Degli  animai  squaminosi , e degli  alati. 
Bolmia,  Domila  piscosa,  assai  vicina 
Ai  più  lontani  ed  ultimi  Biarmi , 

Intra  que'  suo’  gelati  orridi  monti 
Ha  molti  quasi  mari , c nutre  e pasce 
Pur  di  quell'esca  le  propinque  genti, 

E potria  mezzo  nutricarne  ’l  mondo. 

Ha  di  Venere  ’l  lago  in  altra  parte. 

Che  sotto  all’  Orse  sì  dilata  c spande  ; 

E nel  suo  spazioso  e largo  seno 
Per  ventiquattro  porte  i fiumi  accoglie, 
Ch’  entrano  in  lui  : ma  solo  aperto  un  varco 
Lascia  al  precipitoso  uscir  dell’ acque, 
Che  per  sassoso  calle  al  mar  sonante 
Corrono  : e ’l  suono  I suo’  vicini  assorda. 
Ei  molte  accoglie  nell'ondoso  grembo 
Isole  e tempj  sacri  al  Re  celeste. 

In  cui  s’adora  con  pietoso  culto. 

Quivi  il  lago  di  Melce  anco  ristagna 
Fra  il  regno  di  Suezia  c quel  de'  Goti. 
Quel  di  Vetere  appresso  ivi  mareggia; 

E di  fulmine  ’l  tuono,  o di  metallo 
Imitator  del  fulmine  rassembra , [corso 
Con  quel  dell' acque,  allorché  d'alto  il 
Muove  precipitando;  onde  sovente 
Tuonar  diresti,  e fulminare  il  ferro, 

Che  Calte  mura  impetuoso  atterra. 

E l’uno  e l'altro  di  metalli  abbonda; 

Si  ricche  son  l’ avventurose  rive 
Di  gran  vene  d’argento,  e di  ferrigne. 

Ha  ’1  regno  di  Norvegia  T proprio  lago  ; 
Cile  ’n  vece  di  prodigio  In  sen  si  nutre 
Orrido  spaventoso  empio  serpente,  [egro 
L’ ha  quel  d’ lbcrnia,  ov’  uom  languente  ed 


Non  può  stanco  spirar  lo  spirto  e l’alma, 
Se  quinci  ei  non  è tratto.  E fra'  Britanni 
SI  vede  un  lago,  che  pur  scema  e cresce 
Con  ordine  contrario  al  mar  sonoro, 

In  cui,  quand'egli  cala,  il  lago  inonda; 
Ma  Comica  sè  raccoglie,  e torna ’ndlctro, 
Quando  più  ferve  l’Ocean  superbo. 

Ila  Scozia  ’1  Lazio  di  famoso  grido, 

E la  meravigliosa  alta  palude. 

Che  quand’  è più  sereno  e puro  T cielo. 
Nè  si  niuovon  per  l’aria  o venti  od  aure, 
SI  gonfia  non  so  come  c Fonde  accresce. 
•Molli  Germania  e Francia,  e quel  famoso, 
Dacui  ilRodan  si  partee 'limar  trascorre. 
Alla  palude  Lagia,  onde  si  vanta 
La  nobil  Gamia,  lunga  età  vetusta 
Non  ila  scemato  ancor  l’ onore  e ’l  grido  ; 
Quivi  si  pesca  prima,  e poich’è  fatta 
Secca  ed  asciutta,  in  lei  si  sparge'!  sente, 
E si  raccoglie  ; e tra  le  verdi  piante 
Prende  l'abitator  gl'incauti  augelli. 

E ’n  tal  guisa  addivlen  che  ’n  vari  tempi 
L'istessa  sia  palude,  e campo  c selva. 

E di  Tracia  e d’ Arcadia  ancor  son  conte 
Le  meraviglie.  E nell’avversa  parte 
Del  mondo,  dove  ’l  Sole  asciuga  ed  arde 
La  terra  , sono  ancor  nel  suolo  adusto 
Di  mirabil  virtù  paludi  e stagni, 

A cui  di  mar  non  fu  negato  ’i  nome. 

In  Giudea  per  miracolo  s’ addita 
Quello,  cui  piovve  già  dal  cielo  ardente 
La  giusta  fiamma;  c l’altro  a lui  vicino, 
Onde  prima  ’l  Giordan  si  muove  e scende. 
Fra  Palestina  giace,  e ’l  verde  Egitto 
Ne’  deserti  d’Arabia  un  ampio  lago 
Detto  di  Simoite.  Or  perchè  narro 
0 d’ Arabi,  odi  Siri  acque  stagnanti? 

S’ ancor  la  terra  d’ Etiopi  e d'indi. 
Vieppiù  soggetta  a)  Sol,  s'irriga  c bagna 
De’  suo’  laghi  famosi  ; e si  racconta 
Che  d’ alcuni  bevendo  uom,  folle  e stolto 
Tosto  diviene,  o pur  dal  sonno  oppresso 
SI  giare,  c da  mortifero  letargo. 

Olirà  le  Mete  ancor  d' Alcide,  e I segni. 
Fra  ’l  Tropico  del  Cancro  e l'ampio  cinto 
Che  la  sfera  maggior  divide  e fascia. 

Ne’  regni  dianzi  ignoti  un  lago  ondeggia, 
Lo  qual  non  d' ora  in  ora  o scema  o cresce, 
Nè  d’un  in  altro  giorno,  e non  s’avanza 
Di  stagione  in  stagione,  o d’anno  in  anno 
Ma  ’n  guisa  d*  uom  terreo,  che  tardi  giunga 
Al  suo  perfetto  stato  ; e tardi  ancora 
Declinando , di  sè  minor  divenga  ; 


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118  POEMI  SACRI. 


Per  cinquini’  anni  egli  s’  accresce  e colma. 
Ed  altrettanti  poi  si  scema  e vota. 

Ma  dove,  Italia  bella,  ornai  tralascio 

I laghi  tuoi  descritti  in  mille  carte, 

E chiarissimi  ancor  di  fama  e d’onde 7 
Chi  tace  ’l  Trasimeno?  o quel  eh’  accoglie 
Nel  dolce  seno  la  cittì  di  Manto , 

0 ’l  grandissimo  Lario,  o ’l  gran  Benaco, 
Ch’  assomiglia  del  mar  l' orgoglio  e l'onde  7 
0 tant'  altri , onde  lieta  ancor  ti  nomi  ? 
Perchè  tace’ io  le  maraviglie  antiche 
De'  stagni  di  Rieti , in  cui  vedeansi 
L’ (solette  ondeggianti  ir  quasi  a noto? 

0 nel  lago  Tarquinio  i boschi  ombrosi 
Ir  su  per  l’onde,  e variar  sovente 
Forma  e sembianza , or  con  ritondo  giro, 
Or  con  tre  lati,  e fare  T terzo  acuto? 

Ma  dall' opre  di  Dio  chi  mi  trasporta 
A narrar  di  natura  1 vari  effetti 
Antichi,  e nuovi?  c riempir  le  carte. 
Sacre  alla  maestà  dei  Re  superno, 

D’allr'  onor,  d’ altr’  istoria  e d’ altro  nome, 
0 d’ altre  rare  meraviglie  eccelse , 

Che  delie  sue  medesme?  o pur  son  anco 
L’opere  di  natura  opre  divine? 

E ’l  magistero  di  natura  è l'arte 
Del  Fattor  primo,  ond’è  fattura  c figlia 
La  gran  madre  Natura;  e ’n  lei  s’onora, 
E ’n  lei  si  riconosce , e si  contempla 

II  saper  e ’l  poter  die  tutto  avanza. 
Detrailo  Re,  ch’è  suo  fattore  c padre? 
Lo  quai  de'  mari  diè  l’ immago  e ’I  nome, 
E l'ondeggiar  con  tempestoso  flutto 
All' acque  insieme  accolte  : e pur  di  tante 
Fece  un  sol  mar  con  magistero  illustre  , 
Ma  pur  in  parte  occulto  a'  sensi  erranti , 
Ed  uno  sol  dell’acqua  ampio  elemento; 
A cui  fra  la  gravosa  e stabil  terra, 

E l’aer  leve  e vago,  egli  prescrisse 
La  sede  c ’l  proprio  loco  ; e quinci  c quindi 
Pose  i fermi  confini , o quasi  eterni. 

Un  solo  adunque  è ’l  mare  insieme  ag- 
D’ acque  infinite  e d’ infiniti  abissi,  [giunto 
Come  affermar  quei  clic  di  Sole  in  guisa 
Lustrar  la  terra  e circondarla  intorno, 
Peregrinando  dall’  Occaso  all’  Orto , 

O da’  regni  di  Rotea  a’  regni  d’ Austro. 
Bendi'  alcun  sia , che  stimi  il  mare  Ircano 
Da  ciascun  altro  mar  scevro  c disgiunto. 
Perchè  tutto  è di  rive  intorno  cinto  : 

Nè  dimostra  altramente  ’l  vago  senso , 
Come  ben  dimostrò  T antico  errore 
Di  chi  pensò , die  nella  stessa  guisa 


Separato  ancor  fosse  ’l  mar  Vermiglio, 

E quel  degl'ìndi.  Ma  non  senso,  o certa 
Esperienza  di  mortali  industri 
Può  dimostrar  eh’  agli  altri  mari  unite 
Sien  l' onde  caspie,  che  divise,  e ’ntorno 
Son  circondate  da  si  lunga  terra  : 

Ma  solo  ’l  pellegrino  ed  alto  Ingegno, 

Ch’  ascende  al  cielo,  e gli  stellanti  chiostri 
DI  sfera  In  sfera  alfln  trapassa,  e varca 

I confini  del  mondo , e i spazj  angusti 
Esposti  a'  sensi , c con  eterna  pace 

Si  congiunge  alle  pure  eterne  menti. 

II  medesimo  ingegno  1 letti  e ’l  fondo 
Cerca  de’  mari  ondosi , e va  sotterra 
Spiando  le  più  occulte  Interne  parti , 
Clie  ne’  segreti  suol  Natura  asconde. 
Questo  osò  d'affermar  del  Caspio  mare , 
Ch’  ei  sotterra  con  gii  altri  ancor  s’ aggitm- 
Comedel greco  Alfeo,comedelTigre,  [ga; 
Come  degii  altri  fiumi  ancor  si  legge. 
Perocché  Iddio , qual  fondatore  antico 
D’alta  citladc,  od  architetto  illustre, 
Che  per  uso  di  lei  profonde  e lunghe 
Strade  faccia  sotterra  al  corso  occulto 
Dell’  acque  vaghe , c le  conduca  altronde, 

0 da  fonte,  o da  fiume,  o da  palude  : 
Tal  de’  mari  forò  le  vie  nascose 
Dentro  la  tenebrosa  e fredda  terra} 

E dal  suo  fonte  le  rivolse  in  giro 
il  Dedalo  divin  (se  dir  convlensi). 

Sicché  non  sol  congiunto  al  mar  di  Cade 
K l’Affricano  insieme,  e quel  de’  Sardi, 
E ’l  Ligustico  appresso,  e ’l  mar  Tirreno, 
L’ Adriano , l' Ionio , o pur  l’ Egeo 
(ioti  tant’  isole  sue , con  tanti  porti  ; 

E ’l  Mìrteo  suo  vicino,  e seco  ’l  Ponto, 
Coll' Ellesponto,  e la  palude  amara: 

Ma  d’ Arabi  e di  Persi  e d’ Indi  adusti 

1 larghi  seni  ail’Ocean  profondo 

Son  pur  congiunti , e ’n  più  mlrabil  modo 
Il  Caspio  mar,  clic  si  rinchiude,  o copre 
Per  tanto  spazio,  e poi  dagli  altri  appare 
Diviso;  e quasi  peregrin  solingo, 

L' alta  unione  e ’l  gran  principio  asconde. 

Non  disse  allora  Iddio:  La  terra  appaia: 
Ma  l’ arida  si  reggia.  Arida  volle 
Chiamar  la  terra,  e dimostrar  co!  nome 
Ch’  arida  fu  la  terra  avanti  ’l  Sole. 

Avanti  che  nascendo  ’l  Sole  In  cielo 
Le  seccasse  co’  rai  ie  membra  asciutte, 
L’ antichissima  madre  arida  apparve. 
Perocch’al  suon  della  divina  voce 
Corsero  tutte  Tacque  in  giù  repente; 


LE  SETTE  GIORNATE 
Ond’ella  ne  restò  fangosa,  e mista 
D’ acque  stagnanti  in  male  adorno  aspetto. 
Ma  fu  sua  prima  qualità  vetusta 
L' esser  arida  e secca,  e nota  antica. 

Che  la  disegna , e sua  sostanza  adempie. 

Com’ è proprio  dell’acqua  ’l  freddo,  e ’l 
Dei  foco,  e l’aria  è d' umida  natura  ; [caldo 
Cosi  alla  terra  l’arido  conviensi. 

E siccome  al  muggire  è noto  ’l  tauro , 

E ’l  Ber  leone  al  suo  ruggir  superbo , 

E 1 cavallo  al  nitrir:  cosi  la  terra 
Per  l’arido  s'informa  e si  distingue. 

Ma  de’  primi  elementi  ancora  immistl 
Dio  solo  intender  po6  l’accorta  mente, 
Contemplatrice  degli  oggetti  eterni. 

Ma  perchè  a’  nostri  sensi  ornai  soggetti 
Son  delle  cose  instabili  e caduche 
I gran  principi , onje  perpetua  guerra 
È sott’  al  giro  dell’  algente  Luna  ; 

In  lor  nulla  di  puro,  o di  sincero, 

O di  semplice  vedi , o di  solingo ; [pia 
Ma  son  mischiati  insieme,  e ’n  lor  s' accop- 
L’ una  coll'  altra  qualità  primiera. 

Onde  la  terra  insieme  è secca  e fredda  : 
Fredda  ed  umida  l'acqua  : umida  e calda 
L’aria  : ma  sovra  lei  vicino  al  delo 
È caldo  e secco  per  natura  ’l  foco. 

Cosi  le  <|  uni  ì t a ti  a coppia  a coppia 
Ne’  primi  corpi  son  congiunte  insieme , 
Per  cui  l’ uno  coli’  altro  in  un  si  mesce 
In  breve  pace.  E come  avviene  in  danza, 
Ch'  alcuno  in  mezzo  è con  due  mani  av- 
vinto, 

E con  due  mani  avvince  ; c quinci  e quindi 
L'intrecciala  carola  In  lungo  giro, 

Menlr'  ella  si  rivolge , in  sè  ritorna , 

Cosi  degli  elementi  il  coro  e ’l  ballo 
Si  gira  ’n  cerchio,  ed  in  sè  stesso  ei  riede. 
Perocché  l’acqua  col  suo  freddo  unita, 
Quasi  con  una  mano , al  suolo  algente 
È della  fredda  terra  : e d’altra  parte 
Con  altra,  quasi  mano,  umida  tocca 
L’ aria , che  posta  pur  fra  l’ acqua  e ’l  foco, 
Sè  per  l'umido  suo  coti' acqua  Implica, 

E col  suo  caldo  s'accompagna  al  foco; 

E delle  due  nature  in  sè  discordi 
E guerreggiami , la  contesa  e l’ ira 
Divide  e parte,  c lor  cougiungc  e lega. 

Oh  ! mirabil  del  mondo  in  un  congiunta 
Con  Tarie  tempre  e con  tenaci  nodi , 
Catena  indissolubile,  c più  salda 
Che  duro  ferro,  o lucido  adamante. 

Per  magistero  del  superno  Fabbro! 


DEL  MONDO  CREATO.  Il» 

Oh  ! delle  cose  instabili  e caduche 
Ordln  fermo  e costante  e quasi  eterno  ! 
Che  nei  tuo  variar  perpetuo  osservi 
Leggi  incorrotte,  universali,  antique, 
Che  note  sono  ali’  Etiope  adusto ,’ 

Ed  al  gelido  Scita;  e parte  assembri 
Nelle  vicende,  e nel  tuo  moto  incerto 
Le  certe  leggi , c sovra  ’l  ciel  divine. 

Ma  poiché  far  nei  suo  profondo  sito 
Dell'  aeque  scorse  i gran  dlluvj  accolti , 
Vide  Dio  ch’era  bello  ’l  novo  Mare, 

Con  gli  occhi  no,  ma  colla  mente  eterna. 
Onde  ’1  fatto  da  Ini  nobil  lavoro , 

E l’ opre  sue  medesme  egli  contempla. 

Lieta  vista  e gioconda  e vago  aspetto 
Quello  è del  Mar  quando  tranquillo  e piano 
Rianeheggia  mormorando  appresso  ’l  libo. 
È bella  vista  ancor,  se  ’l  dorso  inaspra 
Lieta  e piacevol  aura,  e l' onda  increspa. 
Qtiand’  el  ceruleo,  ovver  purpureo  appare 
A’  riguardanti , e non  percuote  irato 
Con  violenza  la  vicina  terra  ; 

Ma  dolcemente  le  distende  intorno 
I.’  amiche  braccia;  e la  si  accoglie  In  seno. 
Ma  non  in  questa  guisa  o bello , o caro 
Fu  ’l  sembiante  dei  mare  al  Re  celeste  : 
Nè  qui  della  beltà  giudice  è il  senso , 

Ma  la  ragion  della  mirabil  opra 
Nel  giudicio  divino  è bella , e piace. 

In  prima  ’l  Marc  all'  ampia  terra  intomo 
È d’ognl  umor  di  lei  perpetuo  fonte; 

E per  oscure  e tenebrose  strade 
Sotto  la  cavernosa  e rara  terra 
Se  medesmo  egli  pur  divide  e parte , 
Quasi  per  mine  occulte  assai  profonde. 

E poiché  da  sé  stesso  in  lor  s*  è chiuso , 
Con  gli  obliqui  suo’  corsi  ascende  in  aito. 
Dallo  spirto,  che  *1  move,  alfin  sospinto. 
Rotto  dell’  aspra  terra  ’1  duro  grembo , 
Fuori  se  n’  esce  : c de’  purgati  umori 
li  terrestre  amaror  cangiai'  ha  ’n  dolce. 

E trapassando  da’  metalli  ei  prende 
Qualità  vieppiù  calda , onde  sovente 
Con  fervid’ acque  egli  s’accende,  e bolle 
Nell'  isole , che  ’l  mar  circonda  e bagna , 
E ne'  lochi  vicini  al  salso  Udo , 

Talvolta  in  quel,  che  son  fra  terra,  e lunge. 
Bello  il  Mar  dunque  è nel  giudizio  eter- 
no. 

Perchè  sotterra  ha  ’l  suo  profondo  corso. 
BeUo,  perchè  nel  salso  ed  ampio  grembo 
Tutti  raccogUe  d’ognl  parte  I (lumi; 

E ne’  termini  suoi  sè  stesso  affretta. 


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ISO  POEMI 

Bello,  perchè  ’l  principio  e quasi  il  fonte 
È delle  pioggie  e il’ ogni  umor  che  tersi 
L’ aria  ristretta  in  brina,  In  neve  o ’n  gelo  ; 
F.  riscaldato  dagli  ardenti  raggi , 

Le  sue  partì  più  lieti  esala  in  aito, 

Le  quali  arriran  poi  nel  loco  algente, 

Ore  di  raggi  ripiegati  e torti 
Non  giunge  'I  caldo.  Iti  ristrette  insieme 
Sono  dal  freddo,  che  circonda  intorno, 
E caggionoin  gravoso  e denso  untore, 
Talché  l’arido  seno  indi  s'impingua 
Della  tetra,  clic  poi  conccpe,  e figlia 
Tante,  si  varie  c si  leggiadre  forme 
Di  piante,  d' animai,  di  fiori  e d’erbe. 

E chi  negar,  può  fede  al  ver  ch'io  parlo, 
Veggendo  come  ferve  al  foco  ardente 
E fuma  ’1  vaso , clic  d’ umore  è colmo  ; 
Sicché  le  parti  sue  sottili  c levi 
Spirando  in  aria,  egli  sì  vota  c scema  ? 

Ma  dell'lstesso  mar  l'onda  sovente 
Nelle  spugne  raccolta,  e cotta  al  foco, 
Degli  assetali  naviganti  e lassi 
Ferve  al  bisogno,  e gli  consola  in  parte. 

Ma  bellissimo  èil  Mare  innanzi  agli  occhi 
Della  divina  ed  immutabil  mente , 

Perchè  colle  spumose  e torte  braccia 
Tante  Isole  nel  sen  raccoglie  c stringe  : 

E perchè  le  remote  e varie  parli 
Della  terra  ei  congiungo , c i lidi  opposti 
Dalla  natura  : c largo  e piano  ’l  varco 
Porge  al  nocchier  che  lui  trapassa,  e corre, 
Care  portando  e preziose  merci 
Equinci  equindi  ; onde  ’l  difetto  adempie 
Dell' una  gente  e l'altra,  c ’l  peso  alleggia, 
Scemando  quel  che  di  soverchio  abbonda, 
E porta  insieme  ancor  di  cose  occulte, 
Anzi  d'ignote  meraviglie  c strane. 
Moderna  istoria  e peregrina  fama,  [gllo, 

Ma  da  qual  alto,  c ’n  Mar  pendente  sco- 
E da  qual  più  sublime  eccelsa  rupe  ; 

Da  qual  sommo  di  monti  alpestre  giogo, 
Che  signoreggi  d'ambe  parti  il  mare, 
Vedrò  la  sua  beltà  si  chiaro,  c tanto, 
Quant’  ella  innanzi  al  suo  Fattor  s’ offerse  ì 

Ma  se  pure  è si  bello,  c si  lodato 
Anzi  ’l  divin  cospetto , il  Mar  ondoso , 

Più  bella  assai , festante  e folta  turba 
È de’  fedeli  suoi  raccolta  e mista,  [già, 
Ch’  anzi  le  porte,  e dctitr’  al  tempio  ondeg- 
Ed  offre  I voli  ; e le  preghiere  al  Cielo 
Devota  porge,  onde  s'ascolta  un  suono, 
Pur  come  d’onda,  clic  si  rompe  al  lito. 

Cosi  quel  suo  pietoso  e lieto  aspetto 


SACRI. 

Nelle  marat igliose  c sacre  pompe, 

E la  serena  sua  tranquilla  pace 
Conserv  i'I  gran  Clemente  e’I  culto  accresca 
Nelle  quattro  del  mondo  avverse  parti, 
Mentr’aprc  ’l  Ciclo,  e i suo’  tesori  eterni, 
E le  sue  grazie  altrui  comparte  e dona  ; 
Nè  faccia  me  di  rimirarlo  Indegno. 

Poi  disse  Dio  : La  Terra  ancor  germogli 
L’ erba  sua  verde,  c ’l  suo  fecondo  legno. 
Che  produca  i suo’  frutti  ; e questo,  e quella 
Conforme  al  seme  che  nel  seno  asconde. 
Cosi  diss’  egli . E la  gran  Madre  antica , 
Clic  scosso  avea  dell' acque  II  grave  peso, 
Già  respirava,  ed  alleggiata  in  parte 
Parea , quando  fuor  diede  i nuovi  parti. 
Perchè  la  voce  del  sovrano  impero 
Costante , certa  ed  Immutabil  legge 
Fu  quasi  di  natura  ; e ’n  parte  alcuna 
Ella  non  varia  al  variar  de’  lustri , 

Ma  si  conserva  ancor  di  tempo  in  tempo. 
Però  della  pregnante  e grave  Terra 
Quasi  la  prima  prole  è il  verde  germe; 

E poiché  da)  suo  freddo  umido  seno 
Egli  s’innalza  alquanto,  erba  diviene. 

E vigore  e fermezza  alfine  acquista, 
Talché  fleti  si  dimostra , o ’n  altra  forma 
Perfetta  appare,  e ’n  sua  cresciuta  etade 
Ha  ciascuna  di  lor  l' erboso  e ’l  verde , 
Per  cui  quasi  sorelle,  e nate  insieme, 
Non  ci  paion  ristesse,  e non  diverse 
Molto,  ma  l' una  assai  simiglia  l' altra  : 

E senz'aiuto  altrui  la  vecchia  Madre 
Queste  produsse,  c non  fu  d’ uopo  altronde 
Strana  virtute,  oltra  ’1  divino  impero. 

Fu  chi  pensò  ch’aita  cagione  il  Sole 
Fosse  di  ciò  che  ’n  lei  s’appiglia,  o nasce, 
Lo  qual  la  scalda  con  gli  ardenti  raggi , 

E ’l  suo  natio  vigor  dal  suo  profondo 
Con  quel  vilal  calor  attragge  In  alto; 

Ma  dietro  sua  ragion  s’inganna  e falle, 
Perchè  la  Madre  Terra  è più  vetusta, 

E nata  pria  che  ’n  del  nascesse  ’l  Sole. 
Non  gli  perturbi  dunque  un  vano  errore; 
E lascin  d’adorar  del  Sole  il  lume, 

Come  di  vita  sia  cagione  eterna. 

Cessin  le  meraviglie  antiche  e nuove; 
Cessino  i preghi,  I sacrificj  e i voti; 
Cessin  non  pur  marmorei  alti  colossi , 

Ma  con  gli  altari  1 sìmolacri  e 1 tempj  ; 

E cessi  ogni  fallace  ed  empio  culto, 

Ond’  ancor  quella  sciocca  e rozza  gente , 
Ch' oltra  le  Mete,  c le  Colonne  alberga 
Sotto  l’ignoto  del  la  terra  ignota, 


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LE  SETTE  GIORNATE 
Che  l'Oeean  da  noi  scompagna  e parte , 
Adora  ’l  Soie;  e,  come  a Dio  supremo, 
Gl’Idoli  suoi  bugiardi  a lui  consacra. 

E sappia , scorta  ornai  da  santa  voce , 

Per  cui  del  nato  mondo  in  lei  rimbombi 
La  maraviglia,  e del  celeste  Fabbro 
L’ opra  e T lavoro  e ’l  magistero  adorno  ; 
Sappia  ella,  dico,  ornai  (s' inganno,  o dub- 
In  quc'  semplici  petti  ancor  rimane)  [bio 
Sappia  che  quel  lucente  ardente  Sole, 
Che  lutto  del  suo  lume  ’l  mondo  illustra, 
E tutto  ’l  corre  e lui  circonda  intorno; 
Quell’aureo  fonte  di  serena  luce,  [dre 
Quel  grand' occhio  del  elei,  quell' alto  pa- 
Dclla  vita  mortai,  quel  duce  eccelso. 

Lo  qual  co'  raggi  suoi  ne  guida  e scorge. 
Nuovo  e giovane  più  di  fieno  e d'erba, 
Lor  cede  di  vecchiezza  ’l  primo  onore  : 
Ma  che  fu  prima  alle  lanute  gregge , 

Ed  a’  cornuti  armenti  il  verde  pasto 
Preparato  dell’  erbe;  e ’l  cibo  untano 
Fu  d'ogni  provvidenza  allora  indegno. 

E quel  Signor,  eh’ a'  tardi  c pigri  buoi 
Ed  a’  cavalli  rapidi  c correnti, 

Il  faci!  nutrimento  anco  dispose; 

Dolci  apparecchia  a te  care  vivande, 
Onde  tu  goda,  e ricca  mensa  ingombri. 
Quel , che  le  mandre  tue  tl  nutre  e pasce, 
0 pur  le  torme  in  prato  erboso  Impingua  ; 
In  gran  vasi  d'argento,  odi  fin  oro 
Condisce  il  cibo,  e ti  nutrisce  e giova, 
E co’  sapori  ti  lusinga  ’l  gusto. 

Ma  ’I  germogliare  ancor  di  seme  sparso 
Altro  non  è eh’ un  prepararti  arante 
Quel  che  la  vita  tl  mantenga  e servi 
E l’ erbe  ancor  son  nutrimenti  umani  ; 

E P altre  che  produce  ’I  suol  fecondo , 
Quasi  fra  l’ erbe  e le  frondose  piante 
In  mezzo  poste,  e di  natura  incerta. 
Benché  non  tutti  dell’  erbosa  terra 
Nascanda  semi  sparsi  i germi  c i parti  ; 
Né  la  gramigna,  onde  corona  illustre 
Ebbe  ne’  tempi  antichi  il  buon  Romano, 
Nè  la  canna  che  tempra  in  dolce  suono 
Spesso  al  pigro  pastore  I rozzi  amori  ; 
Nè  la  menta,  nè  ’l  croco,  e mille  e mille 
Senz’altro  seme  ancor  produce  e cria 
La  Terra,  umida ’1  volto  e pingue  ’l  seno. 
Perchè  nella  radice , o pur  nel  fondo 
Quasi  è virtù  di  seme  : e'n  questa  guisa 
La  vota  canna,  poich’  un  anno  intero 
Cresce  vestita  di  sue  verdi  spoglie, 

Da  sua  radice  manda , e sparge  In  fuori 


DEL  MONDO  CREATO.  12 1 

Un  non  soche,  lo  qual  di  seme  ha  forza 
0 pur  ragione,  e l’è  di  seme  in  vece. 

Nè  della  canna  giù  l’oliva  è nata. 

Ma  dalla  canna  pur  nasce  la  canna, 

L' oliva  dall'  oliva  ; onde  s’ adempie 
Quel  che  da  prima  Dio  di  lor  dispose. 

E quel  che  fu  nel  primo  antico  parto 
Generato  di  terra , c fuor  prodotto 
Dalle  tenebre  oscure  in  chiara  luce. 

Di  stagion  in  stagion,  di  tempo  in  tempo, 
Nel  similsuo  rinasce  e si  rinnova, 

E nella  sua  progenie  è quasi  eterno. 

Deh  ! pensa  come  al  suon  di  pochidetti, 
E di  romandar  breve,  allor  repente 
La  raffreddata  e secca  e sterll  Terra 
Senti  del  partorir  la  pena  e T duolo. 

Ei  cari  frutti  a generar  commossa. 

Apri  ilei  chiuso  ventre  I verdi  chiostri. 
Come  donna  pur  dianzi  egra  e dolente , 
Deposto  ’l  negro  manto  c ’l  vcl  lugubre, 
Veste  di  ricche  spoglie  e d’aurei  fregj. 
Con  arte  vaga , olirà  l’ usato  adorna  ; 

Cosi  la  Terra,  chc'n  dogliosa  vista 
Mesta  appariva  e’n  squallido  sembiante, 
D' erbe  e di  fiori  e di  frondose  c liete 
Piante  novelle  all'  abbellite  membra 
Fece  la  verdeggiante  e ricca  veste , 
Tessendo  al  lungo  crin  varie  ghirlande. 

Deh  ! pensa  teco  ancor  di  parte  in  parte 
Quante  fe’  meraviglie  Iddio , creando  ; 

E perchè  resti  al  cor  profondo  affisso 
L’ allo  miraeoi  suo , dovunque  girl 
Gli  occhi  e ’l  pensier  nell’  opere  create. 
Ti  sovvenga  di  lui  che  fece  ’l  tutto. 
Perchè  non  è sì  vile  e rozza  plaota , 

0 si  minuta  in  terra  erba  negletta , 

Che  rinnovar  non  possa  al  cor  l' immago, 
E la  memoria  del  Fattore  eterno , 

E richiamarne  I miseri  mortali. 

Prima  del  flen  l eggendo  i fiori  e l’ erba, 
Pensa  fra  te  che  pur  di  fieno  in  guisa 
L’ umana  carne  si  disfiora , e perde 
Il  suo  natio  colore  : arida  in  vista 
È la  gloria  mortai  ; troncata  in  erba , 
Cade  repente.  Oggi  leggiadro  amante, 

É nel  più  verde  e più  sereno  aprile 
Della  felice  sua  gioiosa  vita  ; 

Nodrito  di  pensier  dolci  e soavi , 

E dì  speranze  giovanili  altero , 

E di  purpurei  adorno  e d’aurei  fregj. 
Sparso  d’ arabo  odor  la  chioma  e ’l  volto. 
Robusto  per  l’eti,  raggira  Intorno 
Un  gran  destriero  e lo  sospinge  al  corso  t 
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122  POEMI 

0 con  estranea  pompa  in  finto  aspetto 
Appare  altrui  sott'a  mentite  larve. 

Gravi  lance  rompendo  in  chiuso  arringo; 
Domani  è tìnto  di  pallor  dì  morte , 

Con  occhi  nella  fronte  oscuri  e cavi  : 

0 colle  membra  debili  e tremanti 
Preme  odiose  piume;  c ferve  c laugue 
Con  interrotte  voci  appena  intese. 

Qurgli  di  sue  ricchezze  antiche, o nove. 
Da  se  raccolte,  o pur  dagli  avi  illustri. 
Della  sua  fama,  e del  su’onor  superbo , 

E da  folta  seguilo  ed  umil turba, 

Anr.i  da  numerosa  c lunga  greggia 
Di  propri  servi , e di  ministri  eletti , 

0 pur  di  lusinghieri  e fiuti  andei; 

Esce  dell' alto  suo  dorato  albergo, 

E torna  poi  con  orgoglioso  fasto. 

Ed  uscendo  c tornando , Invidia  e sdegno 
Move  nel  primo  e nell’estremo  occorso. 

E d’ogn’  intorno  vede  all' alle  porle 
Accorrer  gente,  di’ ivi  adduce  c tragge 
Grazia,  prezzo,  favor,  mercede  e cibo. 
Alle  ricchezze  alta  possanza  arrogo 
Di  libera  città  governo,  impero 
D’armate  squadre,  e dagl' invitti  regi 
Onor  concesso  e potestà  sublime, 

E peregrina  guardia,  in  lucid'armc 
Temuta  c fiera,  e’u  disusata  foggia  : 
Quinci  ’l  timore , o di  gravoso  esilio  ; 

0 della  povertà  spogliata  c nuda , 

0 di  tenebre  oscure  In  correr  tetro. 

Di  grav  i ceppi , o pur  d'  orrida  morte , 
l,a  plebe  e i cavalicr  perturba  ed  auge. 
Ma  clic  ? lo  spazio  di  una  breve  notte , 
Fianchi , stomaco,  febbre  ardente  e grave 
L’ assale  e doma , e da  si  lieto  stato , 

Da  si  sublime  altezza , anzi  dal  mondo 
L’ infelice  signor  rapisce  a forza  ; 
Dispogliando  repente  a lui  dintorno 
Di  questa  vita  la  dipinta  scena  : 

E tanta  maestà  sparir  confusa 
Ratto  si  vede,  e quasi  in  sogno, o'nombra. 
Cosi  rassembra  un  fior  languente  c vile 
La  gloria  de'  mortali , alta  e superba  [no 
Pur  dianzi  : orili  Fortuna  è gioco  e sclicr- 
Ma  colle  cose,  onde  la  vita  e’i  pasto. 
Aver  poscia  dovean  gli  egri  mortali , 
Prodotto  fu  micidiale  il  tosco. 

Nacque  coi  grano  la  cicuta  insieme  ; 

Con  gli  altri  cibi  immantinente  apparve 
L’elleboro,  e'I  color  fu  bianco  c uegro. 
Apparve  nolo  alla  matrigna  ingiusta 
Poi  l’ aconito  : e non  rimase  occulta 


SACRI. 

La  mandragora  in  lerra  : e non  s’ ascose 
li  papaver,  clic  sparge  ’l  grave  succo. 
Dobbiam  dunque  accusar  la  mano  eterna. 
Che  fece  ’l  mondo , e vi  produsse  in  lerra 
Quel  che  la  vita  poi  guasti  e corrompa  7 
Ma  pensar  non  dobbiam  ch'ai  ventre  in- 
gordo 

Tutto  debba  servire,  empiendo  ’l  sacco, 

0 lusingar  con  sua  dolcezza  il  gusto. 
Perdi’ ogni  cibo  preparalo,  od  esca 
Nota  s’olTcrse,  ed  opportuna  e pronta  : 
Ed  ha  ciascuna  e la  ragione  c ’l  modo, 
Ond’ella  giovi.  E se  del  lauro  il  sangue 
Fu  già  veleno  a le,  famoso  duce. 

Che  pria  vinto  fugasti  ’l  re  def  Persi, 

Poi  le  Btcdcsmo  al  suo  poter  soggetto 
Far  non  sdegnasti,  c la  tua  patria  antica; 
Dolca  però  queir  animai  robusto , 

Cile  si  destina  ai  giogo  ed  all' aratro, 

E'n  molti  usi  ci  giova  e'n  molti  modi , 

Non  esser  nato?  od  esser  nato  esangue? 
Non  bai  ragione , ondo  tu  selliv  i , o fugga 
Quel  die  ti  nuoce,  e'I  tuo  migliore  elegga? 
Le  mansuete  e semplicette  agnclle , 

()  pur  le  capre,  abitatrici  alpestri 
Degli  alti  inoliti  e deli'  incolte  rupi , 

Sanno  schivar  quel  clic  le  affligge  e nuoce 
Disccrncndo  col  senso.  A te  s' aggiunge 
Gol  senso  la  ragion , celeste  dono  : 

E lunga  insieme  esperienza  ed  arte. 

Ma  da  quel  elle  ci  nuoce,  anco  sovente 
EHI  si  traggo  ; c ’n  prò  si  volge  ’l  danno  : 
K giovevole  altrui  sovente  appare  [guisa 
Quei  eli’ è dannoso  agli  altri.  E’u  questa 
Il  mal  col  bene  si  conlemprn  c mesce; 
Talché  nulla  è da  Dio  creato  indarno. 

La  cicuta  agli  storni  é caro  cibo; 

Né  (benché  freddo}  noce  al  caldo  corpo 
Del  picciolo  animai.  Ricerca  ancora 
La  pernice  ’i  veratro , indi  si  |>ascc  : 

Taì  soli  le  tempre,  ondo  si  schiva  T danno. 
La  mandragora  e l’oppio  il  souno  allicc. 
Ma  giova  ancora  alla  virtù  languente 
Delle  faiuusc  donne  e degli  eroi 
Vinti  dal  mal,  benché  dall'arme  invitti. 
Del  buon  veratro  il  buon  rimedio  antico 
È nella  filosofica  famiglia 
Inpregioancor;perch’egli  punge  e desta 
L’ingegno  usato  alle  quistìon  profonde; 
Come  di  Prcto  già  sepper  le  figlie , 

E T forsennato  Alcide,  c quel  famoso, 
di'  al  buon  Pericle  fu  maestro  c duce. 

E la  cicuta  ancor  rabbiosa  fame 


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LE  SETTE  GIORNATE 
Rintuzzando  reprime.  Or  volgi  adunque 
L’ accuse  in  grazie  : e Dio  ringrazia  e loda, 
Che  deriva  dal  mal  sì  pronto  ’l  bene , 

E dalla  morte  ancor  la  vita  ei  trasse. 

E non  pensar  ch’oltra  all*  impero  e ’l  suono 
Della  sua  voce , generare  ardisca 
Disdegnosa  la  Terra  audace  parto  ; 
Benché  la  folle  antichità  la  fìnga 
Madre  di  fieri  mostri  e dì  giganti. 

Ma  l’Infelice  e sventurata  felce. 

Che  non  produce  mai  frutto , nè  fiore , 

E l’infecondo  loglio  uscir  prodotte 
Dal  suo  proprio  principio  ; c non  altronde 
Corrotti , e trasmutati  in  altra  forma  : 

E di  coloro  ebber  sembiante  immago, 

Di  cui  dovean  poi  le  parole  e i sensi 
Germogliar  nelle  sacre  antiche  Carte 
Inutilmente,  e mescolati  al  vero 
Farlo  men  puro,  e men  sincero  in  parte  : 
Siccome  avvicn,  quando  a progenie  illu- 
L’ illegittima  prole  insieme  è mista,  [stre 
Anzi  ’l  Signore  istesso  i suoi  perfetti , 
Ch’ebbero  in  luì  costante  e salda  fede, 
Poi  rassomiglia  a quel  cresciuto  seme, 
Ch'abbia  prodotto  alfin  maturo  il  frutto. 

E già  per  adempir  l’ eterna  legge 
Della  sua  voce , e ’l  suo  sovrano  impero , 
In  un  momento  avea  la  Madre  antica 
Maturati  nel  grembo  i cari  germi. 

Eran  fecondi  già  gli  erbosi  prati 
E *n  guisa  ornai  di  tempestoso  mare 
Ondeggiavan  di  spiche  1 verdi  campi. 
Ogni  erba,  ogni  virgulto,  ogni  arboscello, 
Ogni  umil  pianta,  c colle  foglie  eccelse 
Ogni  alber  più  frondoso  c più  sublime, 

E ciò  che  per  nodrirne , o per  al  ir’  uso 
Della  vita  mortai  germoglia  e cresce , 

Era  già  sorto  ; e verdeggiando  In  alto 
Con  larga  copia  empieva  ’l  fertil  grembo 
Dell’  ampia  Terra  ; e d*  importuna  pioggia 
Non  si  temea,  nè  d’improvviso  turbo, 

0 di  sonora  c torbida  tempesta  : 

Chè  non  polea  dell’  inesperto  c pigro 
Neghittoso  cultor  1*  indugio  e l’ ozio , 

0 la  sua  tracotanza,  od  aria  Impura 
E stemperata,  o fulmine,  o procella, 

Od  altro  sdegno  pur  del  ciclo  irato, 
Nuocer  al  già  maturo  e dolce  frutto, 

0 danno  fare  all’ ondeggianti  spiche. 

Nè  dell’  aspra  sentenza  il  gran  divieto 
Della  terra  impedia  la  copia  ancora  : 

Ch’ erano  allor  più  antichi  i vari  frutti 
Del  peccar  nostro , e di  vetusta  colpa , 


DEL  MONDO  CREATO.  123 

Ond’  a si  duro  e faticoso  culto 
Siam  condennati , ed  a ri  trarne  *1  cibo 
Collo  sparso  sudor  del  proprio  volto. 

E tutti  ancora  al  suon  dell’ alta  voce 
I boschi  verdeggiar  con  denso  orrore 
Di  folte  piante  e d’intricati  rami  : 

E quelli , che  drizzar  le  verdi  cime 
Sogliono  al  ciel  con  più  sublime  altezza , 
Cedri  odorati,  abeti,  pini  e palme, 
Premio  de’  vincitori  ; o pur  cipressi 
Imitatori  dell*  antiche  mete. 

Gli  umili  ancor,  come  i ginepri  e i salci 
Dispiegavano  ornai  la  verde  chioma. 

E quelle  piante  ancor,  di  cui  s’ordiva 
NobiI  corona  all’ onorate  fronti , 

Dico  le  rose  e i sacri  allori  e 1 mirti , 
Sorgendo  insieme  frondeggiar  repente, 
(x>n  sue  proprie  virtù  distinte  e scevre , 
Quasi  di  varie  note  in  vari  modi 
Da  mano  eterna  a lor  notizia  iscritte. 

Ma  solamente  allor  ne’  primi  tempi 
Senza  que’  suo’  pungenti , ispidi  dumi 
Spiegò  le  foglie  la  purpurea  rosa. 

Alla  bellezza  poi  del  vago  fiore 
Aggiunta  fu  la  dura  acuta  spina  ; 

Perdi*  al  nostro  piacer  sia  presso  ’l  duolo, 
E ci  rammenti  ’l  peccar  nostro  antico. 
Per  cui  fu  condcnnata  (c  ben  convenne) 
A partorir  la  Terra  ortiche  e spine. 

Ma  come  avvien  eh’  a quel  divino  impero 
Molte , quasi  ritrose  e ribellanti , 

Neghino  ubbidienza  In  fare  ’l  frutto? 

E non  sien  nate  ancor  del  proprio  seme? 
L’arbore,  onde  già  cinse  ’l  crine  incolto 
( Simun’  è vecchia  fama)  il  forte  Alcide , 
Or  biancheggiarsi  vede,  or  negra  appare: 
Ma  pur  frutti  non  fanno  o queste,  o quelle. 
Sono  infecondi  ancora  il  salce  e l’ olmo  ; 
Ma  ciascuna  ha  di  lor  suo  proprio  seme. 
Come  vedrai , se  ben  riguardi  e pensi , 
Glie  soggetto  alle  foglie  è un  picelo!  grano, 
Misco  nomato  già  dal  Greco  industre, 
Clic  pose  molto  studio  e molta  cura 
In  fare  i nomi , e fabbriconi  e finse. 

E questa  ha  forza  pur  di  seme  occulto, 
Come  hanno  l’ altre  ancor,  che  da  radice 
Sogliono  germogliar;  ma  legge  impose 
L’eterna  voce  alle  più  degne  e conte. 

Di  cui  far  volle  Iddio  memoria  illustre  : 
Come  la  vite  e la  tranquilla  oliva, 

DI  cui  l’ una  produce  ’l  dolce  vino , 

E l’ altra  l’ olio  : e ’l  vln  conforto  e gioia 
È de*  più  dolorosi  afflitti  cori  : 


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124  POEMI 

L’olio  ci  fa  lucente  e lieto  ’l  volto. 

Ma  chi  potrebbe  annoverar,  parlando,  j 
Tante  e si  varie  di  virtù  segreta , 

E di  sembianza , e da  sì  varie  parti 
Traslatc  piante , c peregrine  illustri , 

0 nostre  pure , c soli’  al  nostro  ciclo 
Cresciute,  od  in  selvaggia  orrida  parte, 

0 tra  le  mura  pur  del  proprio  albergo, 

Che  fanno  istoria  si  famosa  c lunga? 

Basta  la  vite  sol , che  *n  allo  stende 
Le  torte  braccia,  e con  frondosi  girl 
All’olmo  amica  si  marita  e lega  ; 

Basta  la  vite  solo  a farci  accorti 
Di  nostra  vita  ; c di  natura  esempio 
A noi  si  mostra,  anzi  è più  degna  immago 
D’immagin  naturale,  o di  celeste. 

K rassomiglia  umilemente  altera 
Della  Madre  Natura  il  Padre  eterno. 

Padre  del  cielo,  o pur  l’ eterno  Figlio, 

Ch’ a sè  stesso  di  vile  ’1  nome  impose; 

E coltor  nominò,  parlando,  il  Padre  : 

E noi , per  fede  nella  Chiesa  inserti , 

Dì  chiamar  si  degnò  sarmenti  c tralci  ; 
Pcrocch’a  noi,  coni’ alla  fertil  vite, 
Conviensi,  o come  alla  feconda  olita, 
Producer  largamente  i dolci  frutti , 

Senza  spogliar  giammai  per  tempo,  o caso, 
Della  speranza  non  terrena  ’l  verde  ; 

Ma  con  sempre  borito  c lieto  aspetto 
Rassomigliarla,  c verdeggiar  nell’ opre  ; 

Ed  offerirne  a Dio  la  gloria  c ’l  inerto , 

Ch’ è divino  cultor  di  pura  mente. 

Ma  sono  in  dignità  vicine  a queste 
Quelle  felici  piante  avventurose. 

Che  della  madre  sua  son  quasi  immago  ; 

La  qual  è nel  cipresso  c nella  palma 
Rassomigliata  : e d’odorato  cedro, 

E di  platano  ancor  non  prende  a sdegno, 

0 pur  di  mirra  la  sembianza  e ’l  nome. 

Ma  pur  queste  medesme  ed  altre  ancora 
Utili  sono  a’  magisteri,  all’arte 
Di  nostra  vita  e quasi  a ciò  prodotte 
Dalla  natura , anzi  dal  Fabbro  eterno 
Colla  natura  insieme  allor  create. 

Altra  par  nata  agli  edifici  eccelsi  : 

Altra  a tesser  di  sè  le  navi  e i carri  : 

Altra  a far  lance , o pur  saette  ed  archi , 
Armi  temute  nell'orribil  guerra  : 

Altra  ci  nacque  destinata  al  foco  : 

Altra  a far  ombra  a’  peregrini  erranti 
Nel  mezzogiorno,  od  a coprir  d’intorno 
Colle  ramose  braccia  i dolci  fonti , 

0 pur  le  mense  fortunale  appieno  : 


SACRI. 

Ma  che  sia  proprio  di  ciascuna , o come 
L’uua  dall’altra  si  distingua  e parta; 

0 quai  denti-’  alla  rozza  orrida  scorza  # 
Sieno  amori  secreti  ed  odj  occulti  ; 

È studio  forse  d'ozioso  ingegno, 

E ’l  ricercar  qual  nel  profondo  grembo 
Dell' ampia  terra  le  radici  estenda  : 

Qual  nel  sommo  di  lei  s’ appigli  appieno: 
Qual  dritta  nasca  e sovra  un  saldo  tronco 
Lieta  s'avanzi,  c s'avvicini  al  ciclo  : 

E qual  cresca,  le  braccia  e i piè  distorta, 
E ’n  molti  rami  si  divida  c parta  : 

E «piai  umil  serpendo,  a terra  incitine 
Le  verdi  fronde , o non  ardisca  alzarsi 
Senza  ’l  fido  sostegno,  a cui  s’apprenda. 
Cura  oziosa  è pur  di  vana  mente. 

Ma  quelle  che  diverse  e quasi  sparse 
Per  l’aria  son  con  molti  rami  intorno. 
Sogliono  aver  ancor  profonde  a dentro 
Le  sue  radici  assai  distese  in  giro  : 
Perchè  Natura  stabilisce  e fonda 
Delle  superne  parti  il  grave  peso 
Incontra  ’l  mormorar  di  Borea  c d’Austro. 
Nella  nativa  ancora  incolta  scorza 
È gran  divario.  Altra  l’ ha  rozza  ed  aspra  : 
Altra  mcn  dura  : altra  più  molle  e liscia; 
Altra  d’una  corteccia  appar  contenta: 
Altra  di  molte  si  ricopre  c veste. 

Ma  quel  che  meraviglia  in  vero  apporta , 

È che  ritrovi  in  lor  (se  ben  riguardi  ) 

1 diversi  accidenti  c i vari  esempi 

Di  gioventute  c di  vecchiezza  umana. 
Perchè  le  piante,  ancor  novelle  c verdi, 
Hat»  polita  la  scorza  e quasi  estesa. 

Ma  s’ addì vien  che  per  inoli*  anni  invecchi, 
S’ empie  di  rughe,  ed  increspata  inaspra. 
Ed  altre  germogliar  recise  e tronche 
Sogliono  : cd  altra , nel  troncare , il  ferro 
Apporta  quasi  inevitabil  morte. 

Altra  fu  già,  eh' impetuoso  turbo 
Dalle  radici  sue  dlvelse,  e poscia 
Ella  risorse,  e s'appigliò  di  nuovo 
Nel  duro  grembo  dell’antica  Madre; 
Siccome  ben  due  volte  almeno  avvenne 
Ne’  campi  dì  Farsaglia,  e ’n  altra  parte. 
Altra  non  pur,  come  si  scrive  c conta. 
Nella  medesma  terra  anco  s’apprese: 

Ma  fu  talvolta  clic  reciso  ed  arso. 

Il  pino  trapassò  di  selva  in  selva  : 

E verdeggiò  tra  le  robuste  querce  : 
Miracool  raro  di  Natura  e grande, 

Se  meraviglie  fa  1’  alma  Natura. 

Ma  chi  riguarda,  come  ’l  buon  cultore 


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LE  SETTE  GIORNATE 

I vili  curi  dell'  inferme  piante, 

E dell’egra  Natura  in  lor  corregga 
Vari  difetti,  e gli  trasmuti  in  meglio; 

Di  curar  sè  medesmo  apprenda  ’l  modo. 

II  bei  pomo  affrìcan,  clic  ’n  molle  scoria 
Mille  quasi  purpuree  e bianche  gemme 
Asconde  c copre,  e poi  le  sparge  aperte, 
Onde  l'arida  sete  estingua  In  parte; 

L’ acido  suo  sapore  in  dolce  succo 
Cangia  sovente.  E 1 mandorlo  d' amaro 
Dolce  diviene,  e l’amaror  maligno 
Affatto  lascia,  se  forato  è il  tronco 
Alle  radici,  e dentro  '!  foro  infitto 
Di  pece  un  cuneo  ei  ricevendo  accoglie 
Nella  pingue  midolla.  E l’orzo  ancora 
È medicina  alle  frondose  piante, 

E le  fa  belle  olirà  misura,  e liete  : 

Tanto  può  l’arte  del  cultore  industre! 

Ma  s’egli  è neghittoso  e pigro  all’ opre, 
Per  negligenza  di  coltura  e d’ arte , 

Gli  alberi  vanno  ognor  dì  male  in  peggio. 

Altri  mutano  ancor  colore  c forma 
Senza  l’aiuto  di  cultore  amico. 

E la  candida  pioppa  in  negro  tinge 
Le  bianche  foglie  ; e si  trasmuta  in  loglio 
Sovente  'I  lino  : ed  il  sisimbro  in  menta 
Per  soverchia  coltura  ancor  si  volge. 

Cosi  l’animo  ancor,  se  studio,  o cura 
Delle  sue  macchie  noi  polisce  c terge , 
Perde  ’l  natio  candore , e tutto  annera , 
Ovver  di  grande  egli  diviene  angusto , 

E d'alto,  basso,  c sè  medesmo  Inchina  : 
Ma  per  culto  s'innalza , e lieto  aspira 
Già  quasi  al  ciclo,  e sè  medesmo  avanza. 
Dunque  di  coltivar  l'umana  mente 
Apprendano  1 mortali , c 1 vari  morbi 
Sanar  dell'alma  in  sè  languente  ed  egra. 

Or  chi  potrebbe  annoverar  parlando 
1 vari  frutti , o dimostrar  distinti 
1 color) , 1 sapori , I propri  effetti , 

E la  propria  virtù  mal  nota  ai  gusto? 

Non  sol  mille  maniere  e mille  forme 
D’arbori  fanno  i frutti  in  mille  guise; 

Ma  in  una  sorte  istessa , e ’n  una  parte 
Molta  varietà  s'osserva  e mira 
Di  color,  di  figura,  o pur  di  sesso. 
Siccome  nella  palma  altri  ritrova 
Dalla  femmina  sua  distinto  ’l  maschio; 
Perchè  com'clla  sia  commossa,  c spinta 
D' interno  amor,  quasi  le  braccia  stende , 
E brama  al  suo  marito  esser  congiunta. 
Ed  il  medesmo  awìen  tra  fico  e fico  : [nasce 
Perché  ’l  selvaggio  a quel  eli'  alberga  c 


DEL  MONDO  CREATO.  12S 

Fra  le  rinchiuse  c ben  guardate  mura, 

Si  pianta  appresso  ; o pur  si  lega  e stringe 
L’ uno  coll’  altro  frutto  ; e ’n  questa  guisa 
L’infermità  si  cura;  e si  ritiene 
Ch’egli  non  cangia  alfin  disperso  e guasto. 
l)ual  di  Natura  è questo  oscuro  enigma? 
Forse  ’n  tal  modo  ella  c'  Insegna,  e mostra 
Che  dagli  strani,  ancora  a noi  congiunti. 
Virtù  s’acquista  alle  buon’ opre,  e ferma 
Costanza.  Adunque  Italia  ornai  rimiri, 
llalia ancor  languente,  ancora  inferma. 
Vieppiù  che  ’n  guerra,  in  neghittosa  pace, 
Che  l’ interno  suo  mal  non  vede , o sente  ; 
Miri  gli  orridi  monti , e ’n  loco  alpestro 
Cerchi  la  gente  orribile  c selvaggia  : 
Quinci  ’l  tenero  suo , che  languc  e cade , 
Anzi  ’l  morbido  suo  confermi , e ’nduri 
Per  unione , o per  esempio  almeno. 

Ma  in  nlun  peggior  modoe  più  spiacente 
Traligna,  e perde  la  robusta  pianta 
li  suo  vigore  e la  sua  prima  forza, 

S'egli  addivlen  (come  sovente  incontra) 
Che’n  femmina  di  maschio  egli  si  cangi. 
E quinci  l' uomo  ancor  si  guardi  e schivi 
D’ammollir,  quasi  donna,  il  cor  robusto, 
Che  Natura  gli  diè , tra  I vezzi  e gli  agi, 
Per  ozio,  per  diletto,  o per  lusinga. 

Ma  fra  le  piante  ancor  distinte  e scevro, 
Natura  amica  amor  vi  pose,  e pace  : 
Pose  fra  l'altro  inimicizia  ed  ira. 

Il  bel  pomo  gemmato  e ’l  verde  mirto, 

0 pur  il  mirto  c la  feconda  oliva, 

Sun  per  natura  amici , e ’n  breve  spazio 
Piantali  appresso  senza  oltraggioe  danno: 
Ma  pur  la  dolce  vite  e ’1  dolce  fico 
Avversi  sono  olirà  misura , c ’nfestJ. 

Chi  ’l  crederebbe?  c tu , Natura , insegni 
Che  tra’  buoni  talvolta  è sdegno  e guerra. 
Ma  si  marita  ancor  la  vite  e ’l  fico , 

Come  addivien,  quando  fra  regno  e regno 
Quclan  le  nozze  l’odiosa  guerra. 

E chi  ’1  marito  allor  disturba  e svelle, 
Langue  la  sua  consorte  In  breve,  c muore. 
Nobile  esemplo  dell’  amore  umano , 

E di  fè  maritai  costante  e salda. 

Ma  ’l  caolo  s’alia  vite  s’avvicina, 
Tempra  quel  generoso  e grande  spirto. 
Onde  poscia  ’l  suo  vino  avvampa  e ferve, 
E giova  agli  ebbri  : in  colai  guisa  ammorza 
L’ interna  fiamma  fervida  e fumante. 

Ma  d’ innocenza  han  sovra  gli  altri  il  vanto 
Il  bel  pomo  granato  e ’l  dolce  melo , 

Nè  fanno  ad  altra  pianta  oltraggio,  od  onte. 


126  POEMI 

Ed  innoccn  te  '1  pino  innalza  c spande  [ bra 
La  chioma  al  cielo,  cd  ampio  spazio  adom- 
Con  larghi  crini  e colle  braccia  estese  : 
Picciol  loco  sotterra  ingombra  e prende 
Colle  radici,  e sott' all' ombra  amica 
Verdeggiano  sicuri  il  mirto  e ’l  lauro. 
Sott' all’ombra  cosi  di  re  possente. 

Che  di  tesoro  ingordo,  o di  terreno 
Non  si  dimostra , e non  s’  usurpa  a forza 
De’  suo'  vicini  l'occupata  parte, 

Crescon  molti  sovente  in  lieta  pace: 

E fiorisconvi  ancor  gli  studj  e Parti 
Dell'eloquenza,  e 1 meritati  onori. 

Vi  sono  piante  di  natura  incerta, 

E di  gemina  vita  in  acqua  e ’n  terra. 

La  mirica  è fra  queste , e spesso  abbonda 
Ne'  solitari  luoghi  e ne’  deserti; 

Ne’  laghi  c negli  stagni  ancor  ci  nasce. 
Sembiante  a quei  che  variar  sovente 
Soglion  le  parti,  ed’ un  in  altro  campo 
Seguir  fortuna,  c d’un  signore  all’altro 
Per  natura  maligni,  e per  costume. 

Ma  delle  piante  ancor  chi  tace  ’l  pianto? 
Chi  può  tacer  le  lagrime  stillanti 
Dalle  ruvide  scorze?  e i viri  umori 
Lucidi,  trasparenti,  insieme  accolti? 
Sparge  dal  legno  suo  tenace  e lento 
Sue  lagrime  ’l  lenlisco;  e ’l  dolce  succo 
Fuor  versa  ancor  di  lagrime  odorate 
li  balsamo  ; arboscel  pregialo  e caro 
Nel  regno  degli  Ebrei.  Ma  ’i  verde  Egitto, 

E l’ Affrica  arenosa  ancora  ’l  pianto 
Della  ferula  vide,  li  chiaro  elettro 
È lagrimoso  umor,  che  sparso  cade 
D’arbor  famoso,  eh’  un  bel  pianto  impetra. 

Ma  pur  troppo  ’l  parlar  s’avanza  e. 

E negli  aperti  e smisurati  campi  [cresce, 


SAcni. 

Della  terra  e del  mar  confine,  o freno 
Non  trova  al  corso,  ond'  ci  disperso  errante 
Per  le  cose  minute  andria  vagando; 
in  cui  sì  grande  appare , e si  possente 
Dio  Creator,  che  fece  ancor  l’ eccelse. 
Dunque  Ha  d’ uopo  di  fermarlo,  avvinto 
Dalla  necessitò, eh’ è dura  e salda. 

Prima  ch’alia  fatica  il  breve  giorno 
Manchi  di  questa  mia  vita  caduca. 

Voi , che  mirale  le  diverse  piante 
Negli  orti  e nelle  selve,  o pur  ne'  monti. 
Nelle  paludi  ancora,  e negli  stagni, 

0 pur  dell’Eritreo  nel  rosso  grembo; 

E vagheggiate  i verdi  tronchi  e i rami, 
E le  fiorite  lor  frondose  chiome; 

Nel  poco  ornai  riconoscete  ’l  mollo  : 

E col  pensiero  a brevi  c scarsi  detti 
Gran  meraviglie  ancor  giunger  potreste, 
Pensando  a quel  Signor  che  fece  ’l  mondo 
Meraviglioso  di  lavoro  e d’arte. 

Lo  qual  disse  : Germogli  ancor  la  terra 
Il  legno , clic  produca  ’l  dolce  frutto 
Sovra  la  terra.  Allor  all'alta  voce. 

Come  paleo,  clic  nel  suo  ferro  affisso, 
Alle  prime  percosse  ei  va  rotando , 

E con  molte  sue  rote  in  se  ritorna; 

Cosi  la  Terra  va  girando  a cerchio 
Le  sue  stagioni  ; onde  si  spoglia  e reste 
E i cari  frutti  suol  produce  c serba. 

Chò  pur  la  sferza  con  divina  voce 
Quel  che  comanda  alla  Natura,  al  Cielo  : 
Perch’  ella  d' anno  In  anno  i certi  giri  [pia, 
Volga  sembianti  al  primo.  Allin  gli  adem- 
Quand’avrà  finc’l  tempo,  c finc’l  mondo. 
Ned  ella  sola  avrà  qutete  e pace  : 

Ma  i Cieli  avranno  ancor  riposo  eterno. 


GIORNATA  QUARTA 

In  cui  furon  creati  il  Sole , la  Luna  e le  Stelle. 


Quel  che  rimira  le  contese  e I pregj 
Dei  lottatori , o di  chi  leve  al  corso 
Le  membra  ignude  in  di  solenne  affretti  ; 
Odiguerrierlpurrimpreseerarme,  [go, 
Diverse  in  largo  campo,  o ’n  chiuso  arrin- 
E i duri  i ncontri  in  tornearne  rito,  e ’n  gio- 
stra; 

Sente  in  si  stesso  un  movimento  interno, 
Ond*  è commosso  e concitato  insieme 


Con  qncl  che  fan  tra  lor  dubbio  contrasto  : 
E col  suo  proprio  affetto  inchina  c pende 
Più  sempre  ad  una  parte  ; e brama  e spera 
La  vittoria  da  quella  : e spesso  innalza. 
Per  rincorar  I suol , la  voce  e ’l  grido. 
Cosi  chi  di  celesti  obbietti  eterni , 

E delle  cose  smisurate  e grandi , 

Mira  le  meraviglie;  o pure  ascolta 
Quel  ch’ogni  stima,  ogni  giudirio  avanza 


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LE  SETTE  GIORNATE 
Deir  inerrabii  sapienza  ed  arte  ; 

Convlen  che  seco,  anzi  In  sé  stesso  apporti 
Gl' impeti  interni  e’1  rivo  ardore  c’I  zelo 
Fervido,  a contemplar  rivolto  e Uso 
Tai  cose  e tante,  in  pochi  giorni  ai  suono 
Fatte  della  divina  eterna  voce. 

E dee  con  ogni  forza  insieme  accolta, 
Tome  compagno  c come  fido  amico, 
Trovarsi  nel  contrasto,  e dar  aita. 
Perchè  non  si  nasconda  c non  s’adombri 
La  verità  : ma  senza  Inganni , o falli 
Risplenda,  e di  sua  luce  i cori  Illustri. 
Ma  che  dico!  ed  a chi  ragiono  e parlo? 
Mentre  In  si  faticosa  e giusta  impresa 
Quasi  ardisco  di  porre  i cieli  in  lance, 

E pesar  l'universo  appeso  in  libra. 

Le  primeoprc  narrando,  e i primi  giorni, 
K i natali  del  mondo  : e i primi,  c gli  alti 
Prtncipj  suoi  non  ricercando  a caso 
Fra  le  menzogne  della  Grecia  antica; 
Dove  per  suo  voler  s’ arclcca , e perde 
Altri,  filosofando,  it  dritto  lume  : 

0 pur  nell’ Accademia,  e nel  Liceo  : 

0 nell’ error  del  tenebroso  Egitto; 

Ma  da  colui , che  fuor  ne  trasse , e scorse 

1 fidi  suoi  per  mezzo  ’l  mar  sonante  ; 

Egli  mi  tragga  ancor  sicuro  a riva 
Da  questo  si  turbato  e sì  profondo 
Mar  d’ignoranza  e di  superbia  umana. 
Anzi  pur  tu,  che  lui  (assembri , o Padre 
Sommo,  e rinnovi  ’l  primo  e santo  esem- 
Tu,  die  somigli  lui,  somigli  ancora  [pio; 
Il  Re  del  cielo,  ond'ei  fu  quasi  inunago, 
Ma  pur  nascosa  fra  gii  orrori  e l’ombra 
Del  sccol  prisco  ; e tu  se’  I*  altra  or  vera 
Spirante  inunago,  e simolacro illustre 
Dell'alta  gloria  sua  che  nulla  adombra. 
Onde  co’  raggi  suoi  riluci  e splendi. 
Piacciati  tanto  al  mio  turbato  ingegno 

I Compartir  di  quel  santo  e puro  lume. 

Olle  trasfuso  da  te,  conduca  e scorga 
L’alme  gentili , e i pellegrini  spirti. 

E se  giammai  gli  occhi  levare  in  alto 
Ih  bel  sereno  lucido,  notturno 
All' immortal  beltà  dell’ auree  stelle. 
Pensando  all’ opre  del  Fattore  eterno; 

Chi  è colui  che  fece  ’l  ciclo  adorno , 

E tutto  ’1  variò , quasi  dipinto 
Con  sì  diversi  fior  di  luce  e d’ auro  : 

E come  nelle  cose  esposte  a’  sensi 
Necessità  tanto  ’l  piacere  eccede  : 

E se ’n  tal  guisa  fur  mirando  appreso 
Del  sommo  Dio  le  meraviglie  eccelse  : 


DEL  MONDO  CREATO.  157 

E da  quel  clic  si  vede,  e scopre  agli  ocdil 
Fur  note  poi  Paltrc  imbibii  forme; 
Posson  beu  questi  empier  le  sedi  intorno 
DI  questo  sacro  a Dio  teatro,  e i gradi , 
Ove  la  gloria  sua  si  narra  e canta. 

Oli  ! possa  io  pur,  siccome  guida  c scorta, 
Ch’ignoto  peregrin  conduce  intorno, 

E gli  edifici , e le  mirabili  opre 
Di  famosa  città  gli  addita  e mostra. 

Cosi  condur  le  peregrine  menti 
De’  mortali  quaggiù,  mai  sempre  erranti, 
Alle  sublimi  meraviglie  occulte 
Di  quest’ ampia  città  : di  questa,  lo  dico, 
Città  celeste,  ov’è  la  patria  antica 
Di  noi  figli  d’Adamo,  c l’alta  reggia, 

In  cui  gli  eterni  premj  11  Re  comparte. 
Ma  poi  scacciati  in  doloroso  esilio 
Fummo  dal  micidial  denion  superbo. 
Clic  pria  dolce  n’  adesca,  c poi  n’andde 
D’eterna  morte,  e’n  servitù  n’adduce 
A’  duri  lacci  del  peccato  avvinti 
Con  nodi  di  fortissimo  adamante. 

E qui  potran  veder  sicuri  e certi , 

Della  nostra  immortale  c nobil  alma 
L'alto  principio  e la  celeste  origo, 

E quella,  che  repente  indi  n’assalse. 
Orrida  spaventosa  c fera  Morte, 

Che  del  Peccato  è dolorosa  figlia  : 

Del  Peccato,  eli’ è prole  e primo  parto 
Del  superbo  Demonio,  a Dio  ribello. 
Principe  di  malizia , e quasi  fonte , 
Ond’ogni  mal  fra  noi  si  versa  e spande. 
Qui  conoscer  potran  sè  stessi  ancora ,. 
Che  per  natura  son  terreni  e frali  ; 

Ma  pur  della  divina  e santa  destra 
DeU'eterno  Signor  fattura  ed  opra  ; 

E conoscendo  le  medesme , alzane 
A conoscer  Iddio , che  fece  'I  tutto. 

Ed  adorare  ’l  Creator  del  mondo , 

E servire  ai  Signor,  dar  gloria  al  Padre: 
Amar  quel  che  ci  nutre  c ci  conserta, 

I .odar  quei  ch’i  suoi  beni  a noi  comparte, 
Principe  a noi  dell’  una  e l’altra  vita 
Caduca,  ed  immortale  in  terra  e’n  cielo. 
Apprender  qui  potranno.  E sazj  e stanchi 
Non  saran  mai  di  celebrarioa  prova  ; [stra. 
Perdi’  ei  co'  doni  ; onde  jrriechiseee  Ulu- 
li fa  lieti  quaggiù  gli  egri  mortali , 
Conferma  ancor  le  sue  promesse  antiche 
De’  tesori  celesti , e dell'  eterno 
Regno  divino , ove  ne  chiama  a parte; 

E l’ umana  speranza  innalza  e iblee  » 
Che  sempre  per  sè  stessa  a terra  serpe. 


Dii 


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128  POEMI 

Ma  se  le  cose , al  variar  de'  tempi 
Quaggiù  soggette , son  pur  tali  e tante , 
Quali  e quante  licn  poi  l' eterne  in  cielo? 
E se  quel  che  si  vede,  agli  occhi  nostri 
Piace  cotanto,  or  quai  saranno  alfine 
Gl’invisibili  oggetti  all'alta  mente? 

Se  del  Ciel  la  grandezza  in  guisa  avanza 
Ogni  misura  dell' umano  ingegno, 

Chi  la  Natura  senza  (ine  eterna 

Fia  che  comprenda  ? E s’egli  e pur  si  bello, 

0 pur  si  grande  e si  veloce ’l  Sole, 

E si  ordinato  ne'  suo’  obliqui  giri , 

Si  moderato  al  mondo,  e si  lucente, 

In  guisa  d'occhio,  che  l' adorni  c illustri  ; 
Se  mai  della  serena  e chiara  vista 
Notici  lascia,  partendo,  appien  contenti; 
Bench’egli  pur  soggiaccia  a tarda  morte, 
Quando  che  sia  : deli  ! qual  liellezzaeterna 
Nel  gran  Sol  di  giustizia  altri  contempla  ? 
Se  sol  non  veder  questo  al  cieco  è pena, 
Qual  sari  pena  al  peccatore  ingrato 
L’ esser  privo  d'eterna  e vera  luce? 

Era  gii  fatto  innanzi '1  primo  Cielo, 

E la  terra  e la  luce  ancor  creata; 

E gii  distinta  era  la  notte  e'1  giorno  : 
Ed  era  fatto  ancor  quel  Ciclo  appresso, 
Che  dalla  sua  fermezza ’l  nome  prende, 
Confine  estremo  del  sensibil  mondo  : 

£ l’ arida  pur  dianzi  occulta  e immersa 
Tutta  nell’  acqua,  era  scoperta  in  parte 
Dall’ondeggiante  umore  : e’nsieinc  accolte 
Eran  gli  l’ acque  nel  lor  proprio  loco. 
Pieno  la  terra  ornai  de'  propri  parti 
Aveva  ’l  grembo , e di  fecondi  germi , 
Tutto  d' erbe  e di  fior  dipinto  e sparso  : 
E frondeggiava  dell' ombrose  piante 
La  verde  chioma  ; e pur  ancor  non  era 
Il  Sole,  over  la  Luna  : e quel  nomato 
Non  era  della  luce  eterno  padre , 

E padre  delle  cose , e quasi  fabbro  ; 

Di  quelle,  dico , che  produce  e nutre 
La  madre  terra  ; e'I  vano  e falso  errore 
De'  mortali,  che'l  senso  inganna,  c guida, 
Quasi  fallace  e lusinghiera  scorta. 

Non  l'avea  fatto  Dio.  Ma  l’oprc  illustri 
Arca  fornito  Dio  del  terzo  giorno; 

E dava  ornai  lieto  principio  ai  quarto. 
E,  slen  fatti  (diss’egii)  1 duo  gran  lumi 
Del  fermo  cielo  : e questo  e quel  risplenda 
Sopra  la  terra  : e sia  diviso  e scevro 
In  disparte  del  giorno,  ed  In  disparte 
La  meli  della  fredda  oscura  notte. 

Cosi  dlss'egli;  e fece  I duo  gran  lumi. 


SACRI. 

Ma  chi  disse?  e chi  fece?  Or  non  Intendi 
Della  doppia  persona  il  grande,  occulto, 
Incflabll  mistero,  e’nfusa  e sparsa 
La  sacra  istoria  di  saper  profondo 
Rivelato  per  grazia  a’  vecchi  Padri, 

Che  nell’ antiche  carte  ancor  s'adombra, 
Quasi  per  nube , e ne  si  vela  in  parte  ? 

E non  conosci  ancor  dell'alta  voce 
Quanto  giovi  a'  mortali  11  santo  impero? 
Risplendan , disse  Iddio , sovra  la  terra , 
Per  illustrarla , e l' agghiacciate  membra 
Riscaldar  col  sitai  temprato  foco. 

Cosi  diss'  egli  ; ed  ab  eterno  impose 
Che’l  Sole  1 raggi  suoi  spargesse  al  giusto, 
Ed  all'ingiusto;  eh’ all' ingiusto  ancora 
Volle  giovar,  chi  di  giovar  c'insegna  : 

E negl'iniqui  ancora  ei  sparge  e versa 

I suo'  beni  e le  grazie  in  ciel  cosparte, 

E trasfuse  dal  Sole  e dalle  Stelle. 

Nè  fu  nelle  parole , o pur  nell'  opre 
Discorde  a sè  medesimi  ’l  Padre  eterno, 
Pcrch’  ei  primier  creò  la  bella  luce , 

E poscia 'I  Sol.  Fu  senza 'I  Sole  adunque 
La  chiara  luce?  e senza  Sole,  o Stelle? 
Fu  certo  prima.  E come’l  corpo  all'alma 
E come  serve  'I  carro  al  proprio  auriga  ; 
Cosi  alla  prima  luce  I duo  gran  lumi 
Fur  dati,  ond'clla  risplendendo  apparse, 
Perdi'  ella  da  sè  stessa  agli  altri  ingegni 
Prima  risplende,  ed  alle  pure  menti, 
Inlelllgibil  parto,  e quasi  eterno; 

Poi  sovra '1  doppio  carro  a'  vaghi  sensi 
Nel  di  riluce  c nell’  ombrosa  notte. 

Nè  mai  di  carreggiare  è stanca,  o tarda 
Per  le  strade  lassuso  oblique  e torte. 

Fu  dunque  pura  luce  innanzi  al  giorno. 
Che  poi  di  raggi  adorno  il  Sol  distinse  ; 
Anzi  Dio  stesso  separar  la  luce 
Dalle  tenebre  volle,  c dipartila: 

Ma  comandò  che  separasse  il  Sole 

II  chiaro  giorno  dalla  notte  oscura; 
Perch’alia  nobil  mente  egli  distingue 

I puri  oggetti , e poscia  al  Sol  comanda 
Che  gli  mostri  divisi  a’  sensi  erranti  ; 

Ed  alla  bianca  Luna  ancor  ministra  [la 
Del  suo  splendore,  e vuol  che  questo  c quel- 
li tempo  e l’ore  in  spazio  egual  comparta. 
Osiamo  adunque  senza  inganno  c tema, 
Almen  coll'animoso  alto  pensiero 
A separar  dalla  sua  luce  11  Sole, 

Come  nel.foco  si  divide  e parte  [stra. 
Quel  di  lui  che  n’infiamma,  eque]  eh'illu- 
E già'l  divise  con  mirabil  vista 


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m 


LE  SETTE  GIORNATE  DEL  MONDO  CREATO. 


Iddio , quand'  egli  al  rubo  il  foco  impose , 
Lucido  assai , dal  suo  splendor  disgiunta 
L'altra  propria  virtù,  quella  ch'incende. 
Clic  rimase  oziosa  , allora  occulta  : 

Tanto  è’I  poter  della  divina  voce 
Che  può  del  foco  risecar  la  damma! 

Anzi  quando  avverrà  eli’  i prenij  eterni , 

E le  pene  eomparta  ; allor  del  foco 
Eia  la  natura  alibi  divisa  e scevra , 

E Ila  la  luce  destinata  al  giusto. 

Perdi’  ci  ne  goda  ; e l' altra  ardente  forza 
A punir  l’ empio  giù  nei  cieco  inferno. 

E’I  variar  dell’ incostante  Luna 
II  medesimo  ancora  insegna  e mostra 
Colle  cangiate  sue  diverse  forme. 

Perche  mentr’ella  scema,  e’I  lume  perde, 
Tutto  già  non  consunta ’l  bianco  volto-. 

Ma  de'  suo’  rai  la  candida  corona 
Con  varia  immago  ora  ripiglia,  or  lascia  : 
t Inde  conoscer  puoi  eli’  assai  diverso 
li  suo  corpo  èdaquello,ond’ei  s’ illustra. 

Il  somigliante  ancor  nel  Sole  avviene; 

Ma’l  Sole  il  lume  suo, ch'èprcso altronde, 
Poich’una  volta  ei  se  n’ adorna  e veste, 
Mai  non  depone;  ella  del  lume  altrui 
S'ammanta  spesso,  c spesso  anco  si  spoglia 
Con  umil  vista,  c la  sua  vece  alterna. 

In  questa  guisa  a duo’  gran  lumi  impose 
Clic  da  lor  fosse  dipartito ’l  mezzo 
Del  chiaro  giorno , e della  nottc’l  mezzo 
Perchè  ’nsleme  non  sian  confusi  e misti, 
Nè  compagnia,  ned  amicizia  al  mondo 
Era  la  luce  e le  tenebre  rimanga. 

Ma  qual  nel  giorno  luminoso  è l'ombra, 
Tal  nello  spazio  dell’oscura  notte 
La  tenebrosa  ed  orrida  natura 
L’ombra  de’  corpi  cede , opachi  e densi , 
Allo  splendor  de’  più  lucenti  opposti. 

E ’n  sul  mattino  all’ Occidente  è stesa, 

E verso  l’Oriente  a sera  inchina  : 

E ’1  Mezzogiorno  si  raccorcia  e stringe , 

E contra  l’Orse  si  dispiega  appena. 

La  Notte,  volta  dal  contrario  lato, 

Ode  a’  lucidi  raggi , e ’n  sua  natura 
Altro  non  è che  l’ ombra  oscura , algente 
Ch'esce  dal  grembo  della  terra  opaca  : 
E sempre  avanti  allo  splendor  diurno 
Fuggc  alla  parte  opposta,  e si  dilegua. 
In  questa  guisa  impose ’l  Padre  eterno 
Le  misure  del  giorno  al  chiaro  Sole  : 

E fe’  la  bianca  Luna , allorché  tutto  [pie, 
D' argento ’l  cerchio, e di  splendor  riem- 
Prlnclpe  della  fredda  oscura  notte. 


Eran  quasi  per  dritto  allor  conversi 
L’un  con  trai' altro!  duo’  be’ lumi  in  cielo: 
Perchè,  nascendo'l  Sole,  imbruna  e perde 
Dell'alma  Luna  la  rotonda  immago. 

E se  precipitando  11  Sol  tramonta , 

Elia  all'  incontra  in  Oriente  appare 
Sorgendo,  e fuor  dimostra  ornalo  ’l  viso: 
Ma  in  altre  sue  ligure , In  altre  forme. 
Colta  notte  spirar  non  suole  insieme; 
Benché  nel  suo  perfetto  intero  stato, 
Quand'ha  colmo  di  luce  ’l  vago  giro, 
Incoronata  de’  suo'  bianchi  raggi , 

Regina  è della  notte,  c tutte  avanza 
Di  luce  e di  beltà  l'aurate  stelle. 

Ed  in  vece  del  Sol  la  terra  illustra. 

Ma  ’1  Sole  è re  del  luminoso  giorno, 

E come  sposo,  dal  celeste  albergo 
Esce  lutto  tli  raggi  e d'oro  adorno, 

Dì  più  lucente  e di  maggior  corona 
Circondata  la  chiara  accesa  fronte. 

E ’n  guisa  di  gigante  allo  c superbo 
Trascorre'! ciclo,  e'1  signoreggia  intorno: 
Tatti’  egli  è grande , e di  tal  luce  ardente  '. 

E grande  ancor  la  vie  men  calda  Luna  : 
Ma  come  è grande?  oper  rispetto  altrui 
(Se  pur  riguardi  alle  minori  Stelle), 

Od  in  sé  stessa  pur  descritta  e chiusa 
Dalle  sue  linee  entro  T suo  puro  cerchio  ? 
Siccom’  è grande  ’l  Marc  e grande  '1  Cielo  ; 
O perchè  basti  ’l  suo  splendor  sereno 
Ad  illustrar  gli  smisurati  campi 
Delia  Terra,  del  Mar,  del  Clel  profondo? 
Però  d'  ogni  sua  parte  cgual  si  mostra , 
Quand’è  rilonda,  agli  Etiopi,  agl’ Indi, 
A’ freddi  Sciti,  agl’iperborei  ignoti, 

0 sia  ’n  oscuro  Occaso , o ’n  lucido  Orto, 

0 del  elei  tenga  più  sublime  parte. 

Nè  giunge,  o toglie  alla  grandezza  alquanto 
Dell’  ampia  terra  il  largo  seno , o ’l  dorso , 
Onde  minor  per  lontananza  appaia. 
Maggior  perchè  s’ apprcsse , o s’ avvicini , 
Come  dell’ altre  cose  in  terra  Incontra. 

Nè  giammai  dal  gran  Sole  è più  remoto, 
Nè  più  vicino  alcun  ; ma  In  spazio  eguale 
Son  gli  abitanti  In  ogni  clima  estremo. 
Pensa  fra  te  se  mai  da  eccelso  giogo 
D'orrido  monte  rimirando  a basso, 
l’mil  campo  vedesti , od  ima  valle , 
Quanto  i gioghi  de’  buoi  sembrano  In  vista , 
0 quanto  grandi  gli  aratori  Istessi  : 

Di  minute  formiche  ebber  sembianza 
Seni'  alcun  dubbio,  entr*  a misura  angusta 
Cosi  accordarsi,  c rannicchiar  le  membra: 


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130  POEMI 

Cotanto  si  consuma  e si  disperde 
Della  vista  mortale  il  senso  incerto 
In  mezzo  a così  grande  e lungo  spazio, 
Ch’ appena  giunge  a’  que’  remoti  oggetti  ; 
Ma  se  da  vetta,  o da  sublime  scoglio  [tenti. 
Volgesti  *1  guardo  al  Mar  con  gli  ocelli  in* 
Quanto  risole  in  lui  diffuse  e sparse 
Ti  si  mostrano  in  vista  ; o negra  nave 
Di  care  merci  e preziose  onusta , 
Spiegando  in  alto  le  minute  vele 
In  guisa  d’ale,  dalla  salda  antenna 
Sovra  ’l  ceruleo  suo  spumante  dorso; 
Certo  minor  di  candida  colomba 
S’ offerse  agli  occhi  la  minuta  irnmago  : 
Tanto  nel  vano , e negli  spazj  immensi 
L’ umana  vista  indebolisce , e perde  ! 

Già  gli  alti  monti  alle  profonde  valli 
Credesti  eguali , c di  rotonda  forma , [ca, 
Che  non  apparve  ’n  mezzo  antro , ospelon- 
Ncdaltra  sua  inegual  scoscesa  parte; 

Ma  tutto  si  nasconde  ’l  cavo  e ’I  voto 
Per  lontananza,  c con  aperto  inganno 
Ogni  disuguaglianza  in  lei  s’adegua. 

E rotonde  le  torri  ancor  diresti , 

Bene  li’  abbiau  quattro  lati  c quattro  facce , 

E sien  rivolle  all’ Aquilone  e all’Austro, 
Ed  all’ altre  del  mondo  avverse  parti. 

Però  senz’  alcun  dubbio  esperto  credi 
Che’n  lungo  spazio  ogni  lontana  immago 
Si  confonde:  e s’inganna  ’l  senso  errante 
In  molte  guise.  Adunque  è grande  il  Sole, 
Ma  quel  di  sua  grandezza  è certo  segno, 
Clic  perchè  sicu  Stelle  infinite  in  cielo,  , 
Da  ciascuna  di  loro  il  lume  sparso, 

E n un  raccolto,  a discacciar  non  basta 
La  mestizia  e l’ orror  di  oscura  notte  ; 

Ma  solo  il  Sol  eh* all’orizzonte  ascende. 
Anzi  mentr*  eis’  aspetta,  e pria  eh’  ei  sorga 
Sopra  la  terra , e sparga  i primi  raggi , 

Le  tenebre  dissolve , c l’ auree  Stelle 
Supera  di  splendore  : e l’aria  densa , 

E dal  freddo  notturno  in  gel  ristretta  r 
Diffonde  e sparge,  e ’l  liquido  sereno 
Con  vieppiù  dolci  tempre  illustra  e scalda; 
Onde  l’auro  odorate  innanzi  al  giorno 
Spirano  mormorando  : e piove  intanto 
Il  rugiadoso  e cristallino  umore. 

E quinci  apprendi  del  Maestro  eterno 
L’arte  divina,  che  lontano  ’l  Sole 
Dispose,  c ’n  guisa  moderò  l’ardore. 

Clic  per  soverchio  non  infiamma  ’1  suolo. 
Nè  per  difetto  ancor  ragghiaccia,  o lascia 
Lauguido  e mesto , ed  infecondo  al  parto. 


SACRI. 

E della  bianca  Luna  intendi , o pensa 
Cose  conformi , o somiglianti  a queste. 
Perchè  (siccome  dissi  ) il  corpo  è grande , 
E ( se  ne  traggi  U Sol  ) lucente  e bello , 
Vieppiù  d’ ogn’  altro  che  nel  ciel  ri  splenda: 
Ma  non  sempre  si  vede , e non  riluce 
In  ogni  tempo  con  eguai  sembianza , 

Ma  riempie  talora  ’1  voto  cerchio; 
Talvolta  scema  si  dimostra  in  parte. 

Anzi  mentr’ ella  cresce,  oscura  e fosca 
Divien  da  un  lato  : e nel  calare  imbruna 
Dall'altro:  e dell’  eterno  e saggio  Fabbro 
Dir  non  possiamo  ’l  magistero  e l’arte; 
Perchè  dar  volle  in  cielo  un  chiaro  esem- 
Col  variar  dell’incostante  Luna,  [pio. 
All' incostanza  umana,  al  modo  incerto 
Di  nostra  vita  instabile  c vagante, 

Ch’  un  {stesso  tenor  giammai  non  serba , 
Nè  ’n  fermo  stato  si  mantiene  c dura. 

Ma  cresce  prima,  e sè  medesma  avanza , 
Sin  che  di  sua  grandezza  aggiunga  il  som- 
Dechina  poscia,  e si  consuma  e cade,  [rao: 
Sin  eh’  alfin  pur  s’ estingue  e torna  in  nulla. 
Dunque  nè  di  sua  gloria  in  vista  altero 
Alcun  scn  vada , o mostri  orgoglio  e fasto 
Per  gran  tesoro  accolto,  o ’n  sua  possanza 
Troppo  confidi,  olirà  ragion  superbo: 

Nè  per  corona  antica  ed  aureo  scettro 
Altrui  rassembri  imperioso  e grave  : 

Ma  di  sè  la  caduca  e fragil  parte 
Disprezzi , e solo  estimi  i beni  interni , 

E l’ anima  immortal , cui  nulla  estingue. 

E delle  cose  umane  i giri  incerti 
Pensi  e ripensi , e '1  suo  pensiero  affisso 
Tenga  all’ eterne  pur,  come  a suo  centro. 
E se  la  Luna  impallidita  e scema 
Col  perturbato  aspetto  unqua  l’ am  istà  ; 
Più  dell'anima  sua  si  dolga  e gema, 

Gli’  acquista  la  virtù , tesoro  e dono 
Prezioso  del  Cielo , onde  s' avanza  ; 

E poi  la  perde  : e ’l  primo  onore  antico , 

E la  sua  diguitate  in  sè  non  serba. 

E veramente  a’  vaghi  e lunghi  errori 
Dcll’inslahil  pianeta  uom  folle  e stolto 
Vaneggiando  somiglia , e ’n  vari  modi , 
Come  la  Luna , si  trasmuta  e cangia. 

Alcun  vi  fu  che  della  mente  umana  [me, 
Ch’  ha  due  potenze  o pur  due  parli  insie- 
E I*  una  a far , l’altra  a patire  acconcia  ; 
Quella  ch’illustra,  rassomiglia  al  Sole, 
Quella  eh’ illuminala  indi  rischiara 
Il  tenebroso  e fosco,  ei  fa  sembiante 
Alla  Luna,  eh’ altronde  ’l  lume  prende , 


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LE  SETTE  GIORNATE 
E dell*  altrui  splendor  lucente  appare. 
Perchè  la  parte  In  noi  soggetta  a morte 
( Se  1* intelletto  ha  parte  a morte  esposta) 
Pur  col  lume  dell'altra  alluma  cd  orna 
In  sè  mille  leggiadre  e chiare  forme. 

Ma  quella  eh'  I suo’  raggi  alimi  comparte, 
Temer  non  può  di  morte  ’l  duro  fato; 
Talché  Dio  la  credea  nel  seco!  prisco 
Filosofando  l’ingegnosa  turba. 

Altri  Dio  no,  ma  creatura  e parto 
Da  Dio  prodotto , a cui  di  Sole  il  nome 
Per  P alta  luce  sua  concede  e dona. 

Ma  ’n  disparte  si  stia  d'acuto  ingegno 
L'animosa  ragione,  e ceda  intanto 
A quel  che  più  conferma  antica  fede , 

Ed  animosa  pur  ; chè  meglio  'I  vero 
D’ ogni  primo  intelletto,  in  Dio  conosce. 

Or  dimostriam , come  V errante  Luna 
Giovi  col  variare,  e parte  accresca 
Le  cose  che  la  terra  in  son  produce, 

O nutre  ’l  mar  nel  salso  umido  grembo 
Perocché  ’l  crescer  suo  riempie  e colma 
D’ umore  i corpi,  e ’i  suo  scemar  gli  scema, 

E quasi  vota  ; in  si  soavi  tempre 
L’ umido  e ’l  caldo  ella  congiunge  e mesce. 
Perchè  fredda  non  è la  bianca  Luna , 

Coni’ altri  estima  : e solo  algente  appare 
A paragon  del  Sole , onde  si  scalda. 

Però , quanti’  ella  col  suo  cerchio  intero  j 
Mostra  dall’alto  cielo  il  pieno  aspetto. 
Emula  vaga  del  fratello  ardente , 

E (se dir  lece)  quasi  un  Sol  notturno; 
Allor  le  notti  tepide  e serene 
Son  più  dcU'altrc,in  cui  d’adunca  falce 
Mostra  l’ immago,  o con  argentee  corna 
S’ incurva  avanti  al  Sole , o pur  da  tergo. 
Allor  vieppiù  germoglia  ’l  verde  tronco 
Con  nuove  frondi  e rami,  c più s’ impingua 
1/  umida  sua  midolla  entro  la  scorza  : 

E più  ripiena  è in  mar  la  dura  conca 
Di  prezioso  cibo  ; e pure  avviene 
Ch’altri  dormendo  sotto  ’l  cielo  aperto, 

Lo  testa  grave  del  suo  umor  riempie. 
Lascio  or  da  parte , come  l’ aria  e i venti 
Ella  commova , o ’l  mar  perturbi  e queti. 

E tanto  basti  aver  narrato  ornai 
Di  sua  grandezza  e de’  suo'  vari  effetti , 
Ond’clla  giova.  E non  dee  senso  umano 
Esser  giammai  di  misurarla  ardito; 

Cile  quivi  *1  suo  giudizio  è ’ncerto  e falso. 
Cotanto  è grande,  e'n  cotal  guisa  illustra 
Gli  abitatori  c le  città  disgiunte 
Dal  vastissimo  mar , dall’  ampia  terra  : 


DEL  MONDO  CREATO.  13! 

0 slan  in  parte  ove  dechina  *1  Sole , 

0 pur  ne’  regni  della  bella  Aurora  : 

0 sotto  1*  Orse,  e nella  Zona  algente  : 

0 pur  nella  fervente  arida  fascia  , 

Che  per  mezzo  'I  tcrren  divide  e cinge; 
Gl’ illustra,  dico,  e quasi  ai  modo  istesso, 
Noi,  altri  con  obliqui  e torti  raggi. 

Altri  con  dritti , c questa  è vera  prova 
Ch'  ella  sia  grande,  e ’n  van  ripa gna  *1  senso 
0 la  falsa  ragion , che  ’l  falso  afferma  : 

K non  v*  ha  loco  ingegno  di  sofista. 

Ma  quel  che  fece  a noi  si  caro  dono 
Della  mente  immortai,  c' insegna  ancora 
A conoscere  ’l  vero.  E quella  eterna 
Sua  sapienza,  ond’  egli  fece  ’l  mondo , 
Grande  in  picciole  cose  ancor  dimostra  : 
Maggior  nelle  maggiori  a noi  la  scopre, 
Siccom'è  ’l  Sole  c la  ritonda  Luna,  [gli, 
benché  'se  quello,  o questa  in  parte  aggua- 

0 paragoni  al  suo  Fattor  sovrano) 

Verso  di  lui  ch’ogni  grandezza  accoglie 
In  sé  medesmo,  c come  cosa  angusta 

1/  universo  nel  pugno  astriuge  c serra? 

E quello  e questa  avran  sembianza  e forma 
D’avido  pulce,  o di  formica  industre. 

Fece  nel  tempo  istesso  ancor  le  Stelle, 
Quei  che  prima  avea  fatto  ’l  fermo  Cielo 
Nel  di  secondo,  c non  appieno  adorno; 
bene h’ altri  Stelle  di  nomar  presuma 

1 sublimi  non  pur  celesti  lumi, 

E quasi  eterni,  c nei  suo  giro  affissi  ; 

Ma  le  Comete  e le  figure  ardenti , 

Che  ’n  varie  forme  fiammeggiar  nell’alta 
Aria  veggiamo , o nel  sublime  foco 
Che  sotto  ’l  giro  della  Luna  accollo 
Con  lei  s’aggira  di  perpetuo  moto. 

Ma  queste  colassù  mai  certo  loco 
Aver  non  ponilo , e pur  grandezza  c forma, 
Od  ordine  costante  : e ’n  breve  tempo 
Sparir  dagli  occhi,  e dileguarsi  in  tutto 
Soglion  per  l'aria  dissipate  e sparse; 
Siccome  quelle  che  dal  sen  fumante 
Han  della  terra  ’l  nutrimento  e l’esca. 

E se  la  madre  lor  dinega  ’l  cibo 
Arido,  che  diviene  in  breve  adusto  , 
Viver  non  possa,  onde  tra  spazj  angusti 
La  vita  loro  è terminata  e chiusa. 
Talornonponnoun  giorno,  anco  talvolta 
Nel  punto  che  s’ infiamma  ella  s’ estingue. 
Onde  quell’ animai  che  ’n  riva  nasce 
Deiripani  sonante,  e vede  appena 
Un  solo  e breve  Sol  nato  coll’Alba, 
Giungendo  innanzi  sera  al  fato  estremo 


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132  POEMI 

Quell’  animai,  dirli’ io,  di’  avara  c scarsa 
Ebbe  più  d’altro  la  Natura  c’I  Cielo, 

Con  sorte  sua  migliore  in  terra  nasce , 

Clic  nel  elei  queste  varie  accese  forme. 

E Stelle  pure  altri  le  appella  e noma  : 
Altri  Stelle  cadenti  ; onde  sì  spesso 
Agogna  rimirando  il  volgo  errante , 

Se  morir  ponno,  o se  cader  le  Stelle, 

Ch* esser  dovrian  per  digli! tate  eterne, 

0 quasi  eterne,  e trapassar  vivendo 
De’ secoli  volanti  ’l  lungo  corso. 

Marosi  parla,  chi  ragiona  a’ sensi 
Del  volgo  infermo,  e ’1  suo  parlar  gli  adatta. 
Ma  tra  queste  figure  in  cielo  accese , 

E quasi  impresse , c di  sua  nota  aduste , 
Ila»  loco  alcune  sì  costante  e certo  , 

E così  lunga  e così  stabil  vita. 

Ch’altri  le  stima  del  sublime  cielo 
Parte  non  pur,  ma  bella  e cara  parte. 
Siccom’  è quella  via  lucente  e bianca. 

Che  del  latte  al  candore  i lumi  aggiuuge 
Di  tante  fisse  Stelle  Ivi  cosparse  ; 

La  qual  è via  eh’  adduce  all’  alta  reggia 
De’  favolosi  Divi  : e strada  ancora, 
Ond’all’  animo  umano  è aperto  ’l  varco , 
Per  cui  discenda  nel  corporeo  albergo, 
E poi  ritorni  rivolando  in  alto 
Alla  sua  pura  c sua  fatale  Stella  : 

Così  credcano  ; e questa  è fama  antica. 
Ma  la  Cometa  di  possente  aspetto, 

Ch*  1 purpurei  tiranni  c 1 regi  invitti 
Ancidc  fiammeggiando  e muta  i regni , 
Breve  spazio  ha  di  vita  a tanta  possa  , 

E di  due  anni  ’l  corso  appena  adempie. 
Così  nel  tempo  dell’  infanzia  umana 
Invecchia  e muore  la  terribil  luce, 

Che  dà  spavento  a’ miseri  mortali,  [ero 
Questa  giammai  tra  ’l  Capricorno  e’ICan- 
Apparir  non  ci  suol , o pur  di  rado 
Ivi  si  può  mostrare  : c pria  eh’  avvampi , 
Con  sua  gran  forza  la  dissolve  ’l  Sole. 

Ma  oltra  quell’  obliqua  c torta  strada , 

Per  cui  fanno  i pianeti  eterno  giro,  [l’ Orse  ; 
S’ infiamma  e splende  tra  quel  cerchio  e 
Indi , spiegando  la  sua  ardente  chioma, 

0 pur  la  barba  ; di  sanguigna  fiamma 
Accesa  e sparsa  , c paventosa  in  vista, 
Con  annunzio  di  morte  altrui  minaccia. 

E questa  ancor,  benché  dannosa  e fera , 
Sorti  di  Stella  *1  glorioso  nome, 

Che  non  conviene  a sì  maligno  aspetto  : 
Nè  d'innocente  luce  unqua  si  vanta; 
Bench’ altri  dica  eh’ a Nerone  Augusto 


SACRI. 

Innocente  apparisse;  e ’n  ciò  lusinga  , 
Perdi*  ella  nacque,  col  lasciarlo  in  vita  , 
Al  mondo  tutto  : c fu  noccnte  ed  empia 
Più  nel  salvar  sì  dispietato  mostro , 

Clic  in  uccider  altrui  sembrasse  unquanco. 

Ma  se  di  queste  fu  la  pura  e bella 
E santa  luce , fida  e cara  scorta 
De’  peregrini  regi  d’ Oriente; 

Salto  colui  che  di  sua  mano  eterna 
Formella  in  prima  e le  diè  luce  e moto, 
Che  parer  volontario  allor  polca , 

Come  s’ella  intelletto  avesse  ed  alma; 
Ma  questa  fu  della  divina  destra 
Opra  novella  c fatta  a sì  grand’  uopo. 

L’ altre  create  già  nel  quarto  giorno 
Furo»,  come  si  stima,  e mente  c vita 
Ebbero  dal  celeste  eterno  Fabbro. 

Vita  non  già,  che  si  nutrisca  c prenda 
Forza  dal  cibo  , c per  digiun  languisca. 
Cercando  col  suo  corso  ’l  vitto  e l’ esca 
Dalla  terra  e dal  mar,  che  sempre  esala, 
Come  alcuni  affermar  del  secol  prisco, 
Ch'cbberdi  sapienza  ingiusta  fama; 

Ma  lieta  e gloriosa  e pura  vita , 

Clie’n  Dio  sempre  mirando,  in  lui  s’eterna, 
E di  sapere  e del  suo  amor  si  pasce. 

Queste  divine  e gloriose  menti 
Furon  da  Dio  create  il  di  primiero 
Innanzi  al  Sole,  c i bei  stellanti  giri  : 

E poi  da  lui  divise  il  giorno  quarto 
Ne’  propri  luoghi  ; come  accorto  duce 

I suo’  fidi  guerrier  distingua  e squadra  ; 

E ’n  guardia  lor  dispone,  e lor  confida 
Città  forte  ed  alpestra  e torre  eccelsa. 
Parte  fu  mossa  a raggirar  nel  corso. 

Non  faticoso  c non  costretto  a forza, 
Quelle  sublimi  sue  lucenti  rote: 

E parte  ancor,  fin  dal  principio  eterno, 
Alia  difesa  delle  genti  umane 
Fur  destinate  da  quel  Re  supremo. 

E poi  dovean , quai  messaggier  volanti. 
Far  manifesto  il  suo  voler  in  terra,  [gli!  : 
Portando  e riportando,  or  grazie,  or  pre- 
Grazie divine,  ognor  veloci  e pronte , 

E preghi  umani , spesso,  c lenti  c tardi. 
Altre,  mai  sempre  al  suo  servizio  intente. 
Stanno  fide  ministre  appresso  e ’ntorno, 
E sembran  quasi  innumerabil  prole. 

Nè  da  quel  dì  che  prima  gli  occhi  aperse 

II  padre  Adamo  alla  serena  luce  , 

Tanti  del  suo  corrotto  e ’mpuro  seme 
De’  faticosi  e miseri  mortali 

Fur  già  prodotti  a travagliar  nel  mondo 


LE  SETTE  GIORNATE  DEL  MONDO  CREATO. 


Quanti  di  quei  divini  alati  spirti 
Fur  destinati  a quell'  eterna  pace , 

A quel  piacer  che  non  ha  One , o tempo. 
Che  gli  fa  sempre  neghittosi  e lieti 
D’ un  ozio  eterno,  e senza  officio  ed  opre , 
E senza  cura  di  terreni  atTanni, 

Eche  gli  astringe  a quel  gravoso  impaccio, 
Di  girar  senza  posa  i cieli  a forza  , 

Quasi  animali  alla  marmorea  rota 
Legati , in  guisa  d’isslon  penoso. 
Ch’avvinto  giace,  e sempre  è mosso  in  giro, 
Erra  egualmente,  e'n  suamenzogna  adom- 
bra. 

E'I  gran  maestro  di  colorchesanno:  [do, 
Quel  che  'il  tante  sue  scuole  insegna  '1  nion- 
Seguendo  ’J  moto  c 'I  senso,  infide  scorte, 
Errò  egli  ancor.  Ma  con  men  grave  errore , 
Quand’ei  quelle  divine  eterne  menti. 
Filosofando  annoverar  presume , 

E ’n  numero  si  breve  accoglie  c stringe 
1 cittadini  del  celeste  regno; 

Perocché  quanti  sono  I vari  moti , 

Onde  con  vari  modi  è mosso  ’l  cielo. 
Tanti  motori  all’  alte  spere  assegna. 

Ed  olirà  questi  non  adora,  e placa, 

O non  conosce  nel  divino  impero 
Altri  offici,  altri  Numi  ed  altri  Dei  : 

E senza  proprio  ministero  ed  opra 
Non  estimò  che  ’n  oziosa  vita 
Vivesscr  pigre  c neghittose  indarno. 
Dunque  sol  tante , al  suo  giudlcio  errante, 
Esser  polca» , quante  a’  celesti  giri 
Potesser  poi  bastar;  gli  altri  soverchi 
Tutti  estimava,  ed  adorati  invano, 

Fìnti  di  Grecia  Numi,  o pur  d’  Egitto. 

E non  s’avvide  '1  pellegrino  ingegno 
Che  nella  gloriosa  eterna  reggia 
Altri  esser  denno  ancor  gli  offici  e l’ opre, 
Che  quella  sol  di  raggirare  attorno 
I,' eterne  spere  nel  contrario  moto. 

E conoscer  non  volle,  o pur  s'infinse, 
Che  piu  alto  e più  degno  e nobil  fine 
Si  conveniva  agl'  intelletti  eterni, 

Di  quello,  senza  cui  soverchie  estima 
l-e  nature  divine,  e quasi  invano. 

Chè  ’l  muover  sempre  le  stellanti  rote, 
E fin  corporeo,  e quasi  a’  corpi  affisso, 
E ne'  corpi  occupato,  e basso  officio. 
Verso  di  quel  de'  più  sublimi  spirti, 
Che  stanno  appresso  e ’ntorno  al  Re  super- 
Altro  fin  dunque  piùsublime  ed  alto,  [no. 
Altro  più  degno  ed  onorato  oggetto , 
Altro  più  santo  ministero,  e sacro. 


131 

Numero  via  maggior  ricerca  c vuole 
Delle  menti  immortali,  e gii  non  debbe 
Il  Signor  de’  signori,  e ’l  Re  de'  regi 
In  solitaria  reggia  e ’n  volo  regno 
Regnar  quasi  solingo,  c ’l  basso  mondo 
Empier  d' abitatori,  onde  s'accresca 
Dell' imperio  terrcn  l’orgoglio  e ’l  fasto. 
Nè  dovea  dare  a’  gloriosi  Augusti , 

Ed  agli  altri  quaggiù  corona  e scettro. 
Tante  genti,  talli'  arme  e tante  squadre. 
Ed  eserciti  tanti , c ’n  tante  guise 
Della  terra  e del  mar  raccolti  e sparsi  : 
Nè  riserbar  por  sè  schiera,  o falange, 
Rench’egli  basti  solo.  Ah  ! troppoindegno 
Era  della  sua  gloria , e troppo  anguste 
Son  le  misure , alla  materia  affisse: 
Troppo  1 numeri  scarsi , onde  si  conta 
Tutto  ciò  che  la  terra  e ’l  mar  profondo 
Nel  grembo  accoglie,  o ’l  ciclo,  esposto 
a'  sensi. 

Altro  numcroèancor,  che  non  s'accresce 
Per  secare  ’l  continuo,  e tutti  avanza 
I numeri  quaggiuso.  Or  chi  presume 
D’annoverar  le  pure  eterne  menti? 

Deh!  non  vedete  or  quanti  raggi  intorno 
Sparga  questo  corporeo  instabil  Sole, 
Lo  qual  del  sommo  Sole  è quasi  un  raggio  ? 
Or  quanti  sparger  dee  raggi  lucenti , 
Quante  fiamme  lassuso,  e quanti  ardori 
Quel  primo  della  luce  eterno  fonte? 

Ma  noi  cape  '!  pcnsicr,  nè  lingua  esprime, 
E quel  che  sovra  ’l  del  si  conta  c segna, 
Innumerabil  sembra  a'  sensi  umani. 

E certo  alla  ragion , giudizio  eterno 
Mosse  ’l  sommo  Signor,  che  fece  ’l  mondo, 
A far  più  numerosi  1 più  perfetti. 
Perchè  negl’  imperfetti  ei  non  abbonda. 
Quinci  addivien  che  le  feroci  belve 
Son  poche  e rare  in  solitaria  selva , [te 

0 ’n  monte  ermo  e selvaggio  : c d'altra  par- 
Pascono  i campì  i numerosi  armenti, 

E copiose  ancor  le  gregge  umili 
Seguono  del  pastor  la  fida  scorta. 

Ma  de'  figli  d' Adamo  il  seme  sparso 
Riempie  Europa, e l’altre parli  Ingombra 
Della  terra , eh’  è stretta  e bassa  mole 
S’al  Ciel  la  paragoni,  ampio  e sublime: 
E ’l  Ciel  de’  propri  abitatori  illustra  , 
Più  che  di  Stelle  assai , le  parti  eccelse. 
E non  contento  de’  suo’  primi  antichi , 
E quasi  eterni  abitator  celesti , 

1 peregrini  ancora  in  sè  raccoglie , 

E nati  in  terra  di  terrestre  limo. 


134  POEMI 

E l' alte  sedi  alla  straniera  turba 
Lieto  prepara;  e l’accompagna  e giunge 
AH’  angeliche  squadre,  e quasi  agguaglia; 
Benché  d’Adamo  1 mal  concetti  figli 
Non  siano  adatto  all’ampio  ('deio esterni. 
Perchè  celeste  è l’alta  c bella  origo 
Dell’ alma  umana,  c lieta  al  Liei  ritorna, 
Siccome  a vera  patria,  c patria  antica. 
Da  questa  della  terra  ombrosa  chiostra, 
Ov*  ella  visse  peregrina  errante. 

E se  l’ uom,  cinto  di  corporee  membra 
Nacque  d*  Adam  , che  di  fangosa  terra 
Fu  generalo,  ei  pur  di  Dio  rinacque 
ingenerato  poi  d’acqua  e di  spirto  ; 

E , come  crede  de*  paterni  regni , 

Aspira  alle  celesti  alte  corone. 

Ma  dove  mi  trasporta  innanzi  al  tempo 
L’uraauo  amor,  che  ’n  noi  sì  dolce  innesta 
Nostra  natura?  Ora  ’l  mirabil  corso 
Seguiam  del  Cielo  e delle  Stelle  erranti, 
A cui , quasi  motrici,  il  Padre  eterno 
Assegnò  quelle  eccelse  e pure  menti  : 
Non  quasi  forme,  in  sua  materia  immeuse, 
Ma  quasi  auriga  al  suo  veloce  carro. 

E quinci  incominciar  del  Ciclo  i moti , 
L’un  dalla  destra  alla  sinistra  parte. 
L’altro  dalla  sinistra  in  ver  la  destra. 

E chiamo  destra  ’l  lucido  Oriente, 

Onde  si  muove  T primo  Ciel  rotando. 

Che  lutti  gli  altri  seco  affretta  e traggo; 
E dal  proprio  cammin  quasi  distoma. 
Sinistra  parte  l’ Occidente  appello. 

Onde  simuovongli  altri,  c ’l  Sole  istesso. 
Che  pur  dall’ Oriente  a noi  si  mostra 
Coll’  altrui  moto , e nello  spazio  integro 
D’un  giorno  è ricond  otto , ond’  ei  si  parte. 
Perchè ’n  un  di,  che  ’n  sè  la  luce  e l’ombra 
Contenga,  compie  ’l  suo  perfetto  giro 
La  prima  spera  : c l’ altre  in  vario  tempo 
Col  proprio  molo  fan  contrario  corso; 
Qual  minuta  formica,  o picciol  verme, 
Clic  da  rota  corrente  è tratto  intorno  ; 
Ed  egli  intanto  alla  contraria  parte 
Da  sè  medesmo  muove,  assai  più  lento. 

In  trentanni  sen  va  correndo  a cerchio 
Quel  che  rasscmbra  a noi  pigro  Saturno, 
Più  veloce  degli  altri  e più  corrente  : 

Ed  in  due  volte  sci  placido  Giove; 

Ed  in  due  anni  appresso  il  fiero  Marte, 
Che  ’n  questa  guisa  ei  si  conosce  e noma 
Dal  volgo  in  terra  : e ’n  un  solando  ’l  Sole  : 

E ’n  poco  men  la  graziosa  Stella, 

La  qual  lieta  si  leva  innanzi  all'alba. 


SACRI. 

E Lucifero  ha  nome;  e poi  n’appare. 
Espcro  detta,  allorché  ’l  Sol  tramonta, 
E’o  quasi  pari  spazio  in  sè  ritorna 
Quel  già  creduto  messaggier  volante. 

In  venti  giorni  poscia , e ’n  sette  appresso 
Fa  ’l  suo  viaggio  la  più  tarda  Luna, 

Che  più  veloce  sembra;  e questo  avviene 
Perchè  ’n  giro  minor  si  volge,  e riede 
Colà  più  tosto , onde  si  mosse  in  prima. 
E questa  fu  quasi  maestra  antica 
Di  partir  l’ anno , che  ’n  sci  mesi  e ’n  sei 
Divise  a*  suo’  Romani  il  vecchio  Noma; 
Perocché  tante  volte  ’l  Sol  raggiunge  , 
Tornando  a quel  principio  onde  partissi  : 
Ma  prima  in  questa  guisa  i Greci  ancora 
L’avean  partito,  e i più  vetusti  Ebrei. 
Romolo  poi  meno  al  celeste  corso 
Ch’ai  guerreggiare  intento,  e quasi  rozzo 
Delle  cose  divine , in  dieci  parti 
L’ avea  diviso  : c quest’  crror  corresse 
11  saggio  re  sabin,  canuto  ’l  mento. 

In  questo  modo  i due  pianeti  illustri. 
Da  chi  gli  scorge  nel  perpetuo  corso. 
Furo  ordinali  col  lor  giro  all’  anno. 
Anno  è il  ritorno  del  corrente  Sole, 

Dal  segno  islesso  nel  medesmo  segno 
Onde  si  parte;  anzi  nel  punto,  affisso 
Nel  segno,  quasi  a termine  costante; 
Perchè  tornando  alla  medesma  stella 
Onde  partissi,  dilungata  alquanto 
La  troverebbe,  e trasportala  a cerchio 
Dal  primo  ciel  col  suo  veloce  ratto: 

Ma  chi  lo  scorge  a far  la  state  e ’l  verno , 
Questi  l’ Italia  e tutta  Europa  appella 
Coi  nome  degli  Dei  bugiardi  c falsi. 

Ma  pur  Angeli  sono,  e pure  menti. 

Deli’ alta  Provvidenza  in  ciel  ministre; 
Imi  quai  dispose  per  cammino  obliquo 
1 sette  erranti,  c ’n  mezz’  agli  altri  ’)  Sole  ; 
Porci»’  ei  ci  vari  le  stagioni  e i tempi  : 

E ’n  questa  guisa  sia  cagione  ai  mondo 
Ch’altri  nasca,  altri  muoia,  c vita  in  morte 
Trasmuti,  e morte  in  vita,  in  giro  alterno. 
Perchè  mentre  lontano  il  Sol  dimora 
In  quel  lato,  onde  spira  ’l  nubil  Austro, 
Di  lunghissime  notti  il  nostro  adombra  ; 
E l’aria  si  raffredda  e si  perturba 
D’ ogn’  intorno  alla  terra,  e ’n  folta  pioggia 
Condensati  vapori,  e ’n  larghe  falde 
Caggion  di  neve , che  poi  stretta  in  gelo 
Ricopre  ’l  dorso  degli  alpestri  monti  ; 

E frenando  a’  gran  fiumi  ’l  ratto  corso , 
Tardi  gii  rende,  e quasi  in  saldo  vetro 


LE  SETTE  GIORNATE  DEL  MONDO  CREATO. 


Converte  le  paludi  c i pigri  «ugni. 

Ma  quand’  ei  dal  Meriggio  a noi  ritorna, 
In  mezzo  quasi  del  cammin  rotondo, 
Parte  la  notte  e 'I  giorno  in  spazio  eguale, 
E l’aria  scalda  con  soavi  tempre. 

Allor  Zefiro  spira  : allorsen  riede 
La  Primavera  verdeggiante  e Hcta, 

Coll’ erbe  e I fiori , sua  dolce  famiglia: 

E gravida  la  terra  ’1  sen  fecondo. 

Che  pur  dianzi  chiudra  la  neve  e 'I  ghiac- 
Apre  soavemente  a’  nuovi  parti.  ciò. 
Germogliai!  le  fiorite  ombrose  piante  ; 
Nascono  gli  animali  in  terra  e ’n  acqua  : 
E si  conserva  la  perpetua  prole, 
Insinche’lSol,  quanto  più  può,  s’apnressa 
A’  freddi  regni  d’Aquiion  nevoso. 

Dov’  ei  nel  Cancro  si  ritiene,  e ferma 
Quasi  ’lsuocorso.efapiUlungo’l  giorno: 
E con  più  tardi  passi  ornai  per  drillo 
Sul  capo  nostro  quasi  egli  si  spazia  , 

E l’aria  d’ ognintorno  a noi  riscalda  : 
Arida  fa  la  terra , e i semi  sparsi , 

E degii  alberi  i frutti  ancor  matura. 

In  questo  mese  è fiammeggiante ’l  Sole 
Olirà  misura,  e men  obliqui  raggi 
Spiega  più  d’ alto  ad  illustrar  la  terra. 
Son  lunghissimi  allora  i giorni  estivi, 

E brevissime  l’ombre;  ed  all’incontro 
Ne'  brevissimi  giorni  H corpo  opaco 
Lunghissime  fa  f ombre  opposte  al  Sole. 

E quest' avticnea  noi,  ch'abbiamo  albergo 
Infra  quel  cerchio,  oode  ritorna  Apollo, 

E l'altro  che  dall* Orse ’i  nome  prende , 
Poste  non  lunge  a’  gelidi  Trioni. 

E noi  mai  sempre  solo  al  destro  Iato 
L’ ombre  mandiamo  inverso  Borea  e il 
Carro: 

Ed  altri  sono  in  più  fervente  clima, 

1 quai  dell'anno  uno  e due  giorni  interi 
Ombra  non  fanno,  allorché  gira  T Soie 
Nel  cerchio  del  Meriggio , e d’ atta  parte 
Con  dritti  raggi  gli  rischiara  e scalda. 

Ed  allora  addiviene  'n  quelle  parli 
Che  per  angusta  bocca  I cavi  pozzi 
Illuminali  sleno  Invino  al  fondo  ; 

Come  ’n  Siene,  e ’n  Berenice  ancora, 

E più  lontan,  nell’onorata  reggia, 

Ch'  hadue  rami  nel  Nilo,  e quinci  e quindi, 

E dalia  suora  dì  Cambise  estima 
Ebbe  gii  ’l  nome,  e la  famosa  tomba. 

Ed  oitra  l’odorata  aprica  terra 
Degli  Arabi  felici,  ha  strana  gente, 
Cbesoargel'ombra  'e  ne  sortisce ’l  nome) 


D’ entrambi  i lati,  incontra’I  Boreael’An- 
Equest’avvien,  mentre  vicino  ’l  Sole  [stro 
A’  freddi  regni  d’Aquiion  trapassa  , 

E gii  lieto  n’  accoglie  ’l  nuovo  Autunno , 
Ricco  de’  pomi  e del  suo  vin  spumante. 
Con  verde  ancora  e pampinosa  spoglia: 
Allora  tempra  i rai  del  Soie  estivo  , 
Scema  gli  ardori,  e l’ombra  amico  acere- 
to le  notti  co’giorni  in  libra  agguaglia;  rsce; 
Ed  innocente  ne  conduce  al  Verno  : 

In  cui  di  nuovo  ’l  Sol  da  noi  si  parte , 

E s’avvicina  agii  Arabi  ed  agl’  indi. 
Questi  sono  del  Sole  il  moto  e ’l  corso. 
Queste  dei  tempo  ie  vicende  e i giri , 

Per  cui  qui  si  governa  umana  vita. 

Ma  degna  ancor  di  meraviglia  è l’arte 
Del  Fabbro  eterno,  e la  sublime  ed  alla 
Sua  provvidenza,  eh’ alle  strade  oblique 
De’  sette  erranti  il  termine  prescrisse, 

E vieppiù  angusta  via  ristrìnse  al  Sole 
Perocché  soli  il  Sol  giammai  non  varia 
I.a  torta  linea , che  divide  e fende 
Il  cerchi»  delia  vita  in  parti  eguali. 

Gli  altri  escon  fuor,  ol’una,  o l’ai  ira  parte, 
Qual  più , qual  meno  : e la  feconda  Luna 
Vagar  per  tutto  ’l  cerchio  ardita  suole. 
Esce  Venere  fuor  del  cerchio  istesso. 

Più  della  Luna  audace  e più  feconda. 

E quinci  avvlen  che  ne’  deserti  incult] 

Sia  1’  Affrica  arenosa  e l’India  adusta, 

Di  si  vari  animai  nodrice  e madre. 

Né  qui  hiasmar  la  Provvidenza  eterna , 
Ch’ali’  ordine  del  mondo,  ai  sommo,  al  col- 
Di  tutte  l’ altre  cose  in  lui  prodotte,  [mo 
Giungilo  le  dispietate  e strane  belve 
Merav  Iella  e decoro , e i fieri  mostri. 

Or  mentre  ’l  Sol , per  l’alta  via  rotando. 
Giammai  non  esce  dal  camnùn  prescritto! 
Mostra  con  questo  chiaro,  illustre  esempio 
Al  Monarca  dei  mondo  'I  calle  angusto. 
Da  virtute  e da  legge  a Itti  prefisso. 

E s'egii  ha  ’ncontra  dall’  opposta  parte 
La  tonda  Luna,  eh’ al  superbo  Drago 
Preme  la  lesta,  o pur  la  coda  ingombra, 
Le  nega  i dolci  raggi  e ’l  chiaro  lume, 

E ’n  merzo  sì  frappon  l’ arida  terra  r 
Perchè  la  l.una  impallidita  adombrai 
E se  la  vaga  Luna  a lui  s’ aggiunge 
(Il  che  due  volte  ne’  Gemelli  avviene)1 
Il  Sole  in  parte  a noi  s’ oscura  e vela. 

E quinci  avvisa  , che  se  imbruna  e perde 
Per  difetto  lassù  celeste  luce  ; 

Non  è luce  mortai  nel  basso  mondo , 


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POEMI  SACRI. 


136 

Non  splendor  dì  fortuna,  onde  s’abbagli 
L’inferma  vista  dell’ errante  volgo, 

La  qual  talvolta  non  si  turbi  e manchi. 

K solleva  ’l  pensiero  all’  alta  e prima 
Santa  luce  divina , c luce  eterna  , 

Che  lassù  non  conosce  Occaso , od  Orto , 
Nè  difetto  giammai , nè  scema,  o langue: 
Ma  già  dì  nostra  umanità  vestita 
Fece  seco  ecclissar  turbato  ’l  Sole, 

Olirà  suo  slil  : con  meraviglia  c scorno 
Della  natura  lagrimosa  e mesta  : 

Nè  la  cagìon  conobbe  umano  ingegno. 

Ma  come  appressi  e s’ allontani  ’l  Sole , 
Perchè  da  sera  l’ incostante  Luna  [ da  : 
Nasca  sempre,  c’n  sull’alba  ellas’ascon- 
Pcrchè  Saturno,  (dove  e ’1  fiero  Marte 
Serbili  ordin  contrario , innanzi  al  giorno 
Tutti  nascendo,  e poi  caggendo  a sera  : 

Kd  altri  alleili  si  diversi  e tanti, 
di'  appaion  colassù  di  spera  in  spera  ; 
Varie  fur  le  cagioni  addotte  in  prova 
Da  varie  sette,  in  contemplar  discordi. 
Altri,  osservando  1 duo’  contrari  moti 
Ne’  cieli , e dal  primlcr  conversi  e ratti 
I meri  sublimi  incontra  ’l  proprio  corso  , 
Disscr  che  d’ognì  cielo  il  proprio  centro 
•'.entro  è del  mondo,  e ’ntorno  a lui  si  volge 
Pieno  e perfetto  T lor  ritondo  giro. 

Nè  questi  sovra  agli  stellanti  chiostri 
llan  locato  altro  corpo  ed  altro  cielo: 

Ma  poser  sott'a  lor  que'  sette  erranti, 
Clic  fan  si  varia  l’ armonia  superna , 

E rammirabil  sua  celeste  lira. 

Molle  dando  a ciascun  rotanti  spere  ; 
Come  rote  diverse , o molli  carri 
Si  danno  ad  un  signor  per  vari  effetti, 
De'  quali  il  porta  alcuno,  altri  il  riporta 
Per  contrario  sentiero , onde  partissi  ; 

E di  globi  volgenti  e rivolgenti,  [da. 
Qual  più  qual  meno,  il  lor  giudizio  abbon- 
ila tre  delle  portanti  e vaghe  spere 
Concede  prima  al  Sole  il  vecchio  Eudosso  : 
Tre  similmente  all'incostante  Luna  : 
Quattro  agli  altri  pianeti.  E di  que’  girl, 
Che  riportano  indietro,  un  meno  assegna 
FuorchcallaLuna,  acuì  nel  loco  estremo 
Uopo  non  è chi  la  riporti , o torni. 

Ma  due  poscia  Calippo  al  Sol  ne  aggiunse 
Delle  portanti  : e due  portanti  ancora 
Giunse  al  servigio  del  notturno  lume  ; 
Sicchè'n  tutto  cinquanta , olirà  le  cinque , 
Fur  numerate  dagli  antichi  ingegni. 
Tanti  carri  di  stelle , e d’ or  cosparsi , 


Tante  fervide  rote  e tanti  ordigni, 

Tanti  e si  vari  moti , e unti  girl 
Servono  alla  suprema  eterna  mole, 
Che’usè  medesma  si  raggira  c volge. 

E'I  gran  maestro  di  color  che  sanno. 
Quel  che’n  mille  sue  scole  Insegna  ’lmon- 
Segul  costoro,  allorché ’n  allo  intese,  [do, 
Forse  con  doppio  error,  che  I corpi  accreb- 
Molto  e molto  scemò  le  pure  menti,  [bc 
Ma  la  novella  età  vieppiù  conturba 
L’ ordì  ne  antico,  e spere  aggiunge  a spere, 
E moti  a moti  ; anzi  ’l  tremante  Cielo 
Primo  ci  finge,  e quasi  infermo  e stanco 
Mentre  eh'  egli  s'appressa , o fa  lontano. 

E ’n  questa  guisa  baldanzosa  ardisce 
Vincer  d’arte  e d’ ingegno  T secol  prisco. 
Volgendo  pure , e rivolgendo  intorno 
Ai  proprio  centro,  che  del  mondo  è centro, 

I vari  Cieli , a lor  giudicio  eterni. 

Altri  per  altra  via  seguirò  Ipparco, 

E Tolomeo,  eh' alle  stellanti  spere 
Faquasi  oltraggio,  e'nlordivisa,  o finge 

I moti  e i cerchi  assai  distorti  e strani  ; 
Mirabil  mostro!  e mentre  al  Sol  concede 
Tre  spere  erranti,  senza  dubbio  afferma 
die  quella , che  fra  l' altre  In  mezzogira. 
Non  fa  centro  del  mondo ’l  proprio  centro: 
L’ ultima  in  parte  ancor  distorceepiega. 
Afferma  ancor  clic,  mentre  T Sol  rotando 
Va  in  questa  guisa,  or  più  s’appressa  al 

centro 

Dell’  universo,  or  sen  fa  più  lontano,  [chio 
Nel  maggior  cerchio  ancora  un  picelo)  cer- 
va immaginando,  il  qual  si  muova  intorno 
Sovra  i poli  suo’  propri , e lasci ’1  centro 
Del  mondo  fuor  del  mezzo  : e’n  lui  ripone 

II  Sole,  ora’n  sublime  ed  altro  sito, 

Ora  ’n  più  basso  : ora  appressar  la  terra , 
Or  dilungarsi  : or  con  distorto  corso 
Lontra  gli  ordin  de'  Segni  andar  errando 
Ora  seguirlo.  E nell’istesso  modo 

Fa  ritrosa  la  Luna,  c'1  suo  bel  cerchio 
Finge  ineguale,  e non  ritondo  appieno, 

E la  figura  le  distorce,  e ’l  corso. 

Cosi  di  queste  due  discordi  sette , 

L’ una  ben  non  dimostra,  e non  ci  appaga  : 
L’altra,  mostrando,  è ingiuriosa  ed  empia 
Conira  i celesti  giri , a cui  la  forma, 

E ritonda  e perfetta  invidia  e toglie. 

ET  lor  semplice  moto,  onde  Natura 
Disdegnosa  sen  duole  c sen  richiama. 

E la  filosofia  seco  ripugna 

All'  apparenza , e con  ragioni  invitte 


LE  SETTE  GIORNATE 
l.c  ribellanti  scuole  In  terra  sparge. 

Ma  'I  senso  ancora  alla  ragione  amico 
Mostrarsi  può,  s’  altri  in  lontane  parti 
Peregrinando  agli  Etiopi  adusti , 

Giungerà  mai  nella  fervente  zona, 

Dov'è  ’l  cinto  maggior  che  fascia'l  mondo. 
Ivi , se'I  Sole  in  questo  picciol  cerchio 
Incgual  si  movesse , egual  non  fora 
Il  di  più  lungo  alla  piu  lunga  notte. 

E se  la  Luna  pur  nel  cerchio  impari 
E non  ritondo , si  girasse  attorno  ; 

Dopo  saria  mutar  talvolta  ’l  sito  [so. 

A quella  macchia  ond’é'l  suo  volto  asper- 
Dtinquepiit  non  presuma  ardito  ingegno, 
Incontra  ’l  vero,  Incontra  ’l  ciel  superbo, 
Finger  nuove  lassù  figure  c mostri. 

Ma  clic  ? ci  afferma  ancqr  l' eli  vetusta 
I.e  non  credute  meraviglie  antiche. 

E dc’suo'millc  e mille  e mille  lustri, 

E mille  e mille  il  favoloso  Egitto 
Par  che  si  vanti  : e ’n  più  moderne  carte 
Delle  menzogne  sue  famose  c conte 
La  già  vecchia  memoria  ancornonlangue. 
E si  ragiona  ancora , ancor  si  scrive 
Che,  nel  girar  de’ secoli  volanti. 

La  prima  sfera  si  rivolge  intorno. 

Non  dall’Orto  lucente  al  nero  Occaso, 

Ma  dal  Settentrione  al  Mezzogiorno  ; 

E quinci  dimostrar  (s’io  dritto  estimo) 
Come’l  veloce  Sol  più  e più  s’ affretti, 
Mentr’ci  declina  pur  dal  cerchio  obliquo, 
E gl’istessi  affermar  ( crescendo  ardire  ) 
Che’l  Sol  due  volte  dal  lucente  Occaso 
Nacque:  e due  volte  ancor  mori  nell’ Orlo, 
Portando  a noi  dall’ Occidente’! giorno, 

E lui  chiudendo  nell' avversa  parte, 

E ’l  mutar  di  quel  punto,  In  cui  fermarsi 
Ci  sembra  ’l  Sole , e far  più  lungo  ’l  corso  ; 
Che  Solstizio  chiamò  l’antica  Roma, 

Di  tanto  variar  cagione  esterna 
Forse  eredeano  ; e fu  dagli  altri  ascritto 
All'  alto  ingegno  degli  Egizi  industri, 

E mutatoli  Solstizio  ancor  si  narra, 
Perch’ei  fu  già  ne’  lucidi  Gemelli, 

Or  ò nel  Cancro.  E dunque  inslabil  punto 
Quel  clic  sembra  lassù  si  forte  affisso. 

Nò  costante  è del  del  l’ordine  e l'arte, 
Né  costanza  ò ne’  corpi , o sien  d’ immonda 
Rozza  materia , o di  più  scelta  e pura. 

E se  pur  questo  è vero,  ò vero  ancora 
Che  del  Settentrlon  l'eccelsa  parte 
Fia  nel  Meriggio  alQn  cangiata,  e volta , 
Equella  in  questa:  e’1  Sol,  che  gira  errando 


DEL  MONDO  CREATO.  I3T 

Perle  distorte  vie  d'obliquo  cerchio, 
Allor  farà  più  dritto  alto  viaggio 
Per  quella  fascia,  ond’  è partitoli  mondo. 
Tante  varietali , c si  discordi 
Vedrà , quando  che  sia , l' età  futura 
Negli  ordini  supremi  ; e pur  son  questo 
Del  Ciel  le  veci;  ov’  ò chi  ’i  crede,  e ’l  pensa? 
E di  ciò  la  cagion  s’ adorna  e Unge, 
Mutando  regni,  anzi  pur  regi  al  Cielo, 
Da  cui  l' un  fu  scaccialo , e l' alto  impero 
Già  prese  delle  Stelle  alto  monarca. 

E regnando  ’1  primier , che  fu  Saturno , 
Dalla  parte,  or  sinistra,  il  Ciel  si  mosse; 
Poscia  usurpando  Giove  alto  governo , 
Repente’!  volse  dal  contrario  lato, 

E mutando  del  Cielo  il  moto  e'I  giro , 
Tutte  insieme  cangiò  le  cose  a forza. 
Quaggiù  soggette  al  variar  de’  Cieli. 

Allor,  come  si  finge,  uom  curvo  e bianco , 
E nell'  ultima  età  vicino  a morte, 
Rivolsc'ndietroaglianniil  proprio  corso, 
E ritornò  verso  l’età  matura 
E già  perfetto  : c quinci  passo  passo 
Vago  giovili  divenne,  e poi  fanciullo, 

E con  tenere  membra  alfine  infante  : 

E dall’infanzia  giunse  al  fine  estremo 
Di  questa  vita,  c si  nascose  in  grembo, 
Pargoleggiando,  dell' antica  madre. 

Oh!  di  favole  antiche  ombroso  velo, 

Per  cui  traluce  l’incostanza  Incerta 
De'  corpi  tutti , e de’  supremi  ancora  ! 

A'  quali  ha  dato  Dio  perpetua  legge , 

E lunghissima  ancor,  ma  non  eterna. 
Però , quando  che  sia , riposo  avranno , 
Cessando ’l  lor  continuo  e certo  corso. 

E ben  di  ciò  vedransi  in  Cielo  i segni 
Anzi  ’l  gran  di  dell’ ultimo  spavento, 

In  cui  deve  cadere  accesa,  od  arsa 
Questa  del  mondo  ruinosa  mole. 

Allor  cedrassi ’l  Sol  converso  in  sangue  : 
Ed  altri  segni  spaventosi  e fieri 
Nel  volto  mostrerà  l’orrida  Luna. 

Però  disse , creando , ’1  Fabbro  eterno  : 
Sìan  i segni  ne'  tempi , e slan  ne'  giorni , 
Esian  negli  anni  ì segni.  E I segni  or  sono 
Pur  quasi  note  nella  Luna  impresse, 

E ’n  fronte  al  Sol  modesmo , ond’  ci  ci  mo- 
Ciò  che  fa  d’ uopo  alla  terrena  vita  [ stra 
De’  faticosi  e miseri  mortali. 

Spcsso’n  turbata  vista  annunzia ’l  ciclo 
Venti  e procelle  c tempestosa  pioggia. 

E l'arida  staglon  conosce  ancora 
L' uom  già  canuto,  e per  lung'  uso  esperto. 


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1J8  POEMI 

Ed  una  pur  di  tante  cose  insegna 
Quel  cli'è  vero  Signore  c vero  Mastro, 
Quand’  egli  disse  : Rosseggiando,  il  Ciclo 
Gii  si  contrista , onde  sari  tempesta. 

E questoavvien , quando  si  muove  ’l  Sole 
Per  entro  a fosca  e tenebrosa  nube 
Dell'  aer  denso  e 'mpuro , onde  traluce 
Quasi  per  colorato  e grosso  vetro  ; 

Però  sanguigno,  e quasi  involto  ci  sembra: 

0 quand'  intorno  al  Sol  si  gira  e volge , 
Gemino  Sole , o pur  tre  Soli  insieme 
Fan  di  sè  spaventosa  c fiera  mostra  : 
Siccome  vide  gii  l'antica  Roma , 

Ed  ora  a'  nostri  tempi  avvien  sovente 
Là  sotto  i sette  gelidi  Trioni. 

Talor  veggiamo  entro  l' oscure  nubi , 
Distese  in  lungo  variar  le  verghe , 

1 colori  dell'  Iri  ; c fiero  turbo  [ bo , 
Quinci  ancor  si  dimostra,  pioggia,  onem- 
Alnien  d’aria  mutata  indicio  aperto. 
L’istabil  Luna  ancor  a noi  predice 

Co!  vario  aspetto  ’l  variar  de’  tempi. 
Perchè  sottile  e pura  ’l  terzo  giorno 
Stabil  serenità  promette,  e segna  ; 

Mas’  ella  ’ngrossa  mai  l’ un  corno  e 1*  altro, 


SACRI. 

Quasi  vermiglia;  allor  altrui  minaccia 
Gran  pioggia,  e folla;  o pur  di  torbid’  Au- 
lì violento  impetuoso  assalto.  [stro 
Ma  i vari  segni  in  Cicl  vieppiù  distingue 
Ne’  regni  d’Aquilon,  canuto  e scaltro 
Per  lunga  esperienza’!  buon  nocchiero. 
E se  giammai  quella  che  ’1  Sol  circonda, 
Nubilosa  corona,  o l’aurcc  Stelle, 

In  sè  medesma  si  dilegua  c cade; 

Quasi  egualmente  al  suo  sparir  s’attende 
Un  placido  sereno,  e ’l  mar  tranquillo  : 
Ma  quando  ad  una  parte  ella  si  frange. 
Da  quella , onde  si  rompe  T bel  contesto 
Dell’  aerea  corona , attende  ’l  vento. 

Se  da  più  parli  ella  si  squarcia  e solve. 
Nascono  da  più  parti  i feri  spirti 
Quasi  repente,  e fan  contesa c guerra 
In  Ciclo  c'n  Mar,  eh’ è tempestoso  campo 
Delle  sonore  c torbide  procelle. 

Ma  questi  segni  fa  costanti  c tari 
L'alto  voler  di  Lui  che  muove  ’l  tutto. 

Cosi  gli  piaccia  a noi  pace  tranquilla 
Mostrar  dall’ allo  : c disgombrar  d' intorno 
Quel  die  sovrasta  minaccioso  e grave 
A questa  vita  procellosa  e 'licerla. 


GIORNATA  QUINTA. 

Nella  quale  furono  da  Dio  creali  i Pesci  e gli  Augelli. 


L' antico  abilator  d' estranea  parte , 
Che  tornar  pensa  alla  sua  patria  illustre, 
Dopo  varie  fortune,  e grave  esilio, 

E molti  in  faticosa,  e dura  vita 
Trascorsi  lustri , al  suo  fedele  albergo, 
Ed  al  cortese  albergator  si  mostra 
Grato,  ed  amico  anzi ’l  partir  estremo. 
Cosi  noi, che  bramiam  di  far  ritorno  [po. 
Al  del,  quando  che  sia,  tardi,  o per  tem- 
Da  questa  mcn  sublime  opaca  chiostra 
Della  terra,  c del  mar,  clic  ’nlorno  inonda, 
Da  cui  moli'  anni  I nutrimento  e ’l  cibo 
Si  caro  avemmo , e si  gradito  ostello  ; 
Dobbiate  gli  ultimi  offici  c i detti  e 1 doni 
Di  pictatc  e d'amnr;  dobbiamo  i pegni 
Di  non  oscura  e non  mortai  memoria 
A questa  nostra  si  pietosa  e cara 
Nudrlce antica,  che  fanciulli  in  grembo 
N'  accolse , e vecchi  ne  sostiene  c folce  : 
A questo  mar  che  ne  trasporta  e pasce  ; 

A questo , onde  spiriamo  aer  sereno. 
Dunque  narriam , come  la  sjnta  destra , 


Poiché  In  tal  guisa  ebbe  ciascuno  adorno. 
Di  vari  abitalor  frequenti  c lieti 
Facesse  tutti  alfin  nel  giorno  quinto; 
Sicché  non  vi  lasciò  spazio,  nè  clima 
Di  vasta  solitudine,  e dolente. 

Nè  di  perpetuo  orrore  incolto  ed  ermo. 

Avea  la  dotta  man  del  Mastro  eterno 
Di  bel  fiori  di  stelle  ’l  del  dipinto, 

E pur,  com’occhi  suoi  lucenti  c vaghi. 
Già  colla  Luna  in  lui  creato  ’l  Sole  ; 
Quand'egli  disse:  L'acqua  ornai  produca, 
E seco  l’aria  partorisca  insieme 
Ogni  vivo  animai  che  vola  c repe. 

E nel  suo  comandar  tutti  repente 
I fiumi  diventar  fecondi , e i laghi  : 

E i vaghi  armenti  e le  squammose  torme 
De’  propri  notatoti ’l  Mar  produsse  s 
E quanto  ancor  d'immondo  c di  palustre 
Limo  è ripieno,  e senza  corso,  o moto 
Ristagna,  ed  impaluda  in  pigro  letto,  [re, 
Sortl'l  proprioornamentoc'!  proprio  ono- 
E non  rimase  neghittoso,  o voto. 


LE  SETTE  GIORNATE 
Allorché  Dio  creò  di  nuovo  il  mondo; 
di'  immantinente  gracidar  nascendo 
Nello  stagnante  umor  rane  palustri. 

E si  fatti  animai  nasceano  insieme; 

In  guisa,  ad  eseguire '1  sommo  impero, 
Si  mostrar  Tacque  frettolose  e pronte, 

E tutti  quei , di  cui  potriansi  appena 
Le  varie  sorti  annoverar,  parlando, 
Subito  nati,  in  operosa  vita, 

E sé  movente, disegnerò  a prova 
Di  quel  clic  gli  creò  T alla  possanza. 
Che  narrar  non  si  può  con  lingua  umana. 
Ed  allor  prima  fu  creato,  e nacque 
Dotato  T animai  d'alma  e di  senso. 
Perchè  le  piante  e le  frondose  sterpi 
Degli  arbori , eli'  al  Ciel  spiegar  le  chiome. 
Bendi' abbian  vita, onde  si  nutre, e cresce 
Dall' umide  radici '1  verde  tronco. 
Animali  non  son , nè  ’n  cara  dote 
Ebber  dal  Padre  etcrno’l  senso  e l'alma. 
Onde  sentiamo,  si  diversi  obbietti  : 
Benché  vi  sia  chi  non  dineghi , e toglia 
Alle  scorze  selvagge,  ai  rozzi  tronchi 
Un  inchinarsi,  un  ripiegar  sé  stesso, 
lln  distender  i rami  in  cara  parte , 

UT  è quasi  un  moto  di  frondose  braccia 
Per  secreto  desio  d’amore  occulto. 

E nelle  piante  ancor  stupido  senso 
Conobbe  alcun  antico , o che  gli  parve. 
Ma  resti  pur  questa  sentenza  errante 
In  quel  silenzio , a lor  cotanto  amico. 
Come  si  sia,  creali  il  quinto  giorno 
Fur  gli  animanti,  a cui  non  lega,  e ’ndura 
Rozzo  e tardo  stupore  i pigri  sensi. 

E qualunque  animale,  o rcpe,  o guizza 
0 nel  sommo  dell'acque,  o pur  nel  fondo, 
Prodotto  fu  per  ubbidire  al  suono 
Della  divina  ed  immutabil  voce. 

Nè  (in  pochi  e brevi  detti)  alcun  rimase 
Escluso  dal  sovrano  eterno  impero. 

Non  quei,  che  T animai,  figliando  in  parto, 
Soglion  vivo  produr,  delfini  e focile  : 

Nè  meno  ’l  picciol  pesce,  onde  sovente 
La  man  del  pescatore  a fune  avvolta, 
Per  secreta  virtù  stupisce  e turpe  : 

Non  chi  T ova  produce , o chi  si  copre 
Dì  molle  squamata,  o di  più  dura  scorza  : 
Non  quel  eh’  hanno  le  penne , o pur  non 
Ma  tutti  tur  nelle  parole  accolti,  [l’hanno. 
E quasi  ìnclilusi  sotto  certa  legge , 

Del  lito  i vaghi  abilator  guizzanti. 

E quei  che  nel  profondo  ’1  mare  alberga  : 
Equei  ch'allusi  stanno  a'  duriacogli  : 


DEL  MONDO  CREATO.  139 

Equcicbevannoinsiemeinamplagreggia: 
E quelli  ancor  eli'  erran  dispersi  a nuoto  : 
E le  balene  smisurate  e Torcile, 

Co’  pesci  picciolissimi  e minuti  ; 

E se  fra  questi  ha  pur  chi 'I  molle  peso 
Del  corpo  sovra  i piè  sostiene  e porta, 
Son  di  natura  ambigua  e quasi  incerta  : 
E ’l  gemino  lor  vitto  In  terra  e ’n  onda 
Yan  ricercando,  non  contenti  appieno 
Di  semplic’esca,  od' un  sol  cibo  al  pasto. 
E son  fra  questi  le  stridenti  rane , [ge 
E I granelli  di  più  branche  ; a cui  s’aggiun- 
II  cocodriilo,  e '1  uotatnr  cavallo, 

Che  del  Nilo  trascorre  i largii!  campi 
Ed  ondeggianti  per  l'asciutto  rive. 

Perdi’  i piccioli,  i grandi,  i dubbj  e i certi, 
Sotto  ’l  decreto  d’ un  eguale  impero 
Esser  vario  sortirò , e varia  vita. 

Allorché  disse  Dio  : Producali  Tacque. 

E dimostrò  colla  mirabil  voce 
Quanto  la  vaga  ed  umida  natura 
Dell’instabil  umor  convenga  a'  pesci. 
Perocché  qual  è l'aria  a’  levi  augelli, 

0 pure  ail  animai  clic  spiri  iu  terra. 
Cotale  è T acqua  al  notator  marino , 

Ed  a qualunque  guizzi  in  fiume  c ’n  lago. 
E la  ragione  è manifesta  a'  sensi; 
Perchè  ’l  polmon  nella  sinistra  parte 
Fra  le  viscere  nostre  ha  ’l  proprio  sito 
Spongioso  e raro  e trasparente,  in  guisa 
Di  specchio,  o d' altro  clic  riceve  immago 
E la  ritorna  : c si  ristringe  ed  apre. 
Quasi  mantice , o folle  ; e ’l  rezzo  c T aura 
Spirando  e respirando,  accoglie  e rende  ; 
E ventilando,  è refrigerio  al  core. 

Clic  di  purpureo  sangue  è caldo  fonte. 

E coll’  istesso  spirto , onde  rinfresca 
L’interna  arsura,  anco  si  forma  e tinge 
In  vari  delti  la  sonora  voce. 

Ma  diè  Natura  alle  guizzanti  torme 
In  vece  di  polmon  le  curve  branche  : 

E mentre  le  distende  e le  raccoglie , 
Dentro  l’acqua  riceve,  o pur  la  sparge; 
E cosi  ’n  loro  ’l  proprio  officio  adempie, 
Ch'è  quasi  un  respirar  d’umore  c d’onda. 
Ma  pur  voce  non  manda  ’l  muto  pesce  : 
Nè  domestico  mai , nè  mansueto 
Diventa  : nè  sostiene  ’l  tatto  e i vezzi, 
Onde  palpa  e lusinga  umana  destra  ; 
Benché  U’  alcuni  pur  si  narri  e scriva , 
Ch'ban  per  propria  natura  c proprlasortc. 
Olirà  T uso  comun , sonoro  spirto  : 

Altri  suono  non  pur,  ma  voce  ancora  : 


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POEMI  SACRI. 


HO 

AUri  quasi  parole , In  cui  distingue 
Non  ben  loquace  lingua  ì propri  altetti. 
perche  non  basta  al  suon  lo  spirto  interno, 
Ond’  ci  si  forma , e '1  suo  spongioso  e raro 
Polmone,  c la  sua  vola  umida  canna, 
Fistola  detta;  ma  la  voce  appresso 
Sol  nella  gola  si  figura  e fìnge. 

Alle  parole  ancor  la  lingua  c i denti 
Son  d’uopo;  onde  non  parla,  e non  informa 
Gli  accenti  suol  quel  clic  di  lingua  è privo. 
Ma  ’l  suon  nell'  altre  parti  ancor  si  frange  ; 
Come  nel  cinto  clic  traversa  e fascia 
Le  vespi  e l’ api,  si  percuote  e rompe 
L' interno  spirto;  e quinci  s’ode  un  roco 
Mormorar,  che  per  l' aria  ’nlorno  aggira. 
Altri  rompendo  nell’istessa  fascia. 

Che  cìnge  ’l  corpo  suo,  lo  spirto  interno. 
Canta  battendo  l’ale  : e 1 verdi  boschi 
Suonano  ’ntorno  a quei  sonori  accenti 
Della  cicala  a’  lunghi  estivi  giorni. 

Ma  fra’  pesci  nel  mare,  o’n  fiume,  o’n  lago 
Alcun  non  manda  fuori  o voce  o suono, 
Che  sia  molle , o di  crosta  almen  coperto. 
Altri  con  vario  suon  garrisce  e stride, 
Talché  del  suo  stridor  risuona  intorno 
L'onda  sovente,  e dal  concento  II  nome 
Prese  quel  pesce  in  mar,  clic  detto  é lira. 
Stride  ’l  pettine  ancora,  e stride  a prova 
La  rondine  marina  : e questo  e quella 
Stridendo  vola,  est  solleva  in  alto  [tocca. 
Con  lunghe  e larghe  penne , e'i  mar  non 
Ma  nel  fiume  Acheloo  non  solo  stride, 
Ma  voce’l  suo  cinghiale  aversi  crede. 

E ’l  cucco  notatore  ha  voce  aneli’  egli , 
Onde  al  cucco  volante  è quasi  eguale; 
Ma  non  é vera  voce , e voce  assembra 
L’interno  spirto,  die  si  frega  e frange 
In  quell’ orride  branche,  ond'  ei  risuona. 

Ma  sue  parole  quasi , e sua  favella 
Tra  l' acqua  c ’l  limo  ha  la  loquace  rana , 
Delle  paludi  abitatrice  immonda,  [gua, 
E quest’  awien  , perché  ha  polmone  e lin- 
Di  cui  compiuta  é l’ una  e l' altra  parte  : 
La  prima  al  modo  pur  degli  altri  pesci  : 
E l'altra  ancor,  che  manda’l  roco  suono. 
Al  gorgozzuol  s’attacca  c sì  congiunge. 
Ed  ulular  le  rane , c gli  altri  ancora 
Sotto  Tacque  s’udir  pesci  lascivi. 

E P ululare  é un  amoroso  invito, 

Onde’l  cupido  maschio  alletta,  o chiama 
La  femmina  consorte  a dolci  nozze. 

Ma  ’1  veloce  delfino  ha  voce  c suono, 
Pcrch'ei  non  é senza  polmone  e sangue; 


| Ma  non  halingua.ond’ei  fortnle  distìngua 
| Quel  suon  ches’odc mormorar sull'acqiie. 

I Ma  ronfar  gii  dormendo  ancora  uditi , 

Il  dormir  son  veduti  umidi  pesci  : 

I E quei  clic  dura  crosta  involse  e copre 
Poiché  non  abbian  Tumide  palpebre. 

Le  quai,  chinate  nel  soave  sonno, 
liicnpron  gli  occhi  a’  notalori  stanchi. 

Ma  dal  placido  lor  queto  riposo , 
in  cui  sol  mossa  è la  guizzante  coda, 
L’accorto  pescator  conosce  ’l  sonno. 

Né  gli  trafigge  sol  col  suo  tridente 
Ma  colla  cauta  nian  gli  palpa  e prende. 
E spesso  preda  fa  di  quei  eh'  adissi 
Sano  agli  scogli,  o nell’ arene  avvolti, 

0 sotto  un  sasso , o sotto  ’l  curvo  lido 
Dormono  ascosamente,  o ’n  imo  gorgo. 
In  questa  guisa  é col  pungente  ferro 
Presa  l’ orata  : e ’l  lupo  ancor  percosso 
Si  desta  appena,  in  cosi  fisso  ed  alto 
Sopore  é immerso  : e ’l  fin  del  suo  riposo 
E col  principio  dì  sua  morte  aggiunto: 
Anzi  dal  breve  nel  perpetuo  sonno 
Desto  ei  trapassa , e se  n’  avvede  appena. 

Ma  ’l  veloce  dclfin , la  grande  e vasta 
Ralena,  mentre  dorme  in  mezzo  all' onde. 
Fuordal  sommo  dell'acque  innalzae  spar- 
La  sua  fistola  cava , ond'  ella  spira  : [ ge 
E leggiermente  le  sue  penne  intanto 
Agita  c move.  E nell' ombrosa  notte,  [sci 
Vicppiùche’n  altro  tempo, il  sonnoa’pe- 
S’ irriga  ; e pure  in  sul  meriggio  estivo , 
Allorché  pasce  i favolosi  armenti 
Proteo  nelle  marine  ampie  spelonche, 
Come  creduto  fu , le  plstri  c l’ orche , 

A cui  fa  l'alga  immonda  un  pigro  letto. 
Dormono ilunghi  giorni  : e dorme appres- 
L’indovinopastor,trevolteequattro  [ so 
Gii  numerate  le  squammose  gregge. 

Ma  le  favole  antiche  in  altra  parte  [que 
Han  più  opportuno  loco,  lo  taccio  adun- 
Di  Proteo  e d’Arion  , che  tratto  a riva 
Dal  veloce  delfin , campò  da  morte  : 

E laccio  ancora  i mal  creduti  amori 
Del  pio  delfino,  c del  fanciullo  estinto  , 
Per  cui  si  dolse  T suo  marino  amante  : 
E vinto  aifin  dal  suo  dolore  Insano 
Mori  gemendo  ’n  sull’  asciutta  arena. 
Ma  se  di  ciò  si  nega  a prisca  fama 
Credenza  alcuna,  almen  dì  fede  indegna 
Non  sia  l’antica  istoria,  in  cui  si  legge 
Che  la  natura  ancor  piotate  insegna. 
Quasi  maestra  a’  pesci , e quasi  madre. 


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LE  SETTE  GIORNATE  DEL  MONDO  CREATO. 


Quinci  al  curro  dclfin  le  gonfie  mamme 
Diede»  perch*  ei  nudrisca  i cari  figli; 
Anzi  ei  di  nuoto  ancor  nel  curvo  ventre 
Raccoglie  i pargoletti , e si  rientra 
Ond'  usci  prima  il  non  cresciuto  parto , 
Quand’è  più  tempestoso  il  mar  sonante. 
Cresciuto  poi  fra  le  procelle , e i nembi , 
Sicuro  apprende  ’1  gir  per  Tonde  a nuoto. 
Senza  temer  flutto  spumoso,  o turbo  : 
Arte  paterna  : e pur  col  padre  appare 
Qual  fida  aita  a’  naviganti  audaci; 

Ond’  antivede  ’l  buon  nocchiere  accorto 
L’orrida  guerra  de’  contrari  venti 
E drizza  al  porto  l’agitata  prora. 

Ma  qual  canuto  pescatore,  e lasso, 
Ch’appo  le  rive  del  Tirreno  invecchi, 

0 del  mar  d’Adria,  o deli’  Egeo  sonoro , 

0 lungo  ’i  Caspio,  o lungo’l  ponto  Lussino, 
0 ’o  su’  lidi  vermigli,  o dove  inonda 
Il  gran  padre  Occan  Germani  e Franchi, 
Scoti  e Britanni,  od  Etiopi  ed  Indi  ; 

Qual,  dico,  abbia  ivi  l’età  sua  fornita 
Nell’ infeconde  c solitarie  arene, 

E ’ntomo  a’  cavernosi  e duri  scogli , 

Or  l’amo  ed  or  le  reti  in  mar  gettando, 
Narrar  potria  degli  umidi  notanti 
Le  tante  sorti,  in  cui  distinta  e scevra 
È lor  natura  e la  progenie  antica, 

E ben  mille  maniere  e mille  modi 
Di  varia  vita,  e di  costumi  e d’opre 
Pur  variate,  e lor  diverse  parli? 

Perch’ altri  ne  conosce  ’l  mar  d’Egitto, 
E l’Eritreo,  che  fa  Tonde  sanguigne: 
Altri  l’Ircano,  c quel  d’Assiri  e Persi  : 
Altri  quello  in  cui  lava  1 piedi  Atlante: 

E quello  in  cui  biancheggia  Indo  ed  Idaspe, 
Che  sono  al  nostro  mare  in  tutto  estrani , 
Od  in  gran  parte  peregrini  ignoti  : 
Quanti  ancor  ne  produce  in  grembo  e pasce 
L’ Ocean  sotto  T Orse , e sotto  ’l  cielo , 

Jn  cui  più  non  appare  ’l  Carro  e l’Orsa, 
Che  qui  saria  quasi  mirabil  mostro  ? 

Ma  pur  da  prima  gli  produsse  in  vita 
Tutti  egualmente  la  divina  voce: 

E ’n  sì  varie  maniere  anco  distinse. 

E quinci  avvien  ch’altri  nel  primo  parto 
Manda  fuor  T ovo  : e noi  riscalda , e cova. 
D’augello  in  guisa;  e non  si  forma ’l  nido, 
Nè  con  molta  fatica  i figli  ei  nutre  ; 

Ma  l’acqua  ’l  peso  in  sè  caduto  accoglie , 
E ’l  fa  vivo  animai , che  guizza  e nuota. 
Altri  produce  l’animai  da  prima. 

Nè  come  ’n  terra’l  mulo,  o pur  nell*  aria 


Sogiion  molti  meschiar  l’ incerta  prole 
Lascivi  augelli  ; ma  progenie  immista 
Si  perpetua  fra  lor  sempre  feconda 
Con  legittime  nozze;  chè  natura 
Ha  certe  leggi , ond’  i consorti  accoppia. 

E se  pur  mesce  la  murena  al  fiero 
Maschio  serpente,  l’un  depone  ’l  tosco. 
L’altra  noi  fugge,  o’I  suo  marito  abborro. 
Nulla  sorte  di  pesci  ha  d’ una  parte 
La  bocca  armata  degli  acuti  denti , 

Dall’  altra  affatto  inerme , c quasi  ignuda , 
Come  ha  fra  noi  la  pecorella  e *1  bue , 

E ni  un  pesce  ancor , come  si  narra , 

Suol  ruminare  ornai  sazio  del  pasto. 

Se  lo  scaro  ne  traggi  : c tutti  a prova 
Hanno  in  guisa  di  sega  i bianchi  denti 
In  due  fila  ristretti  : e quinci  e quindi 
Vario  c distinto  è il  cibo.  Altri  di  fango 
Si  pasce  e nutre  : altri  di  funghi  ed’ alga: 
Altri  d’erbe  marine , ovver  palustri, 

0 di  quelle  ond’  i fiumi  han  verde  ’l  fondo  : 
Ed  altri  corre  frettoloso  all*  esca , 

Che  suol  gettar  nell’ acque  umana  destra, 
E pur  di  cibo  uman  vago  si  mostra  : 

Altri  ’i  pesce  minor  nell’amo  ingoia. 

La  maggior  parte  pur  de’  pesci  ingordi 
Scambievolmente  si  divora  e strugge, 

E del  maggior  sempre  ’l  minore  è pasto. 

E spesso  avv  ien  che  nell’  istcsso  modo 
Quel  che  pur  dianzi  del  minor  satolla 
Fece  l’avida  fame,  or  fugga  invano 
11  suo  maggior , che  lo  persegue  c caccia  : 

E dal  gran  predator  sia  preso  alfine , 

Ed  empia  T uno  e T altro  ’l  ventre  istesso. 

E questo  ancor  fra  noi  più  spesso  incon- 
tra : 

Perchè ’l  possente  a cui  fu  dato  in  sorte 
Sovra  umil  plebe ’l  grave  imperio  c’ngiu- 
Pasce  de’  più  minuti  avido  ’l  sangue , [sto, 
E di  qualunque  gli  è soggetto  e servo. 
E’n  che  diverso  è un  fiero  ingordo  petto, 
Ch*  avara  fame  di  ricchezze  c d’oro 
Stimola  sempre,  c’nsazlabil  rende, 

Dal  gran  mostro  del  mar,  che  mille  e mille 
Via  men  forti  di  lui  persegue,  ed  empie 
Di  lor  la  sua  profonda  alta  vorago? 

Già  colui , fatto  ingiurioso  ed  empio , 
Delpovcrel  vicino  i beni  ingombra; 

E tu  dì  lui , rapito  e preso  a forza , 
Godi  le  prede  e le  rapine  antiche 
Con  tirannico  dente , e rodi  e struggi 
E quasi  parto  a tue  ricchezze  aggiungi 
Quel,  che  ’n  moli’  anni  egli  usurpò  rapace  ; 


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H2  POEMI  SACRI. 


E'n  guisa  lai  più  dell' araro  araro , 

E dell’ ingiusto  più  n'apparl  ingiusto. 
Guarda  clic  non  t' attenda  '1  fine  islesso , 
Nel  quale  incappa,  csèmedesmo avvolge. 
Mentre  gli  altri  persegue,  il  pesce  incauto; 
Iodico  amo  pungente , o nascia , o rete. 
Non  fuggirai,  non  fuggirai , superbo, 
Dopo  tanti,  altrui  fatti,  iniqui  oltraggi, 
L’ultima  pena,  che  sovrasta,  e tarda, 

E qual  sasso  pendente  aitili  minaccia. 

Ord'un  minuto  animalctto  c vile 
Riconosci  l’insidie , e 1 falsi  inganni , 

E fuggi  ornai  di  frodi  indegno  esempio. 

Il  granchio  la  soave  c dolce  carne 
Brama  della  marina  e nobil  conca  : 
Diffidi  preda , e preziosa  c cara  ; 

Perdi’ a tenero  cibo  un  duro  vallo 
Fece  natura,  e circondollo  intorno. 

E perchè  ’n  guisa  si  congiunge  e serra 
L’una  coll’altra  forte  e salda  testa. 

Che  non  viponno  entrar  Torride  branche 
Che  fa  dunqu'egli?  quando  in  mar  tran- 
Solto  'I  sereno  cielo  al  chiaro  giorno[quillo 
De'  dolci  raggi , e del  soave  aspetto 
Gode  la  conca , e si  dispiega  e spande  ; 
Allor,  quasi  di  furto  egli  nascoso. 

Un  picciol  sasso  entro  vi  getta  : c vieta 
Ch’ella  più  si  ricopra  e si  rinchiuda: 

E ’n  questa  guisa  della  debil  forza 
Può  adempire  I difetti  astuto  Ingegno. 

Oh  di  malizia , e d' uomo  iniquo  c scaltro , 
Ma  pur  ili  rozza  e d'infeconda  lingua 
Maligno  magistero,  c muta  Tramici 
Tu,  se  brami  imitar  P industria  e l'arte, 
Nell'  acquistar , de'  tuoi  vicini  ’l  danno 
Schiva,  c non  fare  a' tuoi  fratelli  oltraggio, 
Fuggi  de’  condannati  ’l  vile  esempio: 

E di  povero  aver  contento  c lieto , 

La  povertà , eli’ a sè  medesima  basti, 

A’  diletti  molesti , a’  servi  onori 
L'mil  preponi  all’ alterezza , al  fasto  : 

E di  te  stesso  in  te  trionfa  c regna  ; 

Chè  non  han  regno  eguale  o Sciti , od  Indi. 

Nè  ilei  polipo  indietro  i furti  lo  lascio , 

E I falsi  inganni  ; chè  se  mai  s'appiglia 
A qualunque  si  sia  marina  pietra. 

Egli  repente  si  dipinge  e veste 
De’  colori  di  quella,  e lei  rassembra. 

Però  se  ’l  pesce , che  trascorre  a nuoto , 

Da' sembianti  ingannato  in  lui  s' avviene, 
Pur  duro  sasso ’l  crede  in  mare  occulto  ; 

E di  leggiero  è sua  rapina  e cibo. 

Di  tal  costumi  i lusinghieri  accorti 


Sun  ne’  palagi  de'  possenti  Augusti , 

0 de*  regi  sublimi  : e ’n  questa  guisa 
S'inchinan  pronti  ad  onorar  T altezza 
Della  fortuna  ; e trasmutar  sè  stessi 
Sogliono  in  color  mille , e ’n  mille  forme 
Siccomel'uso,  o ’l  tempo,  o come  chiede. 
La  voglia  del  signore , o’i  suo  diletto , 
Variando  tcnor , sembianti  e vesti , 
Parole  e modi  : e co'  modesti  insieme 
Sono  modesti  : e sospirosi  in  atto 
Co’  più  dolenti;  e con  gli  allegri,  allegri: 
Protervi  co’  protervi  : c legge  c norma 
Si  fanno  d'altrui  senno,  ed' altrui  gusto. 
Talché  agcvol  non  sembra , o leve  cura 
Schivar  i’  insidioso  e duro  incontro 
Di  questi  in  guisa,  die  si  cessi  ’l  danno, 
Clic  T empietà  sotto  ’l  contrario  aspetto 
Della  pietà  suole  apportar  sovente. 

Di  tal  costumi  ancor  rapaci  lupi 
Soglion  vestir  di  mansueto  agnello 
Candido  manto , e semplicetti  in  vista 
Altrui  mostrarsi.  Fuggi,  ali!  fuggi,  amico. 
Il  costume  si  doppio  e si  perverso. 

Segui  la  verità.  Gradisci , ed  ama 
li  sincero  condor  d'alma  innocente, 

E la  non  violata  e pura  fede,  [avvenne 
Vario  è’I  serpente  e l'angue,  e quinci 
Clic  ’l  condannò  sentenza  antica  e giusta 
A trar  per  terra  steso  ’l  proprio  corpo. 
Sincero  è il  giusto,  e nulla  mente,  o finge. 
Come  Giacob , però  l' accoglie  e loca 
L'alto  Signorc'n  sua  magione  eterna. 

Ma  questo  cosi  vario  e’ncerto  albergo, 
Ov'abltiam,  vivendo,  è T ampio  mare, 

E grande  e vasto,  in  cui  serpenti  e draghi, 
S' aggirati  senza  fine,  e (ieri  mostri  : 

E’n  lui  co'  grandi  soli  confusi  e misti 
I piccioli  animali  : e tutti  insieme 
Saggio  governo  c giusta  legge  afTrena 
I popoli  natanti.  Ed  tiai  ben  onde 
Seguir  d' alcun  tu  possa  ’l  raro  esempio  ; 
Non  accusarlo  sol , se  vizio , o colpa 
Di  natura  imperfetta  in  lor  conosci. 

E prima , tu  non  pensi , c non  rimiri 
Come  sian  compartiti  a'  vaghi  pesci 
I propri  luoghi,  e quasi  i propri  alberghi, 

I propri  regni,  onde  da  quello  a questo 
Non  soglion  trapassar,  se  non  di  rado , 

Gii  altrui  campi  usurpando,  e’I  leltoe'lci- 
Ma  tra'  confini  suoi  quasi  ristretto  [bo? 
Ciascun  si  spazia  entro  ’l  sortilo  regno. 

Nè  geometra  i lunghi  spazj  ed  ampi 
Divise  lor  : nè  d' alte  mura  intorno 


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143 


LE  SETTE  GIORNATE 
Circondò  le  magioni  umide,  algenti. 

Nè  termine  vi  pose  : e d’ ogni  parte 
Quel  che  lor  giova,  è largamente  aperto , 
E quasi  destinato  in  propria  sorte  : 
Questo  sen  questi  pesci  accoglie  e nutre  : 
L'altro  pasce  quegli  altri:  e colle,  o monte. 
Coll'  aspre  rupi  c con  distesi  gioghi , 

Non  gli  disparte , e non  recide  ’l  passo. 

Ma  certa  legge  di  natura  a tulli 
Divìde  con  misura  eguale  c giusta 
(Come  è prò  di  ciascun)  l’ albergo  e M loco  ; 
Ove  con  gli  altri  si  raduni  e pasca, 

E quel , che  basti  in  un  sol  giorno  al  vitto. 

Già  tali  non  siam  noi,  del  padre  Adamo 
Contaminata  prole,  e'n  Dio  superba  ; 
Perchè  noi  trasportiam  de’  padri  antichi 

I termini  già  affissi , ed  ampio  acquisto 
Faccialo  pur  sempre  d’occupata  terra. 
Casa  a raso  aggiungendo,  e campo  a cam- 
Città  spesso  a ci  (tate,  c regno  a regno,  [po, 
Ch* a’ vicini  si  scema,  e toglie  a forza. 
Conobl*  prima  le  balene  e Torcile 

II  loco  che  natura  a lor  prescrisse  , 

E’I  preparato  pasto,  e'I  mar  prorondo 
D’ isole  desolate  olirà  I paesi 
Abitati  occupar , dove  non  resta 

D’ alcuna  parte  più  la  stabil  terra  : 

Dove  più  non  appare  o lido,  o monte: 
Dov’arar  non  si  ponno  I vasti  campi 
D’innavigabil  mare  ; ove  non  giunse. 
Spiando  nuove  genti  e nuovi  regni , 

E nuova  gloria , il  navigante  audace  : 

Ove  non  prisca  istoria,  o vecchia  fama, 
Non  ardir,  non  pensiero  umano  ed  alto 
Del  folle  immaginar,  la  nave  approda. 

Ma  quel  medesimi,  ignoto  immenso  mare 
Ingombrar  le  balene,  eguali  a’ monti. 
Come  si  narra  da  nocchieri  esperti  : 

Nè  d’isola,  o citiate  oltraggio,  o danno 
Da  lor  riceve , o la  nemica  forza 
Provano  unquanco  ingiuriosa  e’n  festa. 
Ma  qualunque  di  lor  maniera  e sorte. 
Quasi  in  città , quasi  in  contrada  amica , 
Anzi  paterna  , con  antiche  leggi 
Nelle  parti  del  mare  , ove  sortilla 
Voler  divino  e sua  natura , accampa. 

Peregrinando  ancor  sen  vanno  i pesci  : 
F della  patria  In  volontario  esilio 
Son  rilegati  in  parte  ignota  e strana. 

E si  partono  insieme  accolti  a stuolo , 
E’n  guisa  di  guerrier,  ch’ai  dato  segno 
Lasci. in  le  proprie  tende  c’I  proprio cam- 
Seguendo’l  suon  della  canora  tromba;  [po, 


DEL  MONDO  CREATO. 

Allorché ’l  tempo  destinato  appressa. 
Desti  dalla  possente  antica  legge 
Della  natura,  e frettolosi  e pronti 
Verso *1  Settentrione  han  volto  ’l  corso. 

E gli  vedresti  di  torrenti  in  guisa 
Correr  dalla  Propontide  congiunti 
Nel  mar  Eussino.  Or  chi  li  muove  e regge? 
Qual  imperio  di  rege?  o qual  d’araldo 
Al  suon  di  trombe  pubblicato  editto 
R già  prefisso  tempo  a lor  dimostra? 

Chi  guida  1 peregrini  ? Or  non  conosci 
L’ordine  otcrno  clic  penetra  e passa 
Per  le  minute  parti,  e tutto  adempie? 

Non  fa  contesa  alla  divina  legge 
Ubbidiente  ’l  pesce;  c a lei  contrasta 
L’uomo,  indarno  ritroso  e ribellante. 
Perchè  Ha  mulo,  non  avere  a scherno 
Il  privo  di  ragion  ; che  vieppiù  folle 
Se’ tu,  mentre  ripugni  all’alto  impero 
Del  Re  celeste.  Odi  la  voce , ascolta 
Del  muto  pesce  le  parole  e i detti  ; 
Perchè  ci  parla  quasi  M moto  e P opre , 
Onde  a peregrinar  t’ invita  e desta  , 

Ed  a lasciar  torbido  flutto  amaro. 
Cercando  in  altra  parte  acque  più  dolci 
Ne*  regni  d’ Aquilone,  ove  riscalda 
Meri  co’ suo’  raggi  ’l  Sole,  c meno  attragge 
Delle  sue  parti  più  leggiere  in  alto. 

Nè  l’avaro  desio  di  merci , o d’auro , 

Lor  muove  a trapassare  i mari , e i fiumi , 
Come  gli  uomini  suol,  ma  sol  d’immista 
E legittima  prole  amore  e zelo. 

Ma  ricerrhiam  perdi’  I giganti  alteri 
Più  la  natura  non  produce , e figlia 
La  terra  pregna  deU'orribit  parto: 

Ma  di  elefanti  ancora , e di  balene 
Non  si  ri  pente.  E se  fatture  ed  opre, 
Son  pur  della  divina  eterna  destra, 

Son  buone , e buone  fur  da  lei  prodotte , 
Che  le  produsse  grandi , a’  monti  alpestri. 
Ed  all'  isole  eguali  : e’I  nostro  orgoglio 
Volle  abbassare,  e darne  alto  spavento 
Con  quel  sì  mostruoso  e fiero  aspetto, 

E colla  smisurata  orribil  mole. 

Perocché  Dio,  quando  creò  primiero 
Tanti  animali , e sì  distinti  e vari 
E d’ opere  e di  moto  c di  sembiante; 

Altri  a servirne  gli  produsse  in  terra 
Per  uso  umano , ubbidienti  al  nostro 
Placido  impero,  e talor  grave  ed  aspro. 
Per  sua  grandezza , e per  sua  gloria  ancora 
Alcuni  altri  produsse:  e'n  lor  dimostra 
Quella , che  fa  gran  cose , arte  divina , 


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144  POEMI 

E divina  virtù , che  presso  e lunge , 

Più,  e men  chiaramente  altrui  risplendc. 
Ma  degl'  industri  Greci  il  folle  ingegno 
Le  meraviglie  del  Signore  eterno 
Rivolse  ’n  giuoco , ed  adombrarle  in  parte 
Volle  con  varie  sue  menzogne  adorne  ; 
Mentre  descrisse  olirà  le  mete  c i segni 
D' Alcide  Invitto  1 favolosi  regni 
Di  <|ue’  felici,  e le  giù  illustri  e conte 
Isole  fortunate , e '1  lungo  corso 
Di  temeraria  nave  : c ci  dipinse 
Lo  smisurato  pesce , e'I  vasto  grembo, 
Che  popoli  diversi  in  sè  rinchiude; 
Talché  'I  profondo  c tenebroso  ventre 
Alle  genti  nemiche,  all'arme  infeste 
É di  battaglia  un  periglioso  campo. 

Ma  le  navi  da'  pesci  in  mar  sommerse, 
Anzi  da  un  pesce  solo  il  fero  assalto 
Fatto  a mille  superbe  armate  navi , 

Favola  non  fu  giù , nò  scherzo  o giuoco. 
Ni  favola  è quel  Giona  in  mar  sommerso, 
Ed  inghiottito  dal  vorace  mostro. 

Ma  dell’alto  Signor  l'alta  possanza 
Nelle  picciolc  cose  altrui  si  scopre  , 

Non  sol  nelle  più  grandi.  Ecco  trascorre 
A vele  piene  c sparse  il  mar  sonante 
Con  destro  vento  corredata  nave  : 

E pesce  minutissimo  repente 
Tarda  e ritiene  T suo  veloce  corso. 

Come  s’ ella  radici  in  mar  profondo 
Atcss e fatte  : e quinci  al  pesce  il  nome 
Dal  ritardar  fu  dato.  E gran  temenza 
Non  solo  danno  altrui  balene  ed  orche, 
0 la  seca  marina , acuta  i denti , 

0 'I  cane,  o quella  pur,  che  spada  assembra; 
Ma  tal  pesce  ì nel  mar,  ch'ai  line  estinto 
È paventoso  ancora , e'n  guisa  punge, 
Che  presto  apporta  inevitabil  morte. 

E la  picciola  ancor  marina  lepre 
Repente  ancidc:  epurse agguagli '1  danno 
In  paragon  col  prò , l' utile  avanza  : 

E ci  giova  de'  pesci  ancor  l' esempio. 

Ma  se  te  stesso  ben  misuri  e stimi, 
Uom,  tu  sei  pesce , c questa  vita  (Il  mare  : 
Ed  alla  rete , che  si  lancia  in  alto , 

E tanti  vari  pesci  in  sè  raccoglie, 

È somigliante  '1  gran  regno  del  Cielo , 

Che  nc'  suo'  lacci  ne  raguna  c strìnge, 

E poi  gli  eletti  nc'  suo'  vasi  accoglie , 

Gli  altri  fuor  getta,  e ” distingue  c parte. 
Cosi  avverrù  nel  co'  .umar  del  mondo, 
Clic  gli  Angeli  uscirai!,  santi  ministri 
Del  Giudido  divino:  e fian divisi 


SACRI. 

I  re!  da' giusti,  e quei  dannati  al  foco, 
Questi  alla  gloria  destinati  in  Ciclo. 

Vi  son  dunque  de’  pesci  e buoni  e rei  : 

E 'I  buon  la  rete  non  involvc  e lega , 

Ma  'I  leva  in  alto , c l’ amo  non  l’ ancidc  ; 

Ma  d’ innocente  'I  bagna  c puro  sangue 
Di  piaga  preziosa.  Uom,  tu  se'  pesce; 

Tu  se'  quel  pesce,  a cui  l'aperta  bocca 
Dimostrò  la  staterà  entro  nascosa. 

E '1  libero  voler  che  ’n  te  riserbi, 

Son  le  bilance  tue  distorte,  o pari. 

Uom,  tu  se’  pesce  ; e '1  pescatore  è Pietro, 
0 chi  di  Pietro  ha  qui  sembianza  c vece. 
Questo  mare  è il  Vangelo,  in  cui  si  fonda 
La  Chiesa,  eli'  è di  Dio  sacrato  albergo. 
Non  temer,  o buon  pesce,  o rete,  od  amo. 
Clic  non  ancidc  altrui , ma  sol  consacra. 
Se  pesce  sei , fuor  delle  torbid’  onde 
Sorgi  sublime,  c 'I  tempestoso  flutto 
Non  ti  sommerga  : e s'  è tempesta  in  alto. 
Nuota  sicuro,  e ti  ricovra  al  fondo  : 

E s’ è tranquillo  'I  mar,  fra  l' onde  scherza  : 
E s'è  procella  pur  sonora, c turbo. 
Guarda  clic  'I  nrmbo  Impetuoso  e denso 
Non  li  percuota  fra  gli  scogli  al  lito. 

Ma  sorgi,  ornai  sorgi  dal  mar  profondo, 
E 'I  nostro  ragionar  dall'ondc  emerga. 
Miriamo  in  alto,  alziamo  al  Ciclo  i lumi  : 
Veggiam  mirabilmente  'I  lito  adorno  : 

II  sai  tratto  dall'  onde  in  bianco  marmo 
Quasi  indurarsi  : e qual  purpurea  pietra 
Rosseggiar  sotto  'I  ciclo  il  bel  corallo, 
Clic  dentr'al  mar  fu  molle  e tener' erba  : 
E tra  le  conche  biancheggiar  lucente 
La  dura  perla , c tra  l'incolte  arene 
Fiammeggiar  l'oro  : e quasi  care  gemme 
Di  piu  colori  le  dipinte  pietre. 

Nutrito  ancor  nell'  acque  è l'aureo  vello: 
Ed  ha  l’onda  i suo'  fior  che  sparge  c porta 
Sovra  le  sponde  : e quindi  'I  lucid'  ostro 
Anco  risplende  : e ciò  ch’i  duci  invitti 

III  lieta  pompa  trionfale  adorna  : 

Ciò  clic  s'adora  nc'  possenti  regi , 

0 nc’  purpurei  padri  oggi  s’onora, 

É bellezza  e tesoro  c cara  merce 
Del  Marc,  anzi  del  Mar  cortese  dono. 
Mill'allrc  aggiungi  ancor  bellezze  e feste, 
E marittime  vaghe  altere  pompe. 

Spira 'I  vento  soave,  e placid'  aura 

Con  dolce  mormorar  susurra  c vaga, 

E 'nerespa  l' onda  ; che  spumoso  argento 
Pur  tra  li  scogli,  o presso  al  curvo  lido 
Somiglia , e spesso  a’  lucidi  zaffiri 


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LE  SETTE  GIORNATE 
L'acqua  profonda,  cd  a'  soavi  raggi 
Del  Sol  si  Unge  di  piropi  in  guisa. 

Le  vele  sparse  ventilar  lontano 
Veggonsibianchcggiandoa  cento,  amllle, 
E ’n  corso  superar  cavalli  e carri. 

E spiegar  le  famose  Insegne  antiche 
Dipinte  navi , c co'  pungenti  rostri 
Fender  )'  umili  vie  : guizzare  intorno 
GII  umidi  pesci  : e dimostrar  sovente 
Il  veloce  delfino  'I  curvo  tergo. 

E lieti  rimbombare  a suon  di  tromba 
Le  sponde  e Tacque,  e gli  arsenali  el  porti 
Pieni  di  navi,  e d'altri  In  varie  forme 
Contesti  legni  : e bella  antica  mole 
Far  ampia  strada  a’  cavalieri  illustri, 

E frenar  di  Nettun  l'ira  e l'orgoglio. 

E i premj  ancora,  e l'onorale  palme 
De’ vincitori  io  scorgo,  e’n  varie  antenne 
La  gloriosa  inchino  aita  Corona,  {doso 

Ma  già  coni' uom, che  dentr’ al  sono  on- 
DelT  Adrian  si  tuffi  in  lieto  giorno, 

E'n  celebrato  onor  di  pompa  antica  , 

E cerchi  i piti  riposti  oscuri  fondi , 

E i duri  e sotto  Tacque  accolti  scogli, 

E i secreti  che'l  mare  asconde  in  grembo, 
Per  riportarne  su  gettala  gemma 
Tra  suo'  purpurei  padri  al  veglio  duce; 
Cosi  dal  suo  profondo  anch'io  risorgo, 

E dagli  oscuri  e tenebrosi  abissi , 

La  bella  verità,  ch'ivi  sommersa 
Par  che  si  giaccia , porto  in  chiara  luce , 
E pure  agli  occhi  de’  mortali  esposta 
L 'offro  da  contemplar:  nè  manto  appanna 
Le  care  membra,  o Telo  'I  crine  adombra. 

Or  dagli  ondosi  campi  alzarmi  a volo 
A'  ventosi  dell'aria  ardisco  c tento. 

Chi  mi  dà  Tale'ii  guisa  di  colomba. 
Perch’io  sovra  le  nubi  e sovra  I venti 
M’ innalzi , e fra’  volanti  al  Ciel  vicino 
Mi  spazi?  Quel  clic  sovra 'I  del  ne  scorse. 
M'affidi  ancor,  mi  porti  e mi  sostegna 
Per  questo  procelloso  e ’ncerto  regno 
Della  fortuna , che  si  varia  e cangia 
In  tante  guise;  c tanti  alberga  e pasce 
Turbini  e ven  ti,  e pioggie  e nevi  e fiamme, 
Ond’è  turbato  degli  augelli’!  volo. 

Era  già  ornalo 'I  cielo , e picno'l  mare. 
Verdeggiavano  i boschi  c i prati  e i monti, 
Quando  Dio  comandò  che  sovra ’i  suolo 
Terrestre  isser  volando  i vaghi  augelli 
Per  T aria,  in  cui  s' accoglie  c si  condensa 
Quell'umido  vapor  ch'esala  in  aito 
Dal  freddo  grembo  dell'opaca  terra. 


DEL  MONDO  CREATO.  MS 

Talché  repente  gli  animai  pennuti 
Nell’aere  incominciaro '1  voloe’l  canto. 
E chi  tra’  muti  pesci  era  pur  dianzi 
Desto,  tra'l  suon  di  tanti  auge!  canori 
Or  darò  gli  occhi  in  preda  ai  pigro  sonno 
E neghittoso  e lento  a’  vaghi  augelli 
Cederà  nel  lodare  T Re  superno  ? 

O’n  render  grazie  a chi  ci  nutre  e pasce? 
Quegli duevolteaprova, e innanzi  al  gior- 
E quando’)  Sol  da  sera  i raggi  accoglie, [no, 
E l’Oriente  scolorito  imbruna. 

Fan  di  soavi  note  un  bel  concento  : 

Ed  or  tacita  l'alma , c non  sonoro 
Trar  vorrà  T uno  e l’ altro  estremo  tempo. 
Che  s'appella  dal  suono,  e’n  lui  si  chiude, 
E s’apre  T giorno  strepitoso  e ’ntento 
All’ opre  faticose  de’  mortali? 

Ah!  non  sia  ver. Ma  raccontiani  seguendo 
Del  quinto  di  le  buone  e nobili  opre. 

Sono  a’  pesci  sembianti  I vaghi  augelli  ; 
E tra'l  notante,  e'1  volatore  alato 
F.  quasi  parentado  : a quello T nuoto, 

A questo '1  volo  dift  natura  in  sorte. 

E l'uno  e l'altro  I liquidi  sentieri 
Colle  sue  penne  seca  e coila  coda , 

Or  mossa  alquanto, or  quasi  in  giro  attorta, 
Che  ’n  vece  di  tlmon  governa'!  corso. 
Son  diversi  però  : eli’  a’  pesci  'I  cibo 
Ministra  l’onda  instabile  e vagante  : 

Agli  augelli  la  ferma  c stabll  terra, 

Però  al  notante  necessari  i piedi 
Nonson,  come  al  volante  ; e quinci  avviene 
Che  questo  n'è  fornito, cqtiel  n'è  privo. 
Ma  pur  al  crocodillo,  il  qual  sovente 
Scende  a predar  sull’ arenose  rive 
Del  Nilo , i corti  piè  natura  diede, 

Anzi  i piedi  dal  suolo  ebbero  'I  nome  ; 
Chè  pedo  il  suol  fu  detto  in  greca  lingua. 
All'incontro  un  augcl  per  l'aria  a volo 
Si  spazia,  e sovra  T ali  ognora  'I  peso 
Porta  e sostiene  del  suo  debil  corpo , 
Acuì  piedi  negò  l'alma  Natura; 

Come  gl'  insegni , nel  sublime  volo 
A mirar  aito,  a deprezzar  la  terra. 

E quinci  porge  esemplo  a nobilalma. 
Ch'aspira  al  Cielo,  e prende’l  suolo  a scher- 
Questo  alla  rondinella  appar  simile,  [no. 
E tra'  sassi  pendenti  in  verde  speco 
Si  forma  ’l  nido  di  tenace  fango. 

In  cui  s’ apre  a gran  pcn  a angusto  ’l  varco  : 
Cipselo’l  nominò  la  Grecia  antica. 

Altri  de'  volatori  han  piedi  in  sorte  ; 

Ma  pur  son  male  acconci  al  far  rapina, 


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Ufi  POEMI 

Ed  al  cacciar;  c '1  nutrimento  e l’esca 
Cercan  nell' aria.  Annoverar  Tra  questi 
Si  può  la  rondinella  peregrina, 

A cui  di  piedi  in  vece  è 11  basso  volo , 
Che  vicino  al  tcrrcn  coll’ ale ’l  rade; 

E quella  ancor,  eh'  è dell'  erbose  rive 
Abitatrice,  onde  Riparia  è detta. 

Sono  in  moli' altre  guise  ancor  diversi 
Gli  augelli,  e di  grandezza  e di  figura, 

E vari  di  color,  vari  di  vita. 

D’opere  variati  e di  costumi. 

Ora,  lasciando  addietro  i molli  modi,  [te, 
Ond'  han  le  penne  scisse,  o’  nsieme  aggiun- 
Quasi  di  pelle , o di  vagina  avvolte, 

0 fuor  di  modo  pur  tenere  e molli  ; 

Dirò  ch'altri  sian  puri  ed  altri  impuri  : 
Quegl’  Innocenti  e mansueti,  in  terra 
Scelgono 'I  vitto  pur  di  seme  e d'erba; 
Questi  son  vaghi  di  più  fero  pasto. 

Di  cruda  carne  e d' atro  sangue  ingordi. 
Però  |*  unghie  pungenti  e curvo'l  rostro 
Ebbero ’n  vece  d’armi,  e penne  al  volo 
Più  dell’  altre  veloci , onde  la  preda 
Sia  tosto  presa  e lacerata  in  parti. 

E non  si  fa  di  questi  o stormo,  o greggia  ; 
Ma  soglion  1 feroci  andar  soliughi 
Alla  rapina  ; e sol  gli  accoppia  e giunge 
Amoroso  desio  di  cara  prole. 

Gli  altri  raccolti  sono  iu  vari  stormi , 

D’ amica  compagnia  bramosi  e lieti  ; 
Securi  no  ; chi  li  perturba  e sparge, 

E spesso  ancide  il  predator  rapace. 

E tali  son  le  semplici  colombe, 

A cui  si  prezioso  e bel  monile 
Fa  la  natura  dì  colori  e d’auro, 

E le  gru  peregrine  e i magri  storni  : 

Di  questi,  altri  soggetti  a grave  impero 
Non  sono,  c'n  liberti  tranquilla  vita 
Yivnn  quasi  con  proprie  antiche  leggi  : 
Altri  banno'l  duce,  ed  ordinati  a squadre 
Seguon  la  scorta  lor  per  l' aria  a volo  ; 
Altri  son  propri  abitatori  antichi 
Del  suol  nativo  ; altri  volar  da  lunge 
Sogliono  in  terra  cstrana , e ’n  altro  clima 
Cercar  più  caldi  Soli  inuauzi  al  verno  : 
Altri  ritornan  pur  co'  freddi  giorni 
Percgriuaiulo  alla  stagione  estiva. 
Tornano  al  fin  d'autunno  i tordi  a volo 
Nel  tepido  confili  del  verno  algente. 
Dove  son  tesi  lor  ben  mille  agguati 
NeU’inospitc  terra  : altri  gl'  inganna 
Coll' Infedele  insidiosa  gabbia  : 

Alcun  gli  prende  col  tenace  visco  : 


SACRI. 

E nelle  reti  alcun  gl’ involge  e lega. 

E la  cicogna,  ritornando,  innalza 
l.a  primavera  le  sue  verdi  insegne. 

Altri  son  della  mano  a'  vezzi  avvezzi. 
Che  dolcemente  gli  lusinga  e moke. 

Ed  alla  mensa  del  signore  usati. 

Altri  son  timorosi  : e I dolci  nidi 
Fann'  alcun' altri  negli  umani  alberghi. 
Altri  selvaggi  quasi , e quasi  alpestri. 
Prendono  i luoghi  solitari  in  grado. 

Ma  gran  varietà  la  voce  e '1  suono 
Ea  ne'  volanti  augelli . c gran  divario. 
Altri  tacili  sono , altri  loquaci 
Senza  musica  alcuna  e senza  canto  : 
Alcun' altri  canori  : ad  altri  insegna 
IV  assomigliar  del  suono  i vari  accenti 
l.a  Natura  maestra , c l'uso  e l'arte  : 

E la  pieghevol  voce  in  dolci  modi 
Inchina  ed  alza  : altri  ritrosi,  indotti. 
Con  perpetuo  tenore  in  un  sol  tuono, 
Mandan  fuor  sempre  l' immulabll  voce. 

E pomposo  '1  pavon  : superbo '1  gallo  : 

E la  colomba  placida  e lasciva  : 

E la  pernice  perfida  e gelosa, 

Ch'  a depredare  I cacciatori  aiuta. 
Amano  alcuni  di  raccorsi  insieme, 

E congiunger  le  forze , e i cari  alberghi , 
Quasi  in  una  città  comune  a tutti, 

Sott’  un  lor  proprio  re  : l' impero  e’1  fasto 
Ricusan  altri  de!  signor  superbo; 

Talché  ciascuno  a se  provvede  e pensa. 

Sia  da  quegli'l  principio,  onde  l'esempio 
Prendiam  per  l’uso  dell’ umana  vita. 
Comuni  bau  Tapi  le  citladi  e i letti 
Di  molle  cera , e le  odorate  celle  : 
Comune  ’l  volo  c la  fatica  e Poppe 
Di  mlrabil  lavoro,  e i cari  paschi  ; 

E comune  hanno  ancor  la  prole  e i figli. 
Clic  non  son  nati  in  doloroso  parto, 
D'amor  lascivo,  il  qual  congiunge  c mesce 
l.'alTaticate  insieme  immonde  membra; 
Ma  rolla  bocca  fuor  succhiati  c scelti, 
Dagli  odorali  e rugiadosi  fiori. 

Poi  tulle  insieme  in  bella  schiera  accolte 
Sott'  un  ordine  solo , un  solo  impero 
Seguon  d' un  re , eh’  è venerato  a prova. 
E non  sostiene  alcuna  uscire  a'  prati , 
D'erbe  vestiti,  e di  bei  fior  dipinti. 

Se  prima'l  re  non  incomincia '1  volo. 

E non  è questo  re  per  caso  eletto , 

0 per  Fortuna,  che  sovente  innalza 
A somma  podestà  l' indegno  c'1  vile; 

Nò  per  giudizio  dell'  errante  volgo  : 


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LE  SETTE  GIORNATE 
Nè  come  erede  dell’  antico  regno 
Degli  avi  anticbi  nel  superbo  sullo 
S'asside,  gonfio  del  paterno  fasto, 

E ’ntenerito  da  lusinghe  e vezzi , 

Nell’  arti  pellegrine  incolto  e rozzo  ; 

Ma  per  natura T nobil  regno  acquista, 

E da  natura  ha  le  reali  insegne 

D’ oro  lucenti , onde  s’ adorna  e splende  : 

E gli  altri  dì  grandezza  e dì  figura, 

E di  costumi  mansueti  avanza. 

£ ben  d’aculeo  il  re  pungente  armato, 
Ma  V aculeo  non  usa  in  far  vendetta , 
Perchè  son  leggi , non  in  breve  carta, 

Od  in  aride  foglie , o ’n  frale  scorza  , 

O ’n  durissima  pietra  impresse  c scritte. 
Ma  da  Natura  entro  le  menti  infisse; 
Ch’ove  è più  di  possanza  e di  valore , 

Più  vi  sia  di  clemenza  e di  piotale. 

Ma  qualunque  dell’ api  il  re  non  segue, 

O pur  si  mostra  in  ubbidir  ritrosa. 

Del  temerario  ardir  tosto  si  pente , 

O di  sua  tracotanza , e sente  ’l  colpo  : 
Fiero  gastigo  in  sò  medesmo , ed  aspro , 
Che  già  soleano  usar  gli  antichi  Persi, 
Dando  a sè  stessi  volontaria  morte. 

Nlun  barbaro  re  di  Persi,  o d’ Indi , 

0 di  Sarmati  pur,  o nuovo  o prisco. 

Con  tanta  riverenza  al  regio  scettro 
Vide  inchinarsi  i popoli  devoti  ; 

Quanti  ne  vede  nel  minuto  stuolo 
II  fortunato  re  dell’ api  industri. 

Che  l' arme , onde  natura  T fece  adorno , 
Non  usa  ne’  soggetti  e negli  umili. 

Odan  di  Cristo  i servi,  a’  quali  è imposto 
Che  non  si  renda  mai  per  male  il  male , 
Ma  che  nel  bene  il  mal  s’ avanzi  c vinca  ; 
Odan  deli'  api  caste  il  santo  esempio , 

Nè  d’ imitarlo  alcun  si  prenda  a sdegno  ; 
Cli’  ella  nel  procurarsi  il  proprio  vitto 
Non  guasta  l' altrui  cibo,  e noi  corrompe  ; 
Ma  di  cera  si  finge  1 dolci  alberghi , 

La  qual  da  vari  fior!  accoglie  e mesce. 

E pur  di  fiori  l’ ingegnosa , e d' erbe 
D’ ogn’ intorno  spiranti  ’l  vario  odore, 
Ixica  alla  sua  capace  angusta  reggia 

1 primi  fondamenti , e sovra  asperge 
D' umor  celeste  rugiadose  stille  : 

Liquido  prima , e poi  tenace  e denso. 

E con  cera  sotti]  divide  e parte 
Minutissime  celle , a cui  di  sovra 

La  somma  parte , eh'  è pendente  c cava. 
Fa  lestudinl,evolte;e  l'unaaU’altra  [vre 
S’ appressala  guisa  tal,  eh'  aggiunte  c sce- 


DEL  MONDO  CREATO.  H7 

La  vicinanza  lor  dislringc  e lega 
Più  forte  insieme  la  tenace  mole, 

E fa  non  ruiuoso  a lei  sostegno; 

Sicché  può  sostenere  T dolce  peso , 

E ritener  che  giù  non  caggia  ’l  mele. 

E ben  si  mostra  l' ingegnosa  pecchia 
Architetto  nell’  opra , e nel  lavoro 
Maravigiiosa , c saggia  e dotta  appieno 
Di  quanto  ’J  geometra  insegna  e trova 
Perchè  formò  le  celle  in  giusto  spazio 
Con  sei  angoli  tutte,  e fianchi  eguali  : 

E non  per  dritto  i’  uuo  all'  altro  appoggia. 
Ma  quelle  Infime  sedi  in  guisa  adatta 
Alle  sovrane  sue  concave  parti , 

Che  nulla  ne  patisce  ’l  sommo  e l’imo. 

Ma  come  annoverar  potrò  narrando 
De’  cari  augelli  le  si  varie  vite  1 
L’estrane  gru  dentro  l’adunco  piede 
Portano  ’l  sasso,  onde  si  folce,  e libra 
Tra  Paure  incerte  l'agitato  volo. 

Mentre  ne’  giorni  nubilosi  e brevi,  [bro, 
Lasciand’  addietro  ’1  Termodonte,  o l’E- 
Passano  i larghi  mari , e ’n  sull’  apriche 
Sponde  soglion  vernar  dell'ampio  Nilo. 
Tal  per  savorrainmartra'tentiePonde, 
Altre  rive  cercando,  ed  altre  parti. 
Regge  ’l  suo  corso  la  spalmala  nave. 
Queste  ban  di  notte  sentinelle  e scorte , 
Che  mentre  Patire  in  placida  quiete 
Dormon  sicure,  van  girando  intorno, 

E le  notturne  insidie , e i venti  e Paure 
Spian  da  tutte  le  parti  impigre  c pronte. 
E poi  fornita  quella  guardia,  e ’l  tempo 
Di  lor  vigilia,  a suon  quasi  di  tromba  [no 
Dcstan  gli  addormentati  : e gli  occhi  al  son* 
Danno  per  breve  spazio  : e’  n quella  vece 
Altri  succede  al  faticoso  ufficio. 

Una  precede  l' altre,  e quasi  avanti 
L’ alte  insegne  precorre  : e poi  si  volge 
Nel  tempo  dato  : e la  sua  sorte  e 1 loco. 
Che  si  conviene  al  duce,  altrui  concede. 
Dimostran  molto  di  ragione  e d’ arte 
Le  cicogne,  e ’n  tal  guisa  al  tempo  istesso 
Quasi  a spiegate  insegne  in  queste  parti 
Vengon  da  più  lontano  ignoto  clima. 

E le  nostre  cornici  amica  guardia 
Lor  fanno  Intorno,  in  ampio  stuol  con- 
E son fidatascortaal lungo  volo  [giunte. 
Co nlra  la  forza  de’  nemici  augelli  ; 

Come  soglion  guerrieri  inglesi  e scoti , 
0 germani  ed  iberi  uniti  In  lega. 

Ed  in  quella  stagione  in  loco  alcuno 
Non  ci  appar  la  cornice , o poi  ritorna 


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148  POEMI 

Tinta  le  piume  d’onorate  piaghe, 

E del  già  dato  aiuto  i segni  mostra. 

Deh  ! chi  descrisse  lor  si  certe  leggi 
Di  sì  pietoso  officio  ? o chi  minaccia 
Si  grave  accusa  , o pur  sì  giuste  pene 
Achi  gli  ordini  infermi,  e ’l  proprio  loco 
Per  viilate  abbandona  in  guerra,  oin  cam- 
po? 

Quinci  prendete  esempio,  egri  mortali: 
E l'uomo  impari  dagli  auge!  volanti, 
Quai  degli  ospiti  sian  le  giuste  leggi  : 

Nè  chiuda  avaro  albergator  superbo 
Le  dure  porte  a’  peregrini  erranti 
A mezza  notte,  o lor  dineghi  ’l  cibo; 

Se  per  gli  estrani  augelli  i nostri  augelli 
Non  ricusan  d’  espor  la  vita  in  guerra, 

E de*  perigli  altrui  si  fan  consorti. 

E qual  altra  cagion  di  fiera  morte 
In  Sodoma  versò  di  fiamme  ardenti 
Dal  Ciel  turbato  spaventosa  pioggia. 

Clic  la  ragion  del  violato  albergo 
Sprezzata, e rotta? e quell’  iniquo  oltrag- 
Ma  la  pietosa  provvidenza  e cara,  [gio? 
La  qual  delle  cicogne  è vecchia  mastra , 
Destar  ben  può  de’  figli  il  dolce  amore 
Verso  gli  antichi  loro  e stanchi  padri. 
Quelle  d’intorno  al  gcnitor  languente, 

A cui  per  lunga  età  cadere  a terra 
Sogliono  i vanni  c le  minute  piume, 
Stanno  pietose  : c le  già  afflitte  membra 
E nude  di  pennute  e lieve  spoglie, 
Scaldano  al  volator  lassato  e grave 
Soavemente  colle  proprie  penne; 

E gli  portano  ’l  cibo, ond’ eì  si  pasca: 

E sollevano  ancora  c quinci  e quindi 
Coll’  ale  il  tardo  veglio  : e ’n  questa  guisa , 
Le  disusate  membra  all’uso  antico 
Già  richiamanti,  danno  aiuto  ai  volo. 

Ma  qual  fra  noi  di  sollevar  I* infermo 
Padre  non  sembra  fastidito  classo? 

Chi  n'  impone  alle  spalle  il  grave  pondo, 
Quel  cli’è  creduto  nell’ istorie  appena? 

E non  più  tosto  disdegnoso  c schivo 
All'altrui  braccia  le  caduche  membra 
Commette,  e ’l  mal  locato  officio  a’  servi  ? 
Ora  prendiani  lodato  c caro  esempio 
Di  materna  pietate , e non  si  dolga 
Di  povertatc,  o di  miseria  alcuno, 

Nè  della  vita  sua  disperi  c pianga; 
Mentr'ei  riguarda  ’l  magistero  e l’opra 
Della  pietosa  rondinella  industre. 

La  rondinella  di  minuto  corpo. 

Ma  di  sublime  egregio,  e chiaro  afletto 


SACRI. 

Povera  e bisognosa,  *1  proprio  nido 
Ella  medesma  pur  compone  e finge , 
Prezioso  vieppiù  di  gemme  e d'auro. 
Perchè  d’ogni  tesoro  è vile  ’l  pregio 
Allato  a quell'albergo,  in  cui  s’annida 
La  sapienza  ; e ben  è saggia  e scaltra 
Menlr’ella  del  volar  mantiene  e serba 
La  vaga  liberiate  : e nutre  e pasce 

I pargoletti,  ancor  teneri  figli. 

Sicuri  dall’ insidie  e dagli  assalti 
Degli  altri  augei,  sotto  i sublimi  tetti. 
Là  dove  l’uom  ricovra  : e per  usanza 
Al  conversar  uman  così  gli  avvezza. 

È’  mirabile  ancor  l'ingegno  e l’arte, 
Ond*  a sè  stessa  le  sue  proprie  case 
Fa  senz'aita  d’architetto  o fabbro; 

E le  festuche  pria  prepara  e sceglie, 

E le  cosparge  di  tenace  fango. 

Per  congiungcrlc  insieme;  e se  co' piedi 
Non  può  in  alto  portar  tenero  limo, 
I/ali  d’acqua  si  sparge,  c poi  di  polve 
Arida  e leve;  ond’ ella  fa  di  nuovo 
La  fangosa  materia  all'umil  casa. 

Con  questa,  quasi  colla,  aggiunge  insieme 
Le  già  scelte  festuche,  e di  lor  forma 

II  nido  a’  figli  : a cui  se  gli  occhi  accieca 
Pungendo,  alcuno;  ella ’l  perduto  lume 
A’  ciechi  rende  colla  medie’ arte. 

Or  chi  di  povertà  si  lagna  e plora. 

Miri  la  rondinella  : e grazia  speri 
Da  quel  Signor,  eli’  a lei  sì  larga  dote 
Diede,  e sì  ricco  don  d’ arte  e d’ ingegno  : 
Onde  di  povertatc  e di  fortuna 
Ogni  sciagura,  ogni  difetto  adempie 
In  sì  lodata  e sì  felice  inopia. 

L'alcione,  del  mar  picciolo  augello. 
Forma  di  palla  in  guisa  ’l  dolce  nido 
D’arido  fior,  clic  ’l  mare  in  sè  produce; 
E i pargoletti  figli  a mezzo  'I  verno 
Dalla  tenera  scinde  e frale  scorza 
Nell’arenoso  lito,  in  cui  depone 
Dell'  ova  ’l  caro  suo  portato  peso. 

E questo  avvien , quando  da  fieri  venti 
11  Marc  a terra  si  percuote  e frange: 

E biancheggiando  di  canuta  spuma 
Sparge  le  molli  arene,  e i duri  scogli. 
Dell'alcione  al  desiato  parto 
È sopito  ’l  furor  d’orridi  venti , 

Son  quetc  Tonde  tempestose,  e ’ntorno 
Sgombre  le  nubi , e serenato  ’l  ciclo  : 

In  sì  tranquillo  c sì  felice  aspetto 
De’  fidi  augelli  alla  progenie  arride: 

E ’n  sette  prima  di  sì  lieti  giorni 


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t 


LE  SETTE  GIORNATE 
Suol  covar  l’ uova  la  pennuta  madre. 
Negli  altri  sette  uutre  i nati  figli. 

Ed  a questi  ed  a quelli  ha’mposto’l  nome 
Dall'alcione  *1  navigante  esperto  : 

Ed  al  candor  di  lucido  sereno 
Da  tutti  gli  altri  gli  distingue  c segna. 
Questo  ci  rassicuri  c ci  conforti , 

Perchè  chiediamo  a Dio  le  grazie  e I doni  ; 
Lo  qual,  se’»  grazia  d’un  minuto  augello 
L’orribil  placa,  e grande  c vasto  mare. 
In  mozx’  al  tempestoso  ed  aspro  verno, 
K lo  ritiene,  c il  fa  tranquillo  e piano; 
Clic  farà,  s*  egli  intende  al  nostro  scampo? 
0 se  provvede  airuont,  suo  figlio  eletto, 
Di  sua  divinità  sembiante  inimago? 

La  lortorclia  dal  suo  amor  disgiunta. 

Non  vuol  nuovo  consorte  e nuovo  amore  ; 
Ma  solitaria  c mesta  vita  elegge 
Jn  secco  ramo,  c ’i»  perturbalo  fonie 
La  sete  estingue  : c de!  marito  estinto 
Cesi  ri  ninna  la  memoria  amara. 

A lui  sua  castità  conserva  c guarda 
A lui  di  moglie  ancora  ’l  caro  nome; 
Perché  solvcr  non  può  l’iniqua  Morte 
Le  sanie  leggi  di  vergogna , e i patti , 

A cui  s’astrinse  volontaria  in  prima. 
Quinci  la  vedovella  esempio  prenda  ; 

Nè  baldanzosa  alle  seconde  nozze 
S’ affretti,  e tuffi  nell’  obblio  profondo 
L’amor  suo  primo  e la  sua  prima  fede. 

L’aquila  in  allevar  la  nobil  prole 
È vieppiù  d’altro  disdegnosa  e ’ngiusta; 
Chè  di  tre  figli  i due  percuote , e scaccia 
Con  gli  aspri  colpi  de’  suo’  duri  vanni  ; 

E ’l  terzo  alleva , a cui  non  inanelli  ’l  cibo, 
Che  suol  rapire  ’l  predator  volante; 

E forse  altra  cagion  più  bella  e giusta, 
Non  avarìzia  del  nutrir  la  spinge 
Ma  severo  giudicio , onde  riprova 
l'eoo)'  a lei  non  convenga)  indegno  parto  : 
Perchè  volge  l suo’  figli  inverso  ’l  Sole , 
Sospesi  in  aria  nell’ adunco  artiglio: 

E quel  che  non  dechina  a’  raggi  ardenti 
La  ripercossa  vista  c '1  debil  guardo, 

Ma  ’ntrepido  nel  Sol  l’ affisa  e ferma, 

E scelto  a prova,  e gli  altri  abborrc  e sde- 
(Pur  com’  indegni  di  reale  onore)  [gna 
Con  quel  suo  generoso  e gran  rifiuto. 

Ma  gli  scacciati  entro  ’1  suo  nido  accoglie 
Quella  che  rompe  1*  ossa,  e quinci  ’l  nome 
Prende , od  aquila  sia  bastarda , e nata 
Di  gcnitor  deforme,  od  altro  augello: 

Nè  gli  lascia  perir  d’orrida  fame. 


DEL  MONDO  CREATO.  149 

Ma  co’  suo’  figli  lor  nutrisce  e serba. 

E tali  son  quei  duri  acerbi  padri , 

Cli' espongono  i bambini , o sono  iniqui 
Nel  compartir  fra’  suoi  l’avere  e l’esca 
E tutti  quel,  ch’hanno  l’artiglio  adunco, 
Allorcli’i  figli  timidelti  ’l  volo 
Tentali  primiero,  c spiegan  l’ale  appena 
Con  mal  sicure  ancora  e ’nccrte  penne. 
Gli  spingo»  tosto  dal  paterno  nido  ; 

E s’ alcuno  al  partir  è tardo  o lento , 
Coll’ ali  sue  percosso  e ripercosso 
Precipitando  ’l  caccia  ’l  fiero  padre. 

Ma  verso  i figli  suol  l’amore  e ’l  zelo 
Della  cornice  assai  di  laude  è degno. 
Clic  ’n  atto  di  pietosa  e fida  madre 
Raffrena  nel  lor  primo  ardito  volo 
I.a  debil  prole,  e lor  ministra ’l  cibo 
Lunga  stagion,  perchè  s’avanzi  c cresca, 
E molti  sono  ancora,  e vari  augelli. 

Cui  non  fa  d’uopo,  in  generare,  il  maschio, 
Come  gravidi  sia»  di  vento  c d’aura. 

Ma  son  poscia  infecondi  i nati  figli , 

Nè  fan  perpetua  la  ventosa  prole 
D’ Euro  i nipoti,  o pur  di  Noto  e d’Austro. 
Ma  senza  mescolarsi , c senza  coppia 
Di  maritale  amor  concepc  e figlia 
L*  avvoltar,  clic  sì  tardi  a morte  giunge; 
Meraviglioso  al  mondo,  c raro  mostro, 
Che  col  secolo  suo  la  vita  agguaglia. 

Or  se  deride  alcun  gli  alti  misteri 
Della  nostra  divina  invitta  Fede, 

Nè  creder  può  che  da  virginei  chiostri 
Dell’ intatta  Regina  il  Figlio  uscisse. 

Di  sua  verginità  servando  ’l  fiore; 

Miri  qual  dia  famoso  c reno  esempio 
Alle  cose  divine  alma  Natura  : 

E quel  che  può  nell’ aria  augel  volante, 
Possibil  creda  a Dio , che  puote  ’l  tutto. 

E i medesml  avvoltoi  presagio  e senso 
Hanno  quasi  divino,  ond’è  prevista 
De’  guerrieri  la  morte;  anzi  talvolta 
Sogliono  accompagnar  Tarmate  squadre, 
Antivedendo  la  sanguigna  strage 
Dell’  orrida  battaglia , c ’l  fin  dolente. 

Ma  chi  potria  delle  locuste  appieno 
GII  spaventosi  eserciti  narrarti? 

Ch’  ad  un  quasi  di  guerra  orrìbil  segno 
Sogliono  a schiere  sollevarsi  In  alto  , 

Ed  accamparsi , ed  ingombrar  d’intorno 
Quant’  è largo  ’l  paese , c i dolci  fruiti 
Pria  non  toccar,  clic  dal  sovrano  impero 
Lor  sia  permesso  ’l  depredare  i campi? 
Debbo  anco  dir,  come  al  meriggio  estivo 


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ISO  POEMI 

Le  canore  cicale  1 verdi  boschi , 

Quasi  nel  petto  avendo  interna  lira, 
Faccian  sonar  con  que'  continui  accenti? 
0 come  ’ncontro  al  Sol  ripari  e schermi 
DI  luoghi  (enebrosi , c d' ore  tarde 
Cerchi  l’ auge! , che  dall’  antica  Atene 
Alla  sua  Diva  fu  nutrito,  e sacro? 

E com’  el  solo  Infra  gli  augei  volanti 
Adopri  I denti , e In  quattro  pie  si  fermi  ? 
Benché  due  n’abbia  l’alfricano  augello, 
Ch’  ha  si  gran  corpo , e di  sì  grave  peso , 
Sovra  due  tanto  egli  ’l  leggero  appoggia , 

E l’ali  sue  quasi  di  cuoio  spiega: 

E come  penda  l’un  dall'altro  avvinto, 
Quasi  catena  Inanellata  e lunga: 

E ’n  questa  guisa  pur  Natura  insegni 
Di  seambievol  amore  i fermi  nodi  : 

E come  gli  occhi  dell’  auge!  notturno 
Sian  somiglianti  ad  uom,  che  tutto  intenda 
D’umana  sapienza  a'  vani  suiti] ? 

Perchè  di  quello  iu  lenebroso  orrore 
La  vista  è forte,  e poscia  ha  lumi  infermi, 
Laddove  ’l  Sol  le  tenebre  disperda. 

Cosi  di  questi  appare  acuto  ingegno 
Nei  vano  contemplar;  ma  in  vera  luce 
La dehil  mente  imbruna, e tutta  adombra. 
Debbo  anco  dir,  come  ti  svegli  all’  opre 
Di  canoro  aogellin  l’acuta  voce,  [desta 
Che  (unge  intuona,  c ’l  Sol  richiama,  e 
Il  peregrin,  e ’l  buon  cultor  ne’  campi, 
L' uno  al  suo  faticoso  aspro  viaggio , 
L’altro  a secar  le  gii  mature  spichc  ? 

0 dir  come  ne  rompa  ’l  dolce  sonno , 

E n'invili  a vegghiar  con  fida  guardia 
Conira  l’ insidie  d’  avversario  antico 
Il  tardti  augei , che  già  sottrasse  al  risco 
La  gran  citta , del  mondo  alta  regina, 

A lei  scoprendo  la  notturna  fraudo , 

E ’l  barbaro  crude!  ned’ ombra  occulto, 
Cile  per  oscure  vie  saliva  in  alto 
A quel  suo  trionfale  altero  monte , 

Ove  gii  sorse  in  maestate  augusta 
Alta  rocca  ali'  imperio,  a Giove  il  tempio? 
0 descriver  degg’  io  del  bianco  cigno 
Il  divino  presagio,  e ’l  dolce  canto. 

Anzi  l’ antiveduta  c lieta  morte? 

Onde  l’ alma  humnrtal  s’ affida , e spora 
Farsi  Ut  sovra  ’l  Liei  per  grazia  eterna. 

0 del  verme  Indiano , a cui  natura 
Mirabilmente  fa  le  corna  e l'ali, 

Espor  si  varie  e si  cangiate  fonile  ? 

Però,  voi,  che  sedendo,  illustri  donne. 
Tessete  c ritessete  in  tronchi  e ’n  Bori , 


SACRL 

E ’n  pià  maral  igliosc  altre  figure 
Prezioso  lavoro , e cari  slami , 

Da  (unge  a voi  mandati  insln  dagl’  Indi , 
Per  adornar  di  vaga  e molle  veste 
Le  care  membra;  voi,  nell’opra,  o donne. 
Dovete  richiamar  nell’  alta  mente 
Quel  ch’altre  volle  ragionare  udiste. 

Che  risorger  dobbiam , ripreso  ’l  manto 
Di  nostra  umanitate,  e farci  eterni. 
Tutte  vestile  allor  dì  luce  e d’auro 
Risponderete  al  Sol , che  Palme  illustra. 
Assise  in  gloriosa  ed  alta  sede, 

E d’ altro  ornate  che  di  perle  e d’ ostro. 

Or  a le  mi  rivolgo,  e tu  supremo 
Fra  gli  altri  onore  avrai  negli  alti  carmi , 
immorlai,  rinascente,  unico  augello: 

E questo  lia  quasi  odorato  rogo 
Di  chiare  laudi , in  cui  la  fama  antica 
Si  rinnovi  nel  mondo,  e Pali  spanda, 

E per  questo  sereno  e puro  cielo 
Lieta  si  spazi  c gloriosa  a volo , 

A scherno  avendo  ornai  gli  arabi  monti. 

Dio,  fra  gii  altri  dipinti  e vaghi  augelli , 
Quel  di,  che  prima  dispiegar  le  penne 
Per  Paria  vaga  al  suoli  dell’alta  voce, 
Fe’  la  fenice  ancor,  come  si  narra , 

Se  pur  degna  di  fede  è vecchia  fama. 

E ’n  si  mirahil  forma  il  Padre  eterno 
Di  mortai , rinascente , unico  augello 
Figurar  volle  quasi  in  raro  esempio 
I,’  immortai , e rinato , unico  Figlio , 

Che  rinascer  dovea , come  prescrisse. 
Quanti’  ei  ne  generò  P eterno  parto. 

Loco  è nel  più  remoto  ultimo  clima 
Dell’  odorato  e lucid’  Oriente, 

Là  dove  P aurea  porta  al  elei  disserra  [no. 
Uscendo  ’l  Sol , che  porta  in  fronte  ’l  gior- 
Nè  questo  loco  è già  vicino  all'Orto 
Estivo,  o pur  ali’ Orto,  onde  si  mostra 
Il  Sol  cinto  di  nubi  a mezzo  ’l  verno  ; 
Ma  solo  a quello,  ond’  ei  n’  appare,  ed  esce 
Quanti’  i giorni  e le  notti  insieme  aggua- 
tai si  stende  negli  aperti  campi  [glia. 
Un  larghissimo  pian  : nè  valle , o poggio 
In  quell'ampiezza  sua  tlcchina,  o sorge. 
Ma  quel  loco  è creduto  alzare  al  cielo 
Sovra  i nostri  famosi  orridi  monti 
Sei  volte  e sci  la  verde  ombrosa  fronte. 

E quivi  senza  luce  al  Sole  è sacra 
Opaca  selva  : e con  perpetuo  onore 
Di  non  caduche  fronte  è verde  ’l  bosco  , 
Che  P ondoso  Ocean  circonda  intorno. 

E quando  dell’  incendio  i segni  adusti 


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LE  SETTE  GIORNATE 
Nel  del  lasciò  nel  carreggiar  Fetonte , 
Seeoro  ’l  loco  fu  da  quelle  fiamme. 
Eqnando  giacque  in  gran  diluvio  'I  mondo 
Sommerso , ei  superò  le  orribili  acque. 

Nè  giungon  quivi  mai  pallidi  morbi , 
Opur  l'egra  Vecchiezza,  oT  empia  Morte  ; 
Non  cupidigia , o fame  infame  d' oro , 
Noti  scellerata  colpa , o fiero  Marte , 

0 pure  insano  amor  dì  morte  iniqua. 
Sono  l' ire  lontane,  e 1 duolo  e ’l  lutto, 
E Povertà  di  orridi  panni  involta, 

E i mal  desti  pensieri , c le  pungenti 
Spinose  enre,  e la  penuria  angusta. 
Quivi  tempesta,  o di  turbato  vento 
Orrida  forza  ’l  suo  furor  non  mostra. 

Nè  sovra  i rampi  mai  l’ oscure  nubi 
Steudono  ’l  negro  e tenebroso  velo , 

Nè  d’ atto  cade  Impetuosa  pioggia  ; 

Ma  ’n  mezzo  mormorando  in  vivo  fonte 
Lucido  sorge  e transparente  e puro, 

E d'acque  dolci  e cristalline  abbonda: 

E ciascun  mese  egli  si  versa  e spande , 
Talché  dodici  volte  ’l  bosco  irriga. 

Quivi  alza  rami  da  sublime  tronco 
Arbor  frondosa,  e non  caduchi  e dolci 
Pendono  i pomi  tra  le  verdi  fronde. 

Tra  queste  piante,  e ’n  quella  selva  alberga 
Appresso  ’l  fonte  l'unica  Fenice, 

Che  della  morte  sua  rinasce  c vive  : 
Augello  eguale  alle  celesti  forme , 

Che  vivace  le  stelle  adegua , c *1  tempo 
Consuma,  e vince  con  rifatte  membra. 

E come  sia  del  Sol  gradita  ancella, 

Ha  questo  da  Natura  officio  e dono , 

Che  quand'  in  cielo  ad  apparir  comincia 
Sparsa  dì  rose  la  novella  Aurora, 

E dal  eie!  caccia  le  minute  stelle , 

Ella  tre  volte  e quattro  in  mezzo  all'  acque 
Sommerge’l  corpo,  epnr  tre  volte  equat- 
Liba  quel  dolce  timor  del  vivo  gorgo,  [tro 
Poscia  a volo  s’ innalza , e siede  in  cima 
Dell’arbore  frondosa,  c quinci  intorno 
La  selva  tutta  signoreggia  e mira  : 

Ed  al  nascer  del  Sole  indi  conversa, 

Dei  Sol  già  nato  aspetta  i raggi  c ’l  lume. 
Ma  poiché  l’aura  di  quel  lurid'auro. 
Onde  fiammcggia’l  Sol,  risplende  espira, 
A sparger  già  comincia  ’n  dolci  modi 
Il  sacro  canto  : e la  novella  luce 
Colla  mirabil  voce  affretta  e chiama; 

A cui,  voce  di  Cinto,  o di  Parnaso 
Dolce  armonia  non  si  pareggia  in  parte. 
Nè  dì  Mercurio  la  canora  cetra 


DEL  MONDO  CREATO,  lì) 

L'assembra,  nè  morendo ’lbianco  cigno. 
Ma  poiché  Febo  del  celeste  Olimpo 
Trascorre  i luminosi  aperti  campi , 

E per  quell’  ampio  cerchio  intorno  è v oito. 
Ella  tre  volte  ripercossa  al  petto 
L’ ali  d’ oro  e dipinte , al  Soie  applaude 
Con  non  errante  suon  tannile  e 1 giorno. 
E la  medesma  ancor  parte  e distingue 
L’ ore  v eloci , e queir  accesa  fronte  , 
Venerata  tre  volte,  alfin  si  tace. 

Pur  come  sia  dei  sacro  oscuro  bosco , 

E di  que’  tenebrosi  ed  alti  orrori 
Sacerdote  solinga , a cui  son  conti 
I secreti  del  Orlo  e di  Natura  : 

Però  di  riverenza  e d' onor  degna. 

Ma  poi , fomiti  cento  e cento  lustri. 
Nella  vetusta  età  più  grave  e tarda , 

Ella , che  già  passare  a volo  i nembi 
Poteva  c le  sonore  alte  procelle , 

Per  rinnovar  la  stanca  vita  e ’1  tempo 
Chiuso  e ristretto  pur  da  spazj  angusti , 
Kugge  del  bosco  usato  il  dolce  albergo. 
E di  rinascer  vaga , i lochi  sacri 
Addietro  lascia , e vola  al  nostro  mondo, 
Ov’ha  suo'  regni  l'importuna  Morte. 

E già  drizza  Invecchiata  ’l  lento  volo 
In  quella  di  Soria  famosa  parte, 

A cui  died'  ella  di  Fenice  ’l  nome. 

E di  selve  deserte  ivi  ricerca 
Per  non  calcate  vie  secreta  stanza , 

E si  ricovra  nell’oscuro  bosco. 

Ed  ailor  coglie  deli'  aereo  giogo 
Forte  palma  sublime,  a cui  pur  anco 
Comparti  di  Fenice  1 caro  nome , 

Cui  romper  non  potria  co' feri  denti 
Serpe  squainmosa,  o pure  aitgel  rapace, 
Od  altra  ingiuriosa  orrida  belva. 

E chiusi  ailor  nelle  spelonche  1 sentì 
Taccion  fra’  cavernosi  orridi  chiostri, 
Per  non  turbar  co’  lor  torbidi  spirti 
Del  bell'  aer  purpureo  ’l  dolce  aspetto. 
Nè  condensato  turbo  1 vani  campi 
Del  del  ricopre , ed  al  felice  augello 
Toglie  la  vista  de’  soavi  raggi. 

Quinri  ’l  nido  si  fa  : sia  nido,  o tomba 
Quello  in  cui  pere,  acciò  rinasca  e viva 
L’ augcl , che  di  sé  stesso  è padre  e figlio, 
E sè  medesimi  egli  produce  e cria. 
Quinci  raccoglie  detl’  antica  selva 
I dolci  succhi , e'  più  soavi  orlori , 

Che  scelga  ’l  Tiro,  o l’Arabo  felice, 

0 Pigmeo  favoloso , od  Indo  adusto . 

0 che  produca  pur  nel  molle  grembo 


J52  POEMI 

De’Sabei  fortunati  aprica  terra. 

E quinci  l’aura  di  spirante  amomo, 
Colle  sue  canne  ’l  balsamo  raguna  ; 

Nè  cassia  manca,  o l’odorato  acanto, 

Nè  dell’  incenso  lagrimosc  stille , 

E di  tenero  nardo  i nuovi  germi  ; 

E di  mirra  v'aggiunge  i cari  paschi; 
Quando  repente  ’l  variatili  corpo, 

E le  già  quote  membra  alluoga  e posa 
Nel  vital  letto  del  felice  nido: 

E nel  falso  sepolcro  ardente  cuna 
Al  suo  nascer  prepara  anzi  la  morte. 
Sparge  poi  colla  bocca  1 dolci  succhi 
Intorno,  c sovra  alle  sue  proprie  membra. 
Ivi  l’ esequie  sue  si  fa  morendo: 

E deboi  già  con  lusinghieri  accenti 
Saluta  ’l  Sole,  anzi  l’adora  e placa: 

E mesce  umil  preghiera  all'umil  canto, 
Chiedendo  i cari  incendj , onde  risorga 
Col  nuovo  acquisto  di  perpetua  forza. 
Fra’  vari  odori  poi  l’alma  spirante 
Raccomanda  al  sepolcro  ; c non  paventa 
L’ardita  fede  di  sì  caro  pegno. 

Parte  di  vital  morte ’l  corpo  estinto 
S’ accende,  e l’ardorsuo Gamme  produce, 
E del  lume  lontan  concepe’l  foco, 
Ond’egli  ferve  olirà  misura,  e flagra , 
Lieto  del  suo  morir,  perchè  veloce 
Al  rinascer  di  nuovo  egli  s’ affretta. 
Splende  quasi  di  stelle  ardenti  ’l  rogo , 

E consuma’!  già  lasso  c pigro  veglio. 

La  Luna’l  corso  suo  raffrena  e tarda, 

E par  che  tema  in  quel  mirabil  parto 
Natura  faticosa  c stanca  madre. 

Che  non  si  perda  l’immortale  augello; 

Ma  di  gemina  vita  in  mezz’ai  foco 
Posto  in  dubbio  confin  distingue  e parte. 
Nelle  ceneri  aduste  alfin  converso, 

Le  sue  ceneri  accolte  egli  raduna 
In  massa  condensate , e quasi  iu  vece 
È l’occulta  virtù  d’interno  seme. 

E quinci  prima  1* animai  ci  nasce, 

E ’n  forma  d’ ovo  si  raccoglie  ’n  giro , 

Poi  si  riforma  nel  primicr  sembiante  : 

E dalle  nuove  sue  squarciate  spoglie 
Alfin  germoglia  l’ immorta!  Fenice. 

Già  la  rozza  fanciulla  a poco  a poco 
Si  comincia  a vestir  di  vaga  piuma. 

Qual  farfalla  talvolta,  a’  sassi  avvinta 
Con  debil  filo,  suol  cangiar  le  penne. 

Ma  non  ha  per  lei  cibo  ’l  nostro  mondo  : 
Nè  di  nutrirla  alcun  si  cura  intanto; 

Ma  celesti  rugiade  intanto  liba; 


SACRI. 

Dall' auree  stelle  e dall’argentea  Luna 
Cadute  in  cristallina  e dolce  pioggia. 
Queste  raccoglie,  e fra  ben  mille  odori , 
Sin  che  dimostri ’l  suo  maturo  aspetto 
Nelle  cresciute  membra,  indi  si  pasce. 
Ma  quando  giovinetta  ornai  fiorisce. 

Fa  ritorno  volando  al  primo  albergo. 

E quel  ch'avanza  del  suo  corpo  estinto 
E dell’ aduste  e ’nceneritc  spoglie. 

Unge  di  caro  ed  odorato  succo  , 

In  cui  balsamo  solve,  incenso  e mirra, 
E con  pietosa  bocca  indi  l’informa, 

E tondo  ’l  fa  : siccome  palla,  o spera: 

E portandol  co’  piedi , al  lucid’  orto 
SI  rivolge  del  Sole,  c ’l  volo  affretta. 

E l’accompagna  innumerabil  turba 
D’augei  sospesi,  e lunga  squadra c densa  ; 
Anzi  esercito  grande  intorno  intorno 
Fa  quasi  nube,  e ’l  volator  circonda. 

Nè  di  tanti  guerrieri  alcuno  ardisce 
Al  peregrino  duce  andare  incontra; 

Ma  dell’ardente  re  le  strade  adora. 

Non  il  fiero  falcone  ardita  guerra 
Gli  move , o quel  eh’  i folgori  tonanti 
(Cotn’  è favola  antica)  al  ciel  ministra. 
Qual  le  sue  barbaresche  orride  torme 
Scorgea  dal  fiume  Tigri  il  re  de’  Parti  ; 
Di  preziose  gemme , e d’ aurea  pompa 
Altero,  e di  corona ’l  crine  adorno, 
Purpureo  ’l  manto , eli’  è dipinto  e sparso 
Dal  lago  di  Soria  di  perle  e d’oro , 

E col  fren  d’ oro  al  suo  destricr  spumante 
Regger  soleva ’l  polveroso  corso 
Per  le  città  d’ Assi  ria  alto  c superbo , 

Ov*  ebbe  fortunato  ed  ampio  impero  : 
Tale  ancor  va , meraviglioso  in  vista, 
L’augel  rinato,  e con  reale  onore 
E reai  portamento  i vanni  ei  spiega. 

Il  color  è purpureo , onde  somiglia 
Il  papavero  lento,  allorch’ al  cielo 
Le  sue  foglie  spargendo,  al  Sol  rosseggia. 
Di  questa  quasi  velo  a lui  risplendc 
Il  collo , la  cervice,  il  capo  e ’l  tergo. 
Sparge  la  coda,  clic  di  lucid’ oro 
Rassembra  e d’ostro  poi  macchiata  e ti nta. 
Nelle  sue  penne  ancora  orna  e dipinge. 
Pur  come  in  rugiadosa  e curva  nube. 
L’arco  celeste , in  cui  si  varia  c mesce , 
Verdeggiante  smeraldo  a’  bei  vermigli, 
Ed  agli  altri  cerulei  e bianchi  fiori. 

Ha  duo  grand’  occhi,  eguali  a duo  giacinti, 
E riluce  da  lor  vivace  fiamma  ; 

E pur  gemma  somiglia ’l  rostro  adunco. 


LE  SETTE  GIORNATE 
La  testa  le  circonda  egual  corona , 

Come  la  cinge  al  Sol  co*  raggi  ardenti. 

Son  le  gambe  squammose,  e d’or  distinte, 
L* unghie  rosate,  e la  sua  forma  illustre 
Tra  quella  del  pavon  mista  simiglia , 

E dell*  augel  che  *n  riva  al  Fasi  annida. 
Grande  è cosi  eli*  appena  augello,  o fera 
Nata  in  Arabia  sua  grandezza  agguaglia  ; 
Pur  non  è tarda , ma  veloce  e pronta, 

E con  reale  onor  nel  ratto  volo 
La  reggia  maestate  altrui  dimostra. 

Del  verde  Egitto  una  citiate  antica 
Ne’  secoli  primieri  al  Sol  fu  sacra  : 

Quivi  sorger  solca  famoso  tempio 
Di  ben  cento  colonne  altero  e grande, 
Già  svelte  dal  tebano  orrido  monte; 

E quivi,  com’è  fama,  il  ricco  fascio 
Ripor  solea  sovra  i fumanti  altari  : 

E *1  caro  peso,  destinato  al  foco, 

Alle  fiamme  crcdca  ire  volte  e quattro, 
Adorando  del  Sol  1*  ardente  iminago. 
Fiammeggia  *1  seme  acceso,  e ’l  sacro  fumo 
Con  adorate  nubi  ondeggia  c spira, 
Talch’egli  aggiunge  agli  stagnanti  campi 
Di  Pelusio;  e spargendo  odori  intorno, 
Di  sè  riempie  gli  Etiopi  e gl*  Indi. 
Meravigliando  alla  mirabil  vista 
Traggc l'Egitto,  c *1  peregrino  augello 
Lieto  saluta,  e festeggiando  onora 
Repente  : e la  sua  forma  in  sacri  marmi 
Scolpita,  è in  lor segnato  *1  nome  e*l  gior- 
O fortunato,  e di  te  padre  e figlio,  [no. 
Felice  augello,  e di  te  stesso  erede. 
Nutrito  e nutritor,  cui  non  distingue 
Il  vario  sesso  e lunga  età  vetusta 
Non  manda,  come  gli  altri , al  fine  estremo  : 
Nè  Venere  corrompe,  o *1  suo  diletto 
Non  cangia  indebolito,  e vati  dissolve  : 
Cui  di  Venere  in  vece  è lieta  morte, 
Onde  rinasci  poi  l'  istesso  ed  altri, 

E colla  morte  immortai  vita  acquisti. 

Tu , poiché  la  vecchiezza  i mari  e i monti 
Cangiato  ha  quasi,  c varialo  *1  mondo, 
Perpetuo  ti  conservi,  c quasi  eterno, 

A tc  medesmo  ognor  pari  c sembiante. 

E tu  se’  pur  del  raggirar  de’  tempi , 

E de*  secoli  tanti  in  lui  trascorsi , 

Di  tante  cose  e di  tant’  opre  illustri 
Sol  testimonio,  o fortunato  augello  : 


DEL  MONDO  CREATO.  153 

E felice  vieppiù,  perch’a  noi  mostri, 
Quasi  in  figura  di  colori  e d’auro, 

L' unico  Figlio  del  suo  padre  Iddio, 

Dio,  com’  è *1  padre  a lui  sembiante  e pari. 
E la  Natura  col  tuo  raro  esempio 
Insegna  pure  all'animosa  mente 
(S’ella  dubita  mai)  com’Ei  risorga 
Dalla  sua  morte,  c dal  sepolcro  eterno. 

E benché  nostra  pura  e’nvitta  fede 
Abbia  lume  più  chiaro  onde  c’  illustri. 
Te  non  disprezza,  e con  perpetuo  onore 
Il  tuo  bel  nome  al  suo  Fattor  consacra, 
Cli*  è sommo  Sole,  ond*  ha  sua  luce  il 
Soie. 

Fallo  avea  tutto  ornai  gli  umidi  campi , 
Ch*  agitar  suole  *1  vento  obliquo,  o l’ onde, 
Co’ propri  abitatori  il  Padre  eterno, 

S’ abitatori  pur  dell’  aria  vaga 
I volatori  augelli,  e non  più  tosto 
Son  della  terra,  ond’  hanno  ’l  cibo  e ’l  volo  ; 
Quand’  egli  vide  *1  suo  lavoro  e l’opre 
Tutte  esser  buone,  c gli  animai  feroci 
Buoni  pur  anco  : e sua  bontate  impressa 
In  lor,  qual  nota  del  suo  Mastro  o segno; 
Però  gli  benedisse.  E ’n  questa  guisa 
Disse  : Crescete;  e numerosa  prole 
Tutte  Tacque  riempia,  e ’n  sulla  terra 
In  gran  numero  ancor  s’ avanzi  c cresca 
Ogni  progenie  de’  volanti  augelli. 

E della  santa  voce  il  santo  impero 
Ancora  è certa  e ’nvlolabil  legge. 

Perchè  dopo  tanl’anni  c tanti  lustri; 
Tanti  secoli,  a volo  ornai  trascorsi 
Da’principj  del  mondo  a quest’estrema 
E tarda  etate,  in  cui  s’appressa  *1  fine  ; 
Nè  progenie  di  lor,  nè  fera  stirpe, 

0 per  diluvio,  o per  Incendio  ardente, 

0 per  lunga  mortale  orrida  peste, 

0 per  lor  feritale,  o per  T insidie 
D’ umano  Ingegno,  o per  P orribil  armi 
Estinta  non  rimase,  o scema  unqnanco  ; 
Ma  quasi  eterna  si  perpetua  c serba. 
Tanta  della  divina  c santa  Voce 
E la  virtù  che  lor  difende  c guarda  ; 
Perchè  sia  appieno  e ’n  ogni  parte  adorno 
Questo  che  tutti  abbraccia  e tutti  accoglie 
Nell’  ampissimo  sen,  capace  mondo. 

Cosi  fu  fatto;  ed  al  mattino  il  vespro 
Giungendo,  impose  fine  al  Quinto  Giorno. 


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154 


POEMI  SACRI. 


GIORNATA  SESTA. 

Nella  quale  creò  Dio  ogni  specie  di  Bruii  e l'Uomo. 


Là  dove  innalza  '1  celebrato  Olimpo, 
Creduto  degli  Dei  lucente  albergo, 

Sovra  tutte  te  nubi,  c sovra  i venti 
Nell’aria  quota  la  serena  fronte, 

E dove  Alfco  nelle  sue  Iucid'  onde 
Portar  solea  già  l’ onorata  polve 
De’  vincitori,  a coi  le  membra  asperse. 
Propose  i vari  prenij  a' giuochi  illustri 
L'antica  Pisa  : e i più  veloci  c i forti 
Vide  sovente  in  dubbia  lotta,  o ’n  corso 
Affaticati  : e i cavalieri  e i cai  ri 
Colle  fervide  ruote  all’  alla  meta 
Girarsi  intorno,  e ’n  varie  altre  contese 
Ricercar  pregio  e fama  e chiaro  grido  : 

E vide  a prova  ancor  sublimi  ingegni 
Far  di  sè  paragone,  e ’n  dolce  canto, 

0 con  soave  pur  faconda  liìigua 
Gli  udì  maravigliando;  e ben  conobbe 
Che  pari  non  arca  mercede  o palma  : 

Ma  1 primi  di  nelle  tenzoni  antiche 
Talvolta  scn  (lassar  dubbiosi  e ’ncerti 
Senza  corona,  e sol  nel  giorno  estremo. 
In  cui  maggior  fu  la  fatica  e ’l  risco 
Del  contrastare,  o ’l  vergognoso  scorno 
DI  ceder  vinto,  diede  i cari  pregj 
Fermo  giudicio  al  vincltor  felice  : 

E rimbombar  d’ intorno  il  cliiaro  nome 
Udissi  al  suon  della  canora  tromba. 

Ma  in  questo  quasi  agone  e quasi  campo 
Di  sapienza,  ov*  adoriamo  assiso 
In  altissima  sede,  a Dio  sembiante. 

Quel,  cui  permise  ’l  giudicarne  in  terra 
Giudice  non  severo,  anzi  clemente  ; 

Più  sollecita  cura,  e più  gravosa. 

Cura  incerta  d’ onor  ne  preme  e ’ngombra 
Nel  giorno  estremo,  e nell’  estremo  corso  ; 
In  cui  di  faticosa  aspra  contesa 
Quasi  corona,  o premio  è posio  innanzi, 
Dura  pena  all*  incontro  altrui  minaccia. 
Già  non  è pari’l  giuoco,  e pari  ’l  frutto 
Tra  quel  che  lotta  col  nemico,  o canta 
Al  dolce  suon  delle  sonore  corde, 

E’1  mio  (se  lece  dir)  contrasto  indegno; 
Gli’  ivi  ’l  periglio  è sol  fastidio  e scherno 
Degli  udi  tori  : e ’n  questo  è danno  e morte. 

Amici,  adunque  a me  pietoso  aiuto 
Date,  vi  prego,  e quasi  lena  e spirto  : 

E di  par  meco  entrate  in  quest’  adorno 


Maraviglioso,  grande,  ampio  teatro 
Delle  cose  create;  in  cui  mirando 
Il  magistero  del  gran  Padre  eterno , 

Quasi  per  gradi  alziam  la  pura  mente 
All’  invisibil  suo  felice  Regno, 

Ove  gli  ultimi  premj  altrui  rìserba. 

Nè  già  ricerco  io  qui  verde  ghirlanda 
D’allor  frondoso,  che  si  sfronda,  e perde 
In  breve  tempo  la  vaghezza  e ’l  pregio  : 

0 di  pallida  pur  famosa  oliva. 

Qual  da'  gran  fonti  già  del  gelìd’  Istro 
La  riportò  d’ Anfitrione  il  figlio; 

Ma  sieno  1 pregj  miei  salute  e pace 
In  terra,  e più  negli  stellanti  chiostri. 
Intanto  a voi  questa  corona  eccelsa 
È posta  innanzi,  e voi  medesmi  al  vostro 
Puro  giudicio  di  lodevol  opra 
Bramo  di  coronare.  Udite  adunque 
Con  pietosa  udienza,  o fidi  amici. 
L’aspra  natura  dell’ estranio  belve. 

Dell’  umil  gregge  e de’  terreni  armenti, 

E dell’  uom,  cui  di  terra  il  Padre  eterno 
Creò  dasezro,  c da  principio  umile, 
Formollo  imperioso  a scettro,  a regno, 

E di  vita  immortai  ; se  propria  colpa 
Non  era  a lui  di  faticoso  esigilo 
Dura  cagione,  e d’odiosa  morte.  [Gelo 
Poich’ebbe  ’l  grande  Iddio  spiegalo ’l 
Sovrano,  c stesa  ancor  l’ infima  terra, 

E fermato  ’l  ritegno  in  mezz’all’acque, 
Che  sovra  c sotto  le  distingue  e parte  ; 

E comandalo  che  s*  aduni  insieme 
Quella  Natura  instabile  e vagante  : 

E imposto  al  mare  ed  alla  terra  ’l  nome, 
E l’arida  di  piaute  ornata  e d’erbe; 

Indi  si  volse  a far  più  bello  ’l  Mondo, 

E died’al  giorno  ed  all’  algente  notte 
I duo’  lumi  maggiori  e più  lucenti, 

E tutti  variò  di  stelle  e d’ auro 
Con  diverse  figure  e vaghi  giri 
I primi  corpi,  e con  perpetue  tempre 
Maravigliosa  fé’  la  vista,  e ’1  corso. 
Poscia  prodotti  entr’ all’ondoso  grembo 
Dell’ acque  amare  e dolci  i vari  pesci, 

E nell’  aria  i volanti  e levi  augelli  ; 

Disse  Dio  Creator  (e  ’l  sacro  detto 
Fu  certo  impero,  c ’nvlolabil  legge) 

L*  anime  de’  viventi  ancor  produca 


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LE  SETTE  GIORNATE 
D’ogni  sorte  la  terra,  e ’n  quattro  piedi 
Altri  appoggi  ’l  corporeo  c grave  pondo 
Altri  nel  suol  disteso  ’1  porti  e serpa  : 

E la  progenie  anco  produca,  e figli 
Di  quali  nque  altro  va  rependo,  e insieme 
Colle  fere  produca  armenti  e gregge. 

Cosi  Dio  fece  le  terrene  belve, 

E le  cornute,  o pur  lanose  marni  re 
De7 mansueti,  e quei  ch’ai  suol  congiunti 
Strisciando  se  u’  andar  col  giro  obliquo. 
Dunque  animata  è quest’amica  Madre? 
Dunque  anima  ha  la  Terra,  oud’  ella  al  par- 
Quasi  femmina,  fu  bramosa  e pronta  ? [to, 
E loco  han  pure  1 Manichei  superbi 
Di  saper  vano,  c le  menzogne  antiche 
Di  chi  filosofando  c mente  e spirto 
Died’  a questa  mondana  ed  ampia  mole? 
Lo  qual  per  enlr’a  lei  trapassa  e spira. 
Confa  lor  parve,  e ’l  cielo  e l’ima  terra; 
E la  spera  del  Sol  lucente  e vaga, 

E ’l  globo  della  Luna,  e l’ auree  stelle; 

E dell’aria  e del  mare  i larghi  campi 
Nutre, e misto  al  gran  corpo  in  vari  modi 
Muove  agitando  le  diverse  membra? 

Ma  chi  vestire  osò  d’alma  spirante 
La  terra,  o volle  dar  sua  mente  al  mondo, 

E farlo  Dio,  non  che  spirante  e vivo 
Animai,  che  luti’  altri  accoglie  in  grembo  ; 
Male  intese  di  Dio  que’  sacri  detti, 

E ’n  peggior  parte  la  sentenza  torse. 
Perdi’ alma  non  avea  l’arida  terra; 

Ma  chi  le  comandò,  largille  ancora 
La  virtù  di  produrre  i nuovi  parti. 

Nè  quando  detto  fu  : Germogli  ’l  fieno, 

E ferace  di  frutti  il  verde  tronco; 

Ella  ’l  produsse  alior,  siccome  occulto 
Il  si  tenesse  nel  profondo  seno  : [elee. 

Nè  palma,  o quercia,  o l>cl  cipresso,  od 
Pur  come  ascoso  dal  fecondo  ventre 
Dì  fuor  mandò  sovra  l’ inculto  suolo; 

Ma  delle  cose,  che  si  fanno,  o fersi, 

E il  divino  parlar  natura  e vita. 

Dunque  quando  ’l  Signor  disse  : Germogli; 
Intese  in  sua  divina  alta  favella  : [bo, 

Non  cacci  fuor  quel  che  raccoglie  In  greni- 
Ma  quel  eh’ ella  non  ha,  di  nuovo  acquisti; 

E la  forza  a lei  diede  il  Padre  eterno. 

E ’n  questa  guisa  or  le  comanda,  e dice  : 
Produca  l’alma;  c non  dell'alma  innata 
Intender  vuol,  ma  di  virtù  largita 
Colla  mirabil  sua  divina  voce.  [so; 
Ma  non  comanda  all*  acque  al  modolstes- 
Sol  l’impone  il  produrchi  serpe  e striscia 


DEL  MONDO  CREATO.  1S& 

Coll’ alma  viva  : od  alia  terra  impone 
Che  partorisca  P anima  vivente. 

E cosi  disse  Dio,  se  dritto  estimo, 
perchè  nell’  acque  agli  umidi  notanti 
Compartir  volle  men  perfetta  vita; 

E men  degna  natura  : e quinci  avviene 
Ch’  entr’  al  denso  elemento,  e ’rnpuro  emi- 
Abbian  via  men  acuti  e puri  i sensi,  [sto 
Grave  è l’ udire,  e ’l  lor  vedere  ottuso, 

E memoria  non  hanno,  c non  s’imprime 
Nel  senso  interno  immaginata  immago. 
Nè  contezza  è fra  loro,  o per  lung'uso 
Notizia  alcuna,  onde  ’n  si  rozza  vita 
La  carne,  e ’l  ventre  signoreggia  e regna. 
Ma  ne’  terrestri  Imperatrice  e donna 
E P alma  in  guisa,  ebe  talor  si  crede 
Che  di  ragione  e d*  immortale  ingegno 
Eli’ abbia  larga  partee  ricca  dote. 

Interi  i sensi,  c ne’  presenti  oggetti 
Acuti  sono,  c del  passato  impressi 
Alti  vestigi,  c non  dubbiose,  o ’nccrte 
Son  le  memorie  ; e lor  virtù  non  (angue. 
E colla  voce  non  oscura  i segni 
Sogliono  dar  de’  loro  interni  affetti. 

E quinci  ’n  lieto,  o ’nsuon  dolente  c mesto. 
L’allegrezza  si  mostra, o ’J  duolo  appare, 
0 di  cibo  ’l  desio  di  fuor  si  scopre, 

0 rimbomba Pamor  ch’entro  gl'  iniìamnia, 
E non  può  starsi  in  fero  petto  ascoso 
Sotto  tenera  lana,  o duro  ed  aspro 
Ispido  vello  : onde  *1  belar  dell’agno, 

E ’l  nitrire  e ’l  ringhiar  son  quasi  note, 

E ’l  latrar,  1*  ululare  in  monte  c ’n  bosco, 
0 pur  lungo  un  corrente  e chiaro  fiume 
E ’l  muggir  e ’l  ruggir,  d’affetto  interno. 
Mill’ altri  affetti  ancor  con  mille  voci 
Suol  variando  dimostrar  Natura. 

Dall’  altra  parte,  degli  ondosi  regni 
L’errante  abitator  non  solo  è muto, 

Ma  immansueto,  e dall’  usanza  abborre 
Dì  nostra  vita,  e per  lusinga  o vezzo 
Mai  non  s’ avvezza,  e nulla  apprende,  o 
prende 

Di  nostra  umanità  : ma  schiva  e fogge 
D*  esser  consorte  all’anima  che  regna. 

In  questa  guisa  Dio  creò  nell’ acque 
Corpi  animati,  e nella  terra  ei  volle 
L’  alme  crear,  da  cui  si  regge  *1  corpo. 
Quinci  ’l  suo  posscssor  fu  nolo  al  bve. 
Conobbe  P asine!  l’ umil  presepio 
Del  suo  signor  ; ma  non  conobbe  ’l  pesce 
Il  nutritor  : tale  entro  P acque,  e tanto 
Fu  lo  slupor  dì  tardo  e grave  scuso! 


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i SC  POEMI 

(Conobbe  P asine!  l’usata  voce, 

E conobbe  la  via  eh*  egli  trapassa, 

E fu  duce  talora  all’ uomo  errante 
Nell’ incerto  seiitier,  ond’  ri  travia. 

Nè  di  più  acuto  udire,  o più  sottile 
(Se’l  ver  si  narra)  altr’ animai  terrestre 
Vantar  si  può  soli'  a si  rozze  membra; 
Ma  nel  cammello  portatore  estrano 
Di  graii  pesi,  ed  Affricati  deforme, 

È dell* ingiurie  alta  memoria  c salda, 

Ed  ira  grave  al  vendicar  costante; 

E percosso  talor  l’ira  profonda 
Lunga  stagion  riposta  in  scn  riserba, 

Pur  come  estinta,  c la  ripiglia  a tempo, 
Rendendo ’l  male  c ’l  ricevuto  oltraggio. 

Udite  voi,  che  di  virtulc  in  guisa 
La  memoria  dell’ onte  in  voi,  di  sdegno 
E d’astio  e di  rancor  nutrite  occulta, 
Udite  ’l  paragone,  a cui  sembianti 
Fate  voi  stessi,  mentre  Tire  ascose 
Tenete  pur,  come  fav  file  ardenti 
Solt’inganncvol  cenere  sepolte  : 
Ch’accendendosi  poscia  in  secco  legno, 

0 ’n  arid’esca,  fiammeggiar  repente 
Sogliono,  c rinnovare  ’l  foco  estinto. 

In  colai  guisa  l’anima  superba 
Fu  ne’ bruti  prodotta,  c voi  l’ esempio 
Seguite  pur  delle  sdegnose  bel\c. 

Ma  qual  si  fosse  già  nel  primo  parlo 
L’alma  loslra  immortai,  fia  noto  appresso: 
Or  detrattila  ferina  a voi  si  paria. 

L*  alma  d' animai  fero  è vita  c sangue  : 

Ma  *1  sangue  ’n  carne  si  condensa  c cangia  : 
E la  carne  corrotta  alfin  in  terra 
Pur  si  risolve;  onde  mortale  è l’alma 
Di  feroce  animale,  anzi  piuttosto 
Un  non  so  clic  di  morto.  Udite  adunque 
Perdi’  alla  terra  Dio  produrre  impose 
L’anima  de*  viventi  : c come  segua 
Che  l’alma  in  sangue  si  trasmuti  e volga, 
E*l  sangue  in  carne,  e quella  carne  in  terra, 
E per  le  stesse  vie  si  \olge  e riede 
La  terra  in  carne,  c poi  la  carne  in  sangue, 
K ’l  sangue  in  alma;  onde  ritrovi  e vedi 
Che  t'anima  de’  bruti  è sangue  e terra. 

E non  pensar  che  piu  del  corpo  antica 
Sia  l' alma  fera,  onde  rimanga  in  vita 
Poscia,  che  ’l  suo  mortale  estinto  giacque  ; 
Ma  riconosci  le  cangiate  forme, 

E i variati  giri  ; c fuggi  intanto 
Degl’ ingegnosi  le  canore  ciance, 

Che  starlan  meglio  in  lor  silenzio  occulte. 

Non  hanno  questi  pur  rossore  c scorno  i 


SACRI. 

Di  far  che  1*  alma,  onde  uom  ragiona  e ’n» 
tende. 

Sia  quella  stessa  onde  latrando  ’l  cane 
Scn  corse,  e sibilando  empio  serpente. 

E fin  goti  sè  medesmi  in  varie  forme 
Esser  mutati,  c non  pur  servi  c regi 
Sott’a  lari  sembianti  c varie  membra 
Esser  già  stali  ; ma  vezzose  donne, 

0 pur  marini  pesci,  o piante,  o sterpi. 

E ciò  scrivendo,  più  di  pesce,  o tronco, 
Si  mostrati  di  ragione  ignudi  c d’alma. 

Ma  fra  tanti  superbi  c varj  ingegni 
Non  sorse  alcuno  in  quell’  età  vetusta. 
Clic  l’anima  stimasse  o limo,  o terra. 

Ma  seguendo  del  moto  o pur  del  senso 
(Incerti  duci)  le  vestigia  c I segui. 

Altri  la  credea  spirto  ed  aer  Icic, 

Altri  foco  sottile,  o vi\a  fiamma, 

Altri  pur  la  stimò  natilo  umore, 

Altri  lapor  da  quel  rumante  c misto  : 
Terra  nessun.  Cosi  la  Madre  antica. 

La  Terra,  dico,  clic  produce  c figlia 
L’alma  dc'iiii,  quasi  inculto  germe. 

Fu  defraudata  allor  del  proprio  onore 
Da  que' superbi,  c ’u  contrastar  costanti, 
E discordi  fra  lor  ritrosi  ingegni. 

Ma  noi  rendiamo  aita  gran  Madrcantica 
L’otior  dovuto  del  suo  nobil  parlo; 

Esita  figlia  chiamiain  l’alma  spirante 
Di  feroce  animale.  Or  non  ci  caglia 
Se  nuì’a  ora  di  nuovo,  n di  vetusto 
Delle  figure  della  vasta  Terra 
Osiamo  d*  affermar  con  certe  prove, 
Ouasi  giudici  giusti  in  tanta  lite. 

Perdi’ altri  mol  ch'ella  figura  e forma 
Abbia  di  sfera:  altri  la  laria  r finge, 
Otias»  un  cilindro,  c simigliarne  ai  disco  : 
Altri  la  fa  come  sia  cesta,  od  aia, 

>acua  e cava  nel  mezzo,  c d’ogni  parte 
Pur  egualmente  la  polisce  ed  orna. 

E que!,  che  ratto  immaginando  al  Cielo 
Fu  come  scrisse  ne’  toscani  carrai, 

Indi  pur  vide,  o di  veder  gli  parve 
La  Terra,  che  ci  fa  tanto  feroci , 

Quasi  una  bassa  e picciolctta  aiuola; 

Ma  pur  in  giro  ei  la  circonda  e forma. 

Ed  altri  ancor  nelle  due  estreme  fasce, 

E nell’ ampia  di  mezzo  e larga  zona 
La  privò  d'abitanti  : c nuda  ed  erma, 

E con  squallido  aspetto  orrido  in  vista 
La  ci  dipinse,  c ’n  alla  nei  e c ’n  gelo 
Sepolte  figurò  le  parti  estreme. 

E ’l  maggior  cinto  dalle  fiamme  acceso 


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LE  SETTE  GIORNATE 
Sol  due  ione  lasciò  soggette  al  Sole , 

Che  mai  per  dritto  non  rinfiamma  e scalda. 
In  due  grandi  endsperi,  c sempre  avverso 
Fa  con  obliqui  raì  più  dolci  tempre. 

E noi  ]'una  abiiiam,  chè  quinci  c quindi 
Yiviam  ristretti  in  breve  spazio  angusto 
Dal  gel  perpetuo,  o dall’ardor  soverchio. 
L'altra  soli’  altro  ciel  barbare  genti 
Accoglie,  a cui  sparito  è il  Carro  e l’Orsa. 
Ma  la  novella  età  discopre  e mostra 
Ch'ogni  di  lei  gelata,  o accesa  parte, 
L'uom  dalla  prima  sua  terrena  stirpe 
Duro  animai  costante  alberga  c pasce. 
Talché  non  sembra  l’abitala  terra 
Timpano  più  come  affermando  insegna 
Il  gran  maestro  di  color  che  sanno: 

Nè  'il  Torma  di  lorica  agli  occhi  appare; 
Ma  pur  in  cerchio  si  rivolge  e gira , 

Di  pomo  in  guisa  che  si  fende  ed  apre. 
Isola  no,  che  non  si  giace  in  seno 
Al  gran  padre  Ocean,  ma'l  tiene  in  grembo, 
Come  osa  d’ affermar  l’età  novella. 

Che  per  troppo  veder  men  alto  intende. 
Ma  sia  di  ciò  quel  che  ragione  e senso 
Può  dimostrar  ne’  più  vicini  obbietti. 

Or  tacciam  sue  figure,  c i larghi  spazj 
Non  misuriam  qual  geometra  in  giro, 

E non  vogliam  superbi  al  Re  del  cielo 
Pi  sapere  agguagliarci  e di  possanza. 
Perch’  ei  la  terra  nelle  man  rinchiuse  , 

E misurò  pur  colla  mano  i mari , 

E tutte  Tacque  insieme,  e ’lcicl  col  palmo: 
Chi  pose  i monti  spaventosi  in  libra? 

E’n  giogo i boschi  e Taspre  rupi  in  lance? 
Chi  tien  dell’ampia  terra ’l  largo  giro? 

E in  guisa  di  locuste  in  lei  dispose 
Gli  sparsi  abitatori  c'1  ciel  sublime. 

Quasi  camera  sua,  si  fece  in  volta. 

Se  non  il  Re,  che  lui  sostiene  e folce? 
Non  affermiamo  ancor  con  vano  orgoglio 
Quanto  T opaca  e tenebrosa  terra 
L*  ombra  fosca  ed  algente  innalzi  e stenda; 
Ni*  come  privi  di  splendor  T errante 
Luna,  quand’ella  giunge  ’nconlro  al  Sole: 
Nè  s*  ella  di  Ciprigna  ancora  adombra 
Il  vago  aspetto  eia  sua  luce  imbruni; 

Ma  tutti  siam  per  meraviglia  intesi 
Alla  voce  di  Dio , che  corre  c passa 
Alle  cose  create,  e compie  ’l  mondo 
Nelle  parti  di  mezzo  e nell’  estreme. 

Qual  ampia  spera, o pur  marmorea  palla, 
Ch*  è da  robusta  man  percossa  c spinta, 
Giunge  ’n  loco  pendente,  ed  indi  a basso 


DEL  MONDO  CREATO.  157 

Dal  sito  che  s’avvalla  e ’n  giù  declina, 

E dalla  propria  sua  volubil  forma 
Con  veloci  rivolte  in  giù  rotando 
Portata  va,  sinché  le  arresta  ’1  corso 
La  piana  terra , in  cui  si  giace  c posa  ; 
Tal  della  santa  voce  al  suon  commossa 
La  Natura  trascorre,  c passa  a dentro 
In  tutto  quel  che  nasce  csi  corrompe; 

E va  servando  ogni  progenie  e stirpe 
Simile  a sé,  lindi’  ella  al  fine  aggiunga. 

E del  cavallo  il  succcssor  corrente 
Fa  che  ci  nasca  ; c pur  sembiante  al  padre: 
Dal  tauro  ’1  tauro  con  sue  dure  conia  : 
Dal  superbo  leon  villoso  ’l  tergo 
Nasce  ’l  leone,  ed  ha  pungente  artiglio: 
E ’nsicmc  col  leon  T impeto  c T Ira 
Nacque,  c quel  suo  magnanimo  disdegno. 
Onde  Tumil  nemico  a terra  steso 
Trapassa  alteramente,  e non  l’offende  ; 
Nacque  T amor  di  solitaria  vita. 

Per  cui  sprczzaicompagni,cquasi  abbor* 
E per  deserte  arene,  o ’n  alta  selva  [re. 
De’  Mauritani,  o de’  Numidi  errante 
In  caccia  c ne’  perigli  ci  va  solingo, 

0 pur  fra  ’l  Nesso  e l’Acheloo  corrente, 
Dov’  i leoni  producea  l’Europa. 

E ’n  guisa  di  possente  aspro  tiranno, 

E per  natura  indomito  e superbo, 

Nè  degna  egual,  nè  dell* estremo  cibo 
Pascer  la  cruda  sua  fame  profonda  : 
Cotanto  schiva  il  disdegnoso  gusto 
L’avanzo  di  non  presa  immonda  preda. 
Si  larghe  canne  ancor  le  diede  ’n  sorte 
Natura,  e grande  c si  Porribil  voce. 

Clic  l'alto  suo  ruggir  di  tema  ingombra 

1 più  veloci  e i più  leggieri  al  corso, 

E sbigottito  alfin  gli  arresta  e prende: 

Ma  dopo  ’l  pasto  egli  è giocoso  e lieto, 

E festeggiando,  con  gli  amici  ei  scherza 
Quasi  di  nulla  tema  e non  sospetti. 

Poi  fatto  grave  nell’età  vetusta, 

E lardo  in  caccia,  osa’l  feroce  veglio 
Alle  città  dar  periglioso  assalto, 

E gli  uomini  Infestar  fra  l’ alte  mura. 

Ma  questa  cosi  fiera  orrida  belva, 
Quando  più  superbisce, e’n  maggior  rabbia 
Divenuta  crudel  lo  sdegno  accende , 
Teme  d’ardente  face,  e fugge  M foco. 

E sbigottito  ancora  ei  fugge  ’l  gallo, 

E impaurito  è più  dove  biancheggia 
Il  bel  candor  delle  spiegate  penne. 

E la  pantera,  impetuosa  belva , 

È repente  agitata  : a’  varj  moti 


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158  POEMI 

Dell’  alma  sua  veloce  ha  ’1  corpo  acconcio, 
E le  membra  pieghevoli  e leggiere. 

E delle  macchie  sue  quasi  dipinto 
Mostra  ’l  bel  pardo  variata  pelle  : 

Ed  ascondendo  ’l  suo  feroce  aspetto, 
Colla  pittura  delle  spoglie , alliec 
I semplici  animali,  e troppo  incauti: 

Cosi  gli  prende,  c ’nsidlosa  fraudò 
Le  giova  più  nella  selvaggia  preda, 

Che  ’l  suo  corso  veloce,  o ’l  leggier  salto. 
Ma  l'orsa  è neghittosa  e pigra  e tarda, 

E di  costumi  occulti  e'n  alto  ascosi  : 

E di  simil  figura  ammanta  e veste 
L' alma  feroce  : ha  grave  e rozzo ’l  corpo, 
Quasi  Indistinta  e mal  composta  mole. 
Ch'  entro  l’ algente  ed  orrida  spelonca 
Ha  sue  latebre,  ove  s' agghiaccia  ctorpe. 
Ma  poscia  nel  furor  s’ infiamma  c ferve 
E cerca  d'ogni  ingiuria  aspra  vendetta. 

E ’neontr’  al  ferro  ella  s’ avventa  e ruota 
Ne’monti  alpestri  e piaga  aggiunge  a piaga, 
Correndo  quasi  a volontaria  morte. 

Ma  pur  con  lingua  industre  Informa  e finge, 
Di  fahbroln  guisa,! suoi  deformi orsacchi. 
E tu,  più  rozzo  assai  d’orsa  silvestre, 

I costumi  de’  figli  Incolti  ed  aspri, 
Mcntr’  ò retate  ancor  tenera  c molle , 
Non  formi,  non  polisci  c non  adorni? 
Nò  ’n  pietosa  opra  hai  lusinghiera  lingua. 
Ma  In  officio  crude!  pungente  c dura? 

E l'orsa  ancora  alle  sue  proprie  piaghe 
Sa  (com’insegna  la  Natura  industre) 
Ritrovare ’l  rimedio,  onde  risana; 
Perchò,  quando  più  son  profonde  e gravi. 
Col  verbasco  le  tura,  e l'arid'  erba 
Terge  la  parte  sanguinosa  c secca, 

E la  serpe  d’inferma  c scura  vista 
Di  finocchio  si  nutre  : e cosi  scaccia 
Quell’  Infelice  umor  che  gli  occhi  appanna. 
L’ aquila  ancor  colla  lattuca  agresto 
Conferma  ’1  vacillante  e dchil  lume; 

La  testmline  allor,  che  ’l  fero  tosco 
Della  serpe  rancide,  e dentro  serpo 

II  pasciuto  velcn , salute  e vita 
Dall’orìgano  cerca,  e non  indarno. 

E l' egra  volpe  in  discacciar  la  morte. 
Che  le  sovrasta,  usa  nel  proprio  male 
Due  lagrimctte  di  stillante  pino. 

E la  montana  capra,  allorcli’ afiisso 
Di  pennata  saetta  in  mezzo  al  fianco 
Ha  ’l  duro  ferro,  medicar  sò  stessa 
Sa  con  quell'  arte  che  Natura  insegna  : 

E dittamo  pascendo , il  duro  strale 


SACRI. 

L’ esce  por  dair  interna  c grave  piaga. 
Della  scimia  ’l  Icon  languente  ed  egro 
Avidamente  cerca  ’l  fero  pasto. 

E beve  ’l  pardo  della  capra  ’l  sangue. 

E pasce  i ramoscel  d'olivo  il  cervo. 

E tu  dell’  alma  tua  languida  a morte, 

11  rimedio  non  trovi?  e non  conosci 
La  vera  medicina?  e non  delibi 
Succo  vltal  dalle  sacrate  carte? 

E i presagi  del  tempo  ancora  insegna 
Mastra  Natura,  c'I  variar  del  cielo 
Dal  caldo  al  freddo,  dal  sereno  al  fosco; 
E qual  tempesta  indi  minacci,  o tutbo. 
Talché  in  antiveder  la  pioggia  e i venti, 
E le  procelle  torbidi  e sonanti 
Talor  men  dotti  son  gli  umani  ingegni , 
La  pecorella  all’  appressar  dei  verno 
DI  largo  cibo  sì  provvede  e pasce. 

Quasi  antevegga  la  futura  Inopia, 

Che  l’oscura  stagion  gelando  apporta  : 

E 1 buoi  rinchiusi  nel  più  freddo  tempo 
Entr'  alle  calde  loro  Immonde  stalle. 
Quando  la  primavera  a noi  ritorna. 
Mossi  dal  lor  nativo  e certo  senso 
I.a  domita  cervice,  e ’1  collo  irsuto 
Stendono  oltr’i  presepi,  e pur  guardando 
bramati  d' uscire  al  tepido  sereno. 
L’istrice  ancor  nelle  sue  proprie  lustre 
Fa  doppia  quasi  porta , onde  respiri  : 

E di  lor  una  ò volta  al  nobil  Austro, 

E l'altra  al  fiato  d' Aquilone  algente; 

E se  teme  di  Dorca  '1  fiero  spirto, 

(lontra  ’lScltentrion  si  tura  ’l  varco; 

Ma  se  ’l  vento  afTrican  l' offende  e turba , 
Quel  suo  foro  ventoso  incontra  chiude, 
E si  ricovra  alla  contraria  parte. 

E quinci  chiaramente  a'  sensi  appare 
Che  l' alta  Prov  v idenza  in  ogni  lato 
Trascorre  e passa,  e ’l  tutto  adempie  ed  or* 
E per  le  cose  eccelse  c per  le  illustri  [ua: 
Non  mette  ella  in  non  cal  l' oscure  e basse; 
Ma  nel  vile  animai  un  certo  senso 
Suol  destar  nel  futuro,  onde  provveggia 
Egli  asò  stesso.  E l’uom  mai  sempre  intento 
Si  starò  nel  presente , e quasi  a bada 
Senza  pensar  nella  futura  vita? 

Deh  ! rimiri  T lodato  e raro  esempio 
Della  formica  faticosa  e 'ndustre. 

Che  ’l  vitto,  onde  si  pasca  al  freddo  vento, 
Rlpon  la  state  : e benché  lungo  ancora 
Sian  di  stagion  molesta  i giorni  algenti , 
Neghittosa  non  cessa,  e non  s'allenta 
l.a  negra  turba  ; anzi  sò  stessa  av  vezza 


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LE  SETTE  GIORNATE  DEL  MONDO  CREATO.  159 


Nelle  fatiche , e per  gli  adusti  campi 
Pene  l’opra  non  men,  che  l’orac’l  giorno. 
Sin  ch'abbia  ne'  snoi  spechi  ’l  gran  riposto. 
Essa  coll'  unghie  proprie  incide  c sega 
1 cari  frutti,  e'nmniditi  al  Sole 
Gli  asciuga  e secca  j e 1 bel  tempo  sereno 
Spiando , gii  prevede  i lieti  giorni  ; 
Talché,  (pianti"  ella  i grani  a’ raggi  espone. 
Pioggia  non  stilla  dall’  oscure  uubi , 

E di  sereniti  I*  Indicio  è certo. 

Quinci  ripon  nelle  sue  celle  anguste 
L'asciutta  messe,  e poi  la  serba  e parte  ; 
Custode  e dispensiera  e ’ntenta  all'oprc. 
E non  sol  mentre  ’l  Sole  accende  I campi. 
Ma  le  fatiche  sne  notturne  ancora 
Dal  ciel  rimira  la  rotonda  Luna  ; 

E quelle  più  serene  e calde  notti 
Tolte  al  dolce  riposo , al  queto  sonno, 

E giunte  al  travagliar  continuo  e lungo. 
Tanta  In  minuto  corpo  industria  c lena 
Di  spirto  infaticabile  e ’ngegnoso 
Pose  Natura , eh’  è miratiti  madre  ; 

Anzi  della  Natura  il  sommo  Padre 
Tanta  virtù  le  diede  in  raro  dono. 

Ob  come  grandi  sono,  oh  come  eccelse. 
Come  meravigliose , o Mastro  eterno , 
Tutte  l' opere  tue , che  tu  facesti 
Con  Infinita  sapienza  ed  arte! 

Ma  noi  nepoti  del  vetusto  Adamo , 

Pur , quasi  doni  di  natura  e doti , 
Abbiam  molle  virtù,  che  proprie , e nate 
Coll’ ignudo  bambin  d’ un  seme  istcsso 
Sono,  ed  uscite  da'  materni  chiostri. 

Nè  legge , od  arte , o pur  antica  usanza , 
0 nuovo  esempio  le  dimostra  c ’nsegna, 
All'  alma  ancora  semplicetta  e vaga , 

Che  pargoleggia  eulr’  alle  molli  membra; 
Ma  sua  propria  vaghezza  e suo  desio 
L’ inchina , e move  con  amico  affetto 
Chi  ne  insegna  d’odiar  la  febbre  e i morbi 
Seguaci  c gravi,  ond'è  languente  ed  egra 
L’umanitatel  e d' abborrir  la  morte 
Senza  maestro  e sena’  altrui  consiglio  ? 
Non  arte , non  ragion , non  uso , o legge  ; 
Ma  quella , che  ne  fa  cotanto  amici 
A noi  medesmi , lusinghiera  c dolce 
Nostra  natura,  a noi  l'insegna  e detta. 

In  questa  guisa  ancor  la  nobil  alma 
Dechina  ’l  vizio , e volontaria  T fugge 
Sena’  altra  cura , o magistero , od  uso. 

E reggendo  Virtù , di'  è bella  in  Tista, 
Se  n lnvaghisce  e ia  ricerca  e segue; 
Talch'  è fuga  de’  vizi  il  primo  passo, 


Ond'eHa  i suo’  vestìgi  indrizza  ai  Odo. 
Ed  ogni  vizio  è male  interno  e morbo 
Dell’  alma  inferma,  e ’n  van  desire  accesa. 
E la  Virtù,  eh' è sempre  al  vizio  opposta, 
E saniti  dell’alma;  ond'è  nell'opre, 

E negli  offici  suoi  costante  c salda. 

E quinci  a tutti  la  Giustizia  è cara  ; 

È cara  la  Prudenza:  e grazie  e laude 
Ha  la  Modestia  : c ’n  più  miratiti  vista 
La  Fortezza,  virtù  dell'alma  invitta, 

( Malgrado  di  Fortuna  empia  e superba) 
S’onora  c cole,  e simolacrl  cd  archi 
Le  sono  alzali , c sacri  altari  e trmpj. 

E queste  ha  per  fedeli  e care  amiche 
L’alma  domesticata,  c se  n’ adorna. 

Più  che  dì  sanili , le  membra  c ’l  corpo. 

Amate  1 parili , o voi  pietosi  figli  : 

E voi , pietosi  padri , i figli  amate 
Senza  irritare  il  gioveniie  sdegno; 

Cliè  Natura  il  v’  insegna  e ven  costrìnge. 
S’ ama  la  leonessa,  orrida  belva , 

I pargoletti  suoi  ; se  ’l  fem  lupo 
Difende  I lupicinl , e ’nsino  a morte 
Per  lor  combatte;  avrà  suoi  nati  a scherno. 
Più  crudel  delle  fere,  il  erodo  padre? 
Tanto  rigor,  tant'  odio,  c tanto  nbblio 
Di  Natura  sari  nel  petto  umano  ? 

0 del  materno  amor  soave  e dolce 
Forza,  che  pieghi  la  feroce  tigre  , 

E dalla  preda , a cui  vicina  c stanca 
Corre  anelando,  la  rivolgi  indietro 
Alla  difesa  de’  suoi  cari  parti  ! 

Coni’  ella  trova  depredato  c sgombro 
li  suo  covil  della  gradita  prole  , 

Repente  corre  : e le  vestigia  impresse 
Preme  del  cacciator , che  seco  porta 
La  cara  preda  : e quel  rapido  innanzi 
Fugge  portato  dal  destricr  corrente  : 

E per  sottrarsi  alla  veloce  belva 
(Ch'altra  fuga  non  giova,  od  altro  scampo) 
Con  questa  fraude  d' ingegnoso  ordigno 
Delude  la  rabbiosa,  e sè  difende. 

Perchè  di  trasparente  e chiaro  vetro 
Una  palla  le  getta  innanzi  agli  occhi  ; 
Onde  schernita  dalla  falsa  immago 
La  si  crede  sua  prole , e ferma  ti  corso, 
E ['impeto  raffrena,  e il  dolce  parto 
Brama  raccor  nel  solitario  calle , 

E riportarlo  alla  sua  fredda  cava. 

E ritenuta  pur  dai  falso  inganno 
Delle  mentite  forme , anco  ritorna 
Ma  più  veloce  assai  (ch’ira  l’affretta) 
Dietr’  a quel  predator  eh'  innanzi  fugge, 


t 


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160  POEMI 

E gli  sovrasta  ornai  rabbiosa  al  tergo. 

Ma  quel  di  nuovo  col  fallace  obbiclto 
Dello  speglio  bugiardo  aflrena  c tarda 
Il  corso  della  tigre,  c si  dilegua. 

Nè  dalla  madre  per  obblio  si  perde 
ta  sollecita  cura,  e ’l  proni’  amore. 

Ma  l’ infelice  si  raggira  intorno 
A quella  vana  e 'ugannatrice  immago, 
Quasi  dar  voglia  a’  propri  figli  il  latte. 

E ’n  questa  guisa  la  schernita  belva 
La  cara  prole,  e la  vendetta  ancora 
Perde  in  un  tempo,  eh*  è bramata  e dolce. 
E se  ’n  tal  guisa  suol  amar  la  tigre  , 

O la  consorte  del  Icon  superbo  , 

0 del  famelic’  orso , i propri  figli  ; 

Qual  maraviglia  fìa , s’ amar  tediassi 
La  mansueta  ed  innocente  agnella 

E la  cerva  selvaggia  c fuggitiva 
Il  dianzi  nato  ancor  tenero  parto? 

Fra  molte  pecorelle  in  ampia  maiidra 
Il  semplicetto  ignei, scherzando  a salti, 
Esce  dal  chiuso  ovile,  e di  lontano 
Ei  riconosce  la  materna  voce. 

E ricercando  dal  suo  proprio  latte 

1 dolci  fonti  affretta ’l  debil  corso: 

E dove  sian  le  desiate  mamme 

Vote  del  proprio  umore,  ei  se  n’appaga, 
Nò  fugge  l’ altre  più  gravose  e piene  : 

Ma  le  tralascia:  c ’l  suo  dovuto  cibo 
Sol  dalla  madre  sua  ricerca  e brama. 

La  madre  ’i  dolce  e pargoletto  figlio 
Fra  mille  e mille,  al  suo  brlar  conosce. 

In  questa  guisa  di  ragion  sublime 
Ogni  difetto  un  largo  senso  adempie. 
Che  per  natura  in  umil  greggia  abbonda, 
Forse  acuto  vieppiù  del  nostro  ingegno. 
Ma  nel  suo  partorir  solinga  cerva 
Mostra  vieppiù  d'accorgimento  e d’arte, 
D’altr’ animai,  in  cui  sia  parte,  o seme 
Di  provvidenza , c di  ragione  industre. 
Però  piuttosto  alla  pietatc  umana 
De’  suoi  cerbiatti  crede  ’l  novo  parto , 
Delle  fere  tremende;  e l’ aspre  rupi, 

E le  selvagge  lustre,  c i lochi  incubi 
Fugge  la  paurosa  : e dove  scorge 
De’  piedi  umani  le  vestigio  impresse 
Press’  alle  vie  da  lor  calcate  e corse , 

Ivi  sicura  ’l  suo  portalo  espone  : 

E dell’  erba  siSiclia  ivi  si  pasce, 

0 nelle  stalle  qui  ricovra,  c scampa 
Gli  artigli  e i denti  di  selvaggia  belva: 

0 dura  cuna  in  rotta  pietra  elegge 
Là  dove  s' apre  un  solo  e picciol  varco , 


SACRI. 

E i pargoletti  suoi  difende  e guarda , 

E lor  da  quattro  mamme  il  latte  istilla , 
E da  due  mamme  quelle  a cui  Natura 
Fu  di  tal  nutrimento  avara  e parca. 

E perdi’  ella  di  tele  amaro  è priva. 

Ha  lunghissima  vita  ; onde  talvolta 
Candida  appare , e nel  condor  senile 
E venerata  dall’  amiche  genti  : 

Siccome  quella,  che  sen  giva  errando 
Libera  e sciolta,  in  solitaria  chiostra. 
Che  liberolla  ’l  suo  felice  Augusto. 

La  vaga  fama  alla  famosa  cerva 
Le  corna  d’oro  ancor  figura  e finge, 

E le  circonda  di  monile ’l  collo; 

Ma  dell’onor  delle  ramose  corna, 

E di  questa  nativa  altera  pompa 
La  Natura  privollc,  avara  madre: 

E ne  fu  più  cortese  e larga  a*  cervi. 

I quai  le  soglion  rinnovar  sovente  : 

E lasciando  le  vecchie  a terra  sparse 
Dal  proprio  peso,  onde  son  piene  e dense. 
Rifar  le  nuove  alla  superba  fronte  ; 

E ciascun  anno  un  lungo  c nuovo  ramo 
Aggiunger  pur  delle  ramose  corna; 

Dalle  quali  anco  germogliò  talvolta 
L'odra  seguace  frondeggiando  in  alto. 
Oh!  meraviglia,  onde  Natura  accrebbe 
Vaghezza  e pompa  all’ animai  fugace, 
Ch’è  pur  fugace,  c paventoso  c vile 
In  cosi  altero  c così  fero  aspetto, 
Armato  di  sue  lunghe  e inutili  arme. 

E ’l  suo  gran  core,  onde  ’l  formò  Natura, 
Non  è d’ orgoglio , o d’orgoglioso  ardire, 
Ma  di  viltate  c di  timore  albergo. 

E in  guisa  pur  di  timidetta  lepre 

II  suo  liquido  sangue  appena  ha  fibre. 

E quinci  avvienche  non  s’accoglie  cstrin- 
Tenace  e saldo, ma  simiglia  il  latte,  [ge 
Mal  senza  quaglio  appreso, onde  ci  trascor- 
Ma  talvolta  d’ainorc  acceso  e punto,  [re. 
Nella  stagion,  che  ’ntepidita  ’l  grembo 
Apre  la  verde  Terra,  e ’l  pigro  gelo 
Già  si  dilegua , e per  disfatta  neve 
Gorron  turbati  i rapidi  torrenti  ; 
Risveglia’!  cervo  al  cor  guerriero  spirto; 
E fa  battaglia , c di  ferire  ardisce , 

S’ alcun  per  l’alta  selva  a caso  incontra. 
Ed  allora  non  pur  le  tigri  c i lupi , 

E gli  orsi  informi  c la  dipinta  lince 
E’1  cinghiai,  che  fregando  al  duro  tronco 
L’ orride  coste,  di  tenace  fango 
Passi  alle  dure  spalle  aspra  lorica  ; 

Ma  cupida  d’ amor  la  fera  madre 


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LE  SETTE  GIORNATE 
Erra,  obbliando  i pargoletti  inermi, 
Cbenon  iian  fati’  ancor  gli  artìgli  c 'I  vello. 
E i più  timidi  ancora  in  furia,  c in  foco 
Sospinti  son  da  stimoli  pungenti. 
Smisurato  furor  conduce  e porta 
filtra  il  sonante  Ascanioc  i gioghi  alpestri 
D’Jda  sublime,  olirà  l’ Eufrate  c ’l  Tauro 
L' aride  madri  del  guerriero  armento. 
Passano  i monti,  e gli  alti  fiumi  a nuoto; 
Fuggon  tra  sassi  dirupati  c scogli , 

E per  valli  profonde , e non  incontra  , 

0 Sole,  ai  nascer  tuo,  nè  ’ncontro  ad  Euro, 
Ma  verso  Borea  e Cauro,  e d’onde  attrista 
D’oscura  pioggia  i cieli  il  nubil  Austro. 
Quinci  lento  veneno  alfln  distilla, 
Ch'lppomane  chiamò  la  prisca  lingua 
Degli  antichi  pastori  : e fu  sovente 
Scelto  già  dall’  iniqua  empia  matrigna, 

E con  erbe  maligne , e con  parole 
Non  innocenti  fu  adoprato  e misto. 

Tanto  polea  l’ amore  e ’l  dolce  zelo 
Di  più  tenera  prole  in  fero  petto  : 

Tanto  ardente  desio  di  nozze  immonde , 
Che  per  natura  si  risveglia  e ’nfiamma, 
E negli  orridi  boschi  ad  aspra  guerra 
Move  non  pur  le  dispietate  belve 
Ma  i duci  ancor  de’  mansueti  armenti 
Pendon  sospesi  alla  battaglia  incerta 
Che  di  piaghe  e di  sangue  ’l  petto  irsuto 
Lor  empie  e sparge , e la  fronte  superba , 
Le  mute  spose,  eie  cornute  torme, 

Di  cui  debban  seguir  l’audace  impero , 
Eia  vittoriosa  altera  scorta, 

E non  osati  partir  la  fera  zuffa 
Meravigliando  I lor  maestri  istessl. 

E se  !' amor de'lìgli, o quel  cheagglungc 
Insieme  a generar  cupida  coppia. 

Può  tanto  in  cor  ferino  e ’n  rigid’  alma  ; 

In  quei  che  fa  di  sè  vaghi  e superbi 
Nostra  ragione  c ’l  nostr’  umano  orgoglio  ; 
Quanto  potrà?  Qual  meraviglia  adunque 
S' una  c due  volle , anzi  tre  volte  e quattro 
Per  l' istessa  cagion  s' accese  ed  arse 
Dell'odio  antica  inestinguibil  fiamma? 

E l'Asia  contra  la  superba  Europa 
Di  ferro  e di  furore  armata  In  guerra. 
Strage  c ruinc  e fieri  inccndj  ardenti 
Mescldando  ne  ’ngombrar  la  terra  e Tonde? 

Nel  fido  cane  ancor  [se  dritto  estimi) 
Dove  manca  ragione  ’l  senso  abbonda. 

E quel  eh'  appena  i più  sublimi  ingegni, 
Filosofando  nell’  antiche  scuole , 

Conobber  degli  acuti  sillogismi , 


DEL  MONDO  CREATO.  l«l 

Mentre  varie  figure  in  varie  guise 
Tessean  di  lor  con  intricali  nodi  ; 

Quell'  (stesso , dicb’  io , subito  ’l  cane 
Per  sua  natura  agevolmente  apprende; 
Perchè  trovando  le  vestigia  impresse 
Della  timida  lepre , o pur  del  cervo , 
Arriva  là , dove  si  fende  e parte 
L'na  strada  in  più  strade,  e 'iilorno  a’ primi 
Principj  delle  vie  s’ avvolge  e gira , 
Odorando  i sentieri , o 1 passi  sparsi  : 

E fra  sè  stesso  in  questa  guisa  intanto 
Sembra  sillogizzar  : La  vaga  fera  [corso, 
0 ’n  quella  parte , o ’n  questa  ha  volto  ’l 

0 per  quest’altra  almen  s’ indrizza  e corre  : 
Ma  non  seti  va  per  questo,  o quel  sentiero, 
Dunque  per  questo  calle  i passi  affretta. 
Cosi  conchiude  argomentando  ’l  cane  ; 

E ’l  pronto  senso  è di  lung’  arte  in  vece 
Per  cui  rifiuta  ’l  falso,  e trova  ’l  vero. 

Nè  più  ne  ritrovar  le  varie  sette , 
Scrivendo  collo  stile , o colla  verga 
Nell’  arena  del  lido , o ’n  secca  polve , 
Degli  argomenti  le  diverse  forme  : 

Due  condcnnando , come  false , a morte , 
L'altra  approvato,  in  cui  rimase  impressa 
La  verità , clic  nel  soffiar  dell’Austro 
Poi  si  cancella , o nel  gonfiar  dell’  onda. 

E non  s’ av  vede  la  superba  mente 
Degli  orgogliosi  e miseri  mortali , 

Clic  ’n  polve  è scritta , ed  In  minuta  arena 
La  verità  che  trova  umano  ingegno 
Senza  lume  divin  che  Palme  illustra  : 
Onde  nell’  imbrunir  d’ un  breve  giorno 
La  si  porta  e disperde  ’l  mare  e ’l  turbo. 

E bench’  antica  età  si  glorii  e vanti 
Di  sacre  note  e di  colonne  eccelse , 

In  cui  descritte  fur  le  nobil  arti 
In  quel  sacro  a Mercurio  adorno  tempio  : 
E sian  per  fama  ancora  illustri  e conte 
L’ altre  colonne , in  cui  serbar  credeva 
Da’  diluvi  sicure , e dagl’  incendj 
Mill’  antiche  memorie  a terra  sparte  ; 

Iti  queste  e quelle , nel  cangiar  del  tempo, 
Non  rimane  di  lor  vestigio , o polve  : 

Si  lunga  notte  ’nvolve  1 nomi  c l’opre. 

Ma  contra  ’l  senso  de’  veloci  cani 

1 timidi  animali  hall  senso  ed  arte, 

Onde  sovente  i lor  vestigi  ispessi 
Soglion  guastar , perchè  la  fuga  occulta 
Segno  palese  non  discopra  e mostri. 

E conoscono  ancora  i venti  e P aure , 
Ond’  è iiortato  agii  odoranti  cani 
11  noto  odor,  che  gli  tradisce  e nenie. 


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I«2  POEMI 

Così  U Provvidenii  in  ogni  parte 
Trapassa  e giunge , ed  al  fugace  scampo 
De'  paurosi  ella  ulora  intende , 

E spesso  lor  concede  ingiusta  preda 
Agli  animosi,  e la  virtù  ferma 
Colle  spoglie  de'  tinti  onora,  e pasce 
Pur  di  rapina  le  robuste  forte. 

Ma  qual  memoria  e sì  tenace  e salda 
Cmìiì  t quella  taior  del  fido  cane  ? 

0 qual  d’ animo  grato  e di  costante 
Altri  puO  meritar  più  chiara  laude , 

Se  ardisce  ’1  fido  caa  col  fiero  assalto 
Scacciar  empio  ladroa  dal  caro  albergo , 
Vietando  ì furti  al  predatar  notturno  ? 

Ed  al  pugnare  ed  al  morire  è pronto 
Coll'  amato  signore , e per  l’ amato 
Signore  almeno , e consertarlo  in  t ila , 

Se  stesso  offrendo  a gloriosa  morte? 
Spesso  innatui  al  sublime  altero  seggio 
De’  giudici  seseri  il  fido  cane 

Fu  de'  Docenti  accusator,  latrando, 

E spesso  1 muto  testimonio  indegno 
Non  fu  di  fede,  e cadde  In  giusta  parte 
Sovra  1 reo  la  temuta  orrida  pena. 

In  Antiochia  già,  come  si  narra, 

In  solitaria  parte  estinto  giacque 
Un  uom,  ch'uà  fede!  cane  atra  compagno, 
Nell’  ora  che  tra  'I  lume  incerto  e l’ ombra, 
La  queta  notte  dal  sonoro  giorno 
Strepitosa  divide , e desta  all'  opre 

1 mortai  faticosi,  e 11  richiama 
Dalle  fatiche  al  lor  riposo  amico. 

E r urei  sor  ch’ebbe  mercede  in  guerra , 
Era  uom  CTudel , di  sangue  e di  corrucci , 
Che  si  pensò  celar  la  fiera  morte 
Sotto  l'oscuro  e tenebroso  manto 
Delia  caliginosa  e fredda  notte  ; 

E dal  medestno  manto  andò  coperto 
in  più  lontana  e più  sicura  parte. 

Ciacca  nell'  atro  sangue  il  corpo  estinto 
Squallido,  immondo  e pien  di  morte  T vol- 
Spars’eraintornoarhnirarioT  volgo,  [to; 

Il  can , gemendo  in  lagrimcv  ol  suono , 
Piangea  del  suo  signor  r orrida  morte. 
Intanto  qnel  che  deir  iniquo  fatto 
Dianzi  contaminato  indi  partissi. 

Per  non  esser  sospetto , c intiera  fede 
D' incoccala  acquistarsi , ivi  con  gli  altri 
A parlar  dell’  atroce , orribU  caso 
Facea  ritorno  con  sicura  fronte  : 

( Tanta  è la  fraude  dell’  umano  ingegno  ) 
Entrando  in  quella  folta  ampia  corona 
Dui  popol  vario,  assai  pietoso  in  vista 


SACRI. 

S' appressava  a colui  eh’  anriso  giacque. 
AUor  cessando  alquanto  il  fido  case 
Dal  lauientevol  gemilo  dolerne. 

Prese  delia  vendetta  erribil  armi , 

E preso  'I  tenne  con  gli  acuti  denti  ; 

E mormorando  il  misera  fili  verso , 

Tutti  converse  in  doloroso  pianto. 

E fede  ei  fatta  alla  mirabil  prova 
Solo  '1  tenne  fra  molti  e non  lasciate, 
Nè  railentoiio  da'  tenaci  morsi. 

Alfio  turbalo  il  reo  del  certo  indicio. 
Ritorcer  in  altrui  la  grate  colpa 
-Nou  polca  più  deii'odio  e dello  sdegno, 
E dell’  iugiurioso  e grave  oltraggio , 

Nè'l  sospetto  estirpar  del  proprio  fallo 
Nell' altrui  mente  infisso;  e 'a  questa  guisa 
Far  vendetta  polca , ma  non  difesa 
Da  un  quasi  muto  accusator  latrante, 

E preso  e violo  c condannato  a morte. 

Ma  chi  potria  le  meraviglie  antiche 
Narrar  de’  cani,  e i rari  illustri  esempi! 
E chi  sepolti  entro  l’ istessa  tomba 
Mostrarsi  col  signor?  o ’n  rogo  ardente 
Co'  medesimi  onor  gli  accesi  ed  arsi  ? 

0 ’n  guerra  pur  tra  folte  schiere  e<l  armi , 
Celebrar  la  nativa  invitta  fede? 

Citi  da'  tiranni , o da’  nemici  estinti 
Oserà  di  sacrar  sanguigne  spoglie 
Alla  gloria  de'  cani?  e'n  viva  pietra 
Scolpirli ’n  leiseguarl'iraprcse  e i nomi 
Di  que’  famosi , che  da  lunga  guerra, 

E lungo  esilio  trionfando  insieme 
Co'  fidi  amici , rilomaro  aifine 
Nell’alta  patria  clic  circonda  ’l  mare! 
Scppelo  ben  la  Grecia  antica , e ’1  vide , 
Che  Uni'  isole  in  seno  inonda  e chiude. 
Taccio  ne’  monti  e nell'  alpestre  selve 
Tante  vittorie  loro  antiche  e nuove. 
Taccio  i capi  recisi  e ’n  alto  affissi , 

E taccio  di  feroci  orride  belve 
In  guisa  di  trofei  sospese  spoglie. 

Ma  dove  ancora  io  voi  tralascio  addietro, 
0 ’n  brevissimo  dire  astringo  c premo, 
Dcstrier  veloci , c portatori  illustri 
De’  cavalieri  in  gloriosa  guerra , 

E ’n  polveroso  arringo  c ’n  largo  campo  ? 
Degli  onori  compagni  o del  periglio 
Sete  guerrieri  voi , che  mossi  a prova 
Al  chiaro  snon  della  canora  tromba 
Avete  parte  in  sanguinosa  preda; 

E ’n  auree  spoglie  c ’n  onorata  palma. 

E ’l  vide  già  non  pur  l'antica  Pisa 
Ne’  vari  giuochi , o 1 celebrato  Olimpo 


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LE  SETTE  GIORNATE  DEL  MONDO  CREATO. 


163 


Ma  Tebe  e Troia,  anzi  gli  spazi  e i lustri, 
Ch’cbber  d’Olimpo  misurato  ’l  nome, 

E Maratona  c Leu t ria , c poscia  ed  ante 
Delia  nobil  Farsaglia  i piani  e i monti. 
Ove  portando  pria  sul  forte  dorso 
Nelle  battaglie  ’l  cavalier  novello. 
Miraeoi  novo  e non  veduto  mostro. 
Somigliaste  ’l  biforme  alto  Centauro. 
Chi  potrebbe  di  voi  le  spoglie  c i pregj 
Narrar  appieno,  e le  fatiche  e i merli? 
Voi  spargeste  non  pur  nell' alle  imprese 
Col  piagato  signore  il  largo  sangue  ; 

Ma  (se  creder  ciò  lece}  il  largo  pianto 
Ancor  versaste  con  affetto  umano, 
Lagrimando  sua  dura  acerba  morte. 

Voi  parte  in  gran  trionfo,  c ’n  nobil  tomba 
Co’  regi  aveste,  c con  gli  croi  vetusti, 

E deste  ’l  nome  alla  città  famosa 
Sepolta,  c serba  ancor  la  fama  c ’l  grido. 
E voi  non  di  tridente , onde  percossa 
Partorisca  la  terra,  altera  prole 
Foste,  nè  vi  formò  terrena  destra. 

Ma  l'alta  voce  del  Signore  eterno. 

Più  di  tromba  sonante , al  nascer  vostro 
Principio  diè,  pria  clic  di  terra  in  terra 
La  sua  possente  man  formasse  Adamo. 

E questa  che  più  chiara  ognor  rimbomba 
Nella  Natura  ubbidiente  ancella , 

Di  voi  perpetua  la  progenie  e ’l  nome. 

Ma  quel  guerricr  in  voi  spirto  superbo. 
Ch'ali' uom  quasi  vi  fa  d'onor  congiunti, 
Urnilii  coll’ esempio  il  Ile  celeste. 

Che  fra  ben  mille  olive,  c mille  palme 
Premer  degnò  d’  un  asinelio  ’l  tergo; 

E voi  concesse  a’  gloriosi  Augusti , 

A’  magnanimi  regi,  a'  duci  invitti: 

In  guisa  tal,  clic  l'alterezza  e '1  fasto , 

Ed  ogni  altra  mondana  Illustre  pompa 
All'umiltà  conceda I primi  onori 
Ed  a quell’  umil  sofferenza  e queta. 

Ch’ai  mansueto  gli  omeri  prepara, 

E nel  presepio  ha  più  sublime  lim^' 

E più  virino  al  Regnator  cclcs*  1 
Che  ’n  del  tra’  fav  olosi  e v^’ 

Non  ha  ’1  destriero,  o sua  i 
Ma  qual  mi  porta  sp 
Studio,  o vaghezza  ol< 

Torniamo  a contro 
Fatte  da  Dio  la  ; 

Chè  provvidcii 
Che  dell’atr' 

Fe’ la  prò  ' 

Quasi  irl 


' Fece  all’  Incontra  fertile  e feconda 
De’  timorosi  la  fugace  prole, 

Di  cui  suol  farsi  agevolmente  in  caccia 
Larga  e diversa  preda.  E quinci  avviene 
Che  molti  figli  suol  produrre  al  parto 
La  llmidctta  lepre;  a coppia  a coppia 
Gli  partorisce  la  selvaggia  capra. 

E di  gemelli  ancor  Faglia  silvestre 
Suol  andar  grave,  e gcncrarl’ insieme. 
Perchè  non  manchi  da  vorace  fera 
Consumata  la  stirpe.  E d' altra  parte 
La  Ocra  leonessa  appena  è madre 
D' un  figlio  sol , che  ’l  lacerato  ventre 
S’apre  co’  duri  artigli  ; e’n  questa  guisa, 
Ancldendo  la  madre  allordi'ci  nasca. 

Al  nascer  suo  fa  sanguinoso  ’l  varco. 

E la  v Ipera  ancor  fiera  mercede 
Rende  alla  genitrice,  e fuor  se  n’esce 
Rodendo  l’alvo  alla  pregnante  serpe. 

Se  di  vari  animali  ancor  rimiri 
Le  varie  parti , a te  non  fia  nascoso 
Il  magistero  del  Fattore  eterno. 

Che  nulla  fece  in  lor  soverchio,  o manco. 
Perchè  volle  adattare  acuti  denti, 

E quinci  e quindi  alle  ferod  belve. 
Divoratrici  di  sanguigno  pasto. 

Ma  d' una  parte  sola  armano  i denti 
Quelle , di'  han  vario  cibo  c vari  pasch 
Ne’  verdi  prati  ; c ’l  ruminar  concesse 
Alle  innocenti  in  oziosa  vita. 

E le  gole  e le  pelli  c i ventri  e i seni , 

E le  reti  coll'  altre  incerte  |>arti , 

Ove  s'accoglie,  onde  trapassa  ’l  cibo. 
Onde  nutrisce  le  diverse  membra 
Il  puro  e leve,  e l'altro  impuro  e grave 
Poi  ritrova  all’ uscire  aperto  1 varco. 

Non  soli  vani  artifici,  o fatti  indarno. 

Ma  necessari  ; e di  ciascuno  appare 
E l'uso,  e ’l  prò,  per  cui  mantieusiinvit' 
0 breve , o lunga 
Del  cammello 
In  guisa  tal. 

E giunge  m 
Quasi 


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164  POKMI 

Che  di  grandezza  ogni  terrena  avanza 
Bestia  superba , e gli  fu  dato  ad  arte. 
Perchè  dar  possa  altrui  tenia  c spavento , 
Quasi  di  collo  ancor  i'oflìcio  adempie;  [glia 
Perocché  breve  ha  ’l  collo,  e non  l’aggua- 
A*  piedi , e se  1*  avesse  ancor  più  lungo , 
Mal  sostener  potrla  la  mole  e 1 pondo. 
Però  col  naso  el  si  provvede , c prende 
Col  naso  ’l  cibo,  e 'il  guisa  è cavoadcnlro 
L’estranio  naso,  che  raccoglie  e serva 
Mei  voto  suo  del  ragunato  umore 
! quasi  laghi , onde  la  sete  estingua. 

Di  fiume  ’n  guisa  poi  gl'  irriga  e sparge , 
(a>mc  lucido  Tonte  in  bianco  marmo 
Scolpito  da  maestra  e dotta  mano. 

E d' urna  in  vere  effigiala  belva  ' 

Con  estraneo  sembianze  orrida  in  atto, 
La  qual  dal  naso,  o dall' aperta  boera , 

0 d'altra  parte  d'acque  infonde  e versa 

1 larghi  rivi,  e 'I  suol  n’asperge  intorno. 
Cosi  la  smisurata  indica  fera 

Del  pria  raccolto  umor  Ta  larga  copia 
Mirabilmente , onde  ’l  suo  naso  assembra 
Fontana,  di  Natura  emula  c d’Arle. 

Ma  coll’  istesso  naso  ancor  sovente 
Suol  far  l’officio  di  pieghcvol  mano: 

In  tante  guise  egli  ’l  ritorce  c stende. 

E col  medesmo  ancor  placido  c queto 
Ed  innocente,  ci  suol  passar  per  mezzo 
Le  mansuete  e semplicette  gregge. 
Senza  notar  le  pecorelle  umili, 

Che  gli  cedono  ’l  passo  c quinci  e quindi. 
Ma  I più  feroci  impetuoso  afferra, 

K leva  in  aria,  c poi  gli  sparge  a forza, 
Precipitando  orribilmente  a terra. 

Cosi  gran  sasso  ancor  levato  in  alto 
Da  macchina,  talor  ruina  a basso 
Da  lei  sospinto,  o dal  suo  proprio  pondo. 
Ma  come  il  collo  c la  cervice  è breve , 
Altramente  saria  soverchio  peso 
Del  vasto  corpo,  che  s’ appoggia  e ferma 
Sovra  i suo'  mai  composti  e rozzi  piedi , 
Che  non  mostrati  giuntura,  onde  distinti 
Sleno,  c le  gambe  son  di  trave  in  vece, 
0 di  colonne  alla  gravosa  mole. 

E in  guisa  d'uomo  ci  sol  l’ incurva  c piega, 
Mentr’egli  siede,  masi  volge  c pende 
Sempre  o sul  manco  lalo.o  pursul  destro; 
Perchè  impedito  dal  soverchio  pondo , 
Sovr’ entrambi  non  può  star  dritto  e pari. 
Perù  sì  vede  ognor  pendente  c citino 
Nell'  un  de*  lati  allorché  siede  e posa. 
Anzi  delie  ginocchia  ci  sol  ripiega 


SACRI. 

Le  deretane,  e l’ uomo  in  ciò  somiglia  ; 

I.' altre  rigide  slansi,  e dure  c salde. 
Onde  s'appoggia  ad  un  selvaggio  tronco 
D'orrida  pianta  : ivi  riposa  c dorme 
Un  suo  duro,  profondo  c pigro  sonno. 
Ma  la  pianta  si  piega  al  peso  c frange; 
Talvolta  ancora  ella  è recisa  e tronca 
Dal  cacciator,  che  de'  suo'  lunghi  denti 
Cerca  l’avorio;  eli' è si  cara  merce, 

Onde  si  faccia  poi  mirahil  opra  , 

E di  barbara  man  raro  lavoro. 

Cade  al  cader  del  suo  rollo  sostegno 
La  fera  belva  ruinosa  a basso  ; 

Com’  edificio , clic  dì  scossa  terra 
Il  moto  crolla, c vacillando  adegua 
Alsuol.cb'è  di  ruina  ingombro  e sparso. 
Nè  potend'clla  più  levarsi  in  alto, 

E dal  gemito  suo  tradita  a morte, 

Che  gli  passa  coll’ arine  ’l  molle  ventre. 
Nè  potean  penetrar  l’irsuto  dorso 
Con  lance  e strali,  e l’altre  estreme  partì 
Dell’ elefante  che  si  lagna  c more. 

Ma  sov  ra  le  sue  grosse , orride  spalle 
Ei  suol  portare  in  perigliosa  guerra 
Torre,  che  grave  appar  d’ armata  gente. 
E portando  il  gran  peso  ei  tutto  atterra 
Ciò  clic  rinconlra,  e par  volubil  monte. 
Od  animata  rocra  ’1  fiero  mostro; 

Onde  solean  gii  gli  Africani  c gl’indi 
Perturbar  le  nemiche  avverse  schiere , 

E l' armi  sanguinose  a terra  sparse 
Calcar  sovente,  e rabbattute  squadre. 
Questa  gran  fera  se  non  more,  o cade 
In  lagrlmosa  guerra,  o ’n  fera  caccia, 
Anni  trecento  vive;  e senso  e spirto 
Ha  di  pioti  : talché  devota  adora 
1.’ algente  I.una,  che  le  notti  illustra. 
Un'altra  fera  è li  nel  freddo  clima. 

Dove  l’Orsa  del  cielo  i fiumi  agghiaccia. 
Nè  di  pioti , nè  di  grandezza  eguale. 

La  qual  pensando  alla  futura  fame 
(Conserva  fa  del  divorato  pasto 
In  un  proprio  e nativo  e largo  vaso, 

Ove  ’1  ripone  al  maggior  uopo,  e ’l  serba: 
Tratlonel  poscia,  indi  si  ciba  c pasce. 
Cosi  di  cibo  l’un,  d'umore  ed' onda 
Provvido  l’altro,  non  patisce  inopia , 

In  guisa  di  città  ch’assedio  e guerra 
Aspetta,  c 'manto  si  provvede  ed  empie 
Di  clùch'al  vitto  uom  chiede,  i cari  albcr- 
E i larghi  vasi  c le  profonde  fosse.  [ghi, 
I Ma  pur  quest’ animai  si  fero  e grande, 

I Cui  Roma  vide  trionfante  e lieta , 


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LE  SETTE  GIORNATE 
Quando  Leon  sedea  nell’  alta  sede,  [guisa 
Domato  all*  uom  soggiace.  E ’n  questa 
Volle  mostrar  Iddio,  che  in  tutto  fece 

I feroci  animali  all'  uom  soggetti  ; 

All’ uom  sua  viva  e sua  diletta  immago; 
All'  uom  che  ’n  guisa  d’ immortale  crede 
Delle  cose  divine  elegge  e chiama 
All’alta  gloria  del  celeste  regno. 

E non  sol  lece  contemplar  mirando 
Negli  animali  più  feroci  c grandi , 

Quella  divina  provvidenza  ed  arte , 

Cbè  ne’  piccioli  ancora  ella  si  mostra: 
Sìccoik* ancor  non  men  dell’alto  monte, 
Che  vicino  alle  nubi  al  ciel  s’ innalza  ; 
Mirabil  sembra  la  profonda  valle. 

Dove  si  schivi  ’l  fero  orgoglio  e l’ira 
De’  venti,  usali  a ricercar  mai  sempre 
L’eccelse  parli  ; c si  ricovra  c scampa 
In  queta  parte,  e soli*  un  puro  cielo, 

Che  ’n  sè  conserva  tepido  c sereno. 
All’elefante,  eh’  è si  fiero  e grande. 
Spavento  dà  con  paurosa  vista 
(Olii  ’l  crederebbe?)  Il  vile  e picciol  topo. 
Lo  scorpìo  ancora  orrido  pare  a’  grandi, 
D’arme  pungenti  e di  veneno  armato. 

Ma  non  però  la  temeraria  lingua 
li  suo  veneno  in  Dio  rivolga  c versi; 

Nè  gli  dia  colpa  che  *1  serpente  c ’l  drago 
Egli  facesse  ; e ’l  verme  e ’l  picciol  angue, 
Che  lunge  saettando  amaro  tosco, 

Ancide  l’ uom  con  dolorosa  morte. 

Cbè  ’n  questa  guisa  ancor  s’accusa  ’l  Ma- 
Se  dalla  temeraria  età  proterva,  [stro, 
Che  ribellando  alla  ragion  contrasta, 
Temer  si  fa  colla  severa  sferza , 

E con  dure  percosse  c dure  piaghe; 

E ’l  medico  in  tal  modo  ancor  s’ incolpa, 
Ch’  indi  ricerca  medicina  a’  mali. 

Tu,  se  confidi  iu  Dio,  securo  ascendi 

II  basilisco  venenoso  e l’ aspe, 

E T leone  c ’l  dragon  sopprimi  e calca; 
Che  sopporranno  al  piè  sicuro  c giusto, 
La  domita  cervice  e ’l  collo  a forza. 

E di  Paolo  t’ affidi  ’l  chiaro  esempio, 

Alla  cui  santa  invlolahil  destra 
(Menlr’ci  disceso  nell’ apriche  rive 
Di  Malta,  raccogliea  materia  al  foco) 

La  vipera  non  diè  tormento  o morte  : 

Nè  quel  che  di  leggìer  s’ appiglia  c serpe, 
Tosco  micidiale  a lui  s*  apprese  : 

Tanto  la  grazia  può  d’alma  innocente. 

Ma  debb’  io  far  noiosa  e fera  istoria 
Di  vipere  crudeli  e di  ceraste? 


DEL  MONDO  CREATO.  165 

D’ idre,  che  di  colubri  un  folto  vallo 
Sibilando  si  fan  d’ intorno  al  collo 
Ceruleo  e gonfio,  ed  all*  orribil  testa? 
Opur  d’aspidi  sordi  ai  forte  carme? 

0 di  fare,  di  ceneri  e di  chelidrl? 

D’ alfasi  algente,  o del  serpente  acceso. 
Che  dardo  sembra  ? e come  dardo  il  tosco, 
Uccisor  de*  mortali,  avventa  e lancia? 

0 pur  di  te,  che  più  famosa  palma 
Fra  le  pesti  aflricanc  ancor  1’  acquisti 
Nocendo  altrui  ? Nè  solo  spirto  e I*  alma. 
Ma  ’l  cadavero  istesso  a morte  involi 
Anzi  ’l  rapisci  e gliel  consumi  a forza? 

Come’lpitlor  che  delle  membra  estinte 
Il  pallor,  lo  squallor  dipinge,  ed  orna 
Di  colorì  di  morte  esangue  aspetto, 
Parte  ci  aggiunge  orride  fere  c mostri 
Spaventosi,  e gii  fa  sembianti  al  vero  : 
Ma  dove  ’l  vero  di  spavento  ingombra , 
Delle  finte  sembianze  il  falso  inganno 
Altrui  diletta,  e ’l  magistero  adorno; 
Cosi  con  questi  miei  colorì  e lumi 
Di  poetico  stil , con  queste  insieme 
Ombre  di  poesia,  terribil  forme 
Fingo,  e fingendo  di  piacer  m’ ingegno 
Àgli  alti  ingegni,  c dal  profondo  orrore 
Trarquel  diletto, che  i più  saggi  appaghi. 
Ma  pure  (schivo  altrui  fastidio  e scherno, 
E per  questa  di  fere  e di  serpenti 
Arida,  adusta  c spaventos’  arena 
Più  non  mi  spazio,  ed  a più  lieti  obbietti, 
Quasi  nuovo  Caton,  mirando  io  varco. 

Ma  i frettolosi  passi  anco  ritarda 
Larga  schiera  di  strani  orridi  mostri , 

E di  vari  animai  volami  a stuolo, 

Clic  da  putride  membra  estinto  corpo 
Produsse,  o senza  seme,  c senza  padre 
L’antica  madre  ancor  produce,  e figlia 
Dal  riscaldato,  e ’nsieme  umido  grembo. 
E queste  innumcrabili  e vaganti 
Danno  anzi  noia,  che  terrore  o doglia. 
Quante,  oh  ! quante  ne  veggio  in  nubi,  o’n 
ombra 

Volarmi  intorno  ed  oscurarne  *1  cie!o![bra? 
Ma  chi  gli  scaccia  in  trapassando  e sgom- 
II  tuo  lume  gli  scaccia,  o Padre  eterno. 
Gli’  io  chiedo  a te,  dove  dal  Santo  il  Santo 
Par  che  discordi,  e sia  contrario  in  parte. 
Se  tu  Dio  fosti  creator  di  mosche. 

Io,  quanto  lece  per  ragione  umana, 

Ch’  al  tuo  lume  divin  l’ illustri  o ’nformi, 
Oso  affermar  che  tu  creasti  allora 
In  lor  perfetta  età  maturi  ì parti  ; 


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1GS  POEMI 

Di  piante  e d’ animai  perfette  uscire 
Nel  bel  paese  delia  chiara  luce 
Alia  alta  noce  del  tuo  santo  impero. 

E non  fu  alcuna  tralasciata  addietro 
Delle  selvagge  ed  infeconde  piante, 

0 pur  delle  feconde  ; e gii  nascendo 
Sin  dal  principio  erano  adorne  e gravi 
Di  sue  frondi  ciascuna,  e de'  suoi  frutti. 

E non  com'  oggi  avviene,  oggi  a vicenda, 
Mentre  sue  volte  ogni  stagione  alterna, 
Son  generale,  e non  già  tulle  Insieme. 

Prima ’l  fecondo  seme  è sparso  in  terra, 
0 pur  la  stirpe  in  suol  profondo  affissa , 
E poi  nascer  reggiani  le  piante  c l' erba, 
Ed  avanzar  crescendo,  e d'  una  parte 
Le  radici  mandar  sotterra  a dentro 
Di  fondamenti  in  guisa,  e d' altro  lato 
Verso  ’l  cielo  intubare  ’t  tronco  e i rami  ; 
E poscia  germogliar  le  fronde  e i fiori. 
Ultimo  nasce  ’l  frutto,  e ’nchlno  ei  pende  ; 
Ma  non  maturo,  nè  perfetto  ancora. 
Appoco  appoco  ei  si  trasmuta,  e cangia 
Molti  vari  sembianti  e molte  forme. 
Prima  minuto  è«ì  che  gli  occhi  inganna, 
E quasi  dalia  vista  egli  s' invola, 

E rassomiglia  gli  atomi  volanti. 

Che  ci  appaion  del  Sole  a'  chiari  raggi. 
Dappoi  nutrito  dell'  unior  terrestre. 

Ed  irrigato  da  rugiade  ed  aure. 

Si  nutre  e cresce,  c si  colora  c tinge 
Come  opra  ei  fusse  di  pittore  illustre. 

Ma  quando  Dio  creò  di  nuovo  ’i  mondo. 
Tutte  le  selve  di  frondose  piante 
Perfette  egli  produsse,  c ì dolci  frutti 
Tra’  rami  si  vedean,  non  mica  acerbi, 
Quasi  appena  cominci,  anzi  maturi 
Faceano  invito  a’  non  ancor  prodotti 
Animali,  c dovean  la  fame  e ’l  gusto 
Lusingar  tosto  alle  dolcezze  ignote. 
Gravida  ancora , a quel  sovrano  impero, 
La  Terra  partorì  la  stirpe  e l’ erbe 
E I dolci  fruiti.  In  cui  virtù  nativa 
Era  nascosa  di  fecondo  germe, 

E di  seme  immorlal,  che  quasi  eterno 
Dovea  poi  rinnovar  te  cose  estinte. 

E gli  animali  poi  creati  insieme 
Vestiti  fur  delle  lor  peUi  irsute, 

0 di  candida,  molle  c pura  lana  ; 

0 di  sue  corna  e di  pungenti  artigli 
Ciascun  apparve  immantinente  armato 
Nell’  età  sua  perfetta  e già  matura. 

Nè  della  prima  infanzia  allor  conobbe  [bra. 
Alcuno  il  tempo  c ’n  non  cresciute  mem- 


SACRL 

Anzi  questa  gran  mole  ancor  novella , 
Questo  grande,  elicli’  io,  mlrabil  mondo 
Non  conobbe  l’ infanzia,  e tuli’  insieme 
Perfetto  apparve,  c nell’  aspetto  adorno. 
Ma  non  fur  opre  tue  gli  orridi  mostri? 
Opre  tue  non  fur  già.  Maestro  e Padre 
Della  Natura,  ma  sol  vizio  e colpa 
Della  maleria  a dismisura  ingiusta. 

Ch’or  lia  dlfetto,or  nclsoverchio  abbonda. 
E s’addivien  giammai  che ’l  maschio  seme 
Debole,  c raro  sia  dal  veglio  stanco, 

0 sparso  dal  fanciul,  nè  vincer  possa 
Con  quella  sua  virtù,che  ’nforma  e more 
Ne’  chiostri  occulti  dei  femmineo  ventre 
L’ indigesta  materia  umida,  e ’nforme; 
Femmina  nasce,  c eli’  ella  nasca  è d’ uopo  : 
E se  non  caro,  è necessario  il  parto. 

Ma  d’  uopo  non  è già  elle  sia  prodotto 
Orrido  mostro  al  mondo,  e non  ci  nasce 
Per  grazioso  fin,  ma  grazia,  o fine 
Non  ha  nascendo  : e ia  materia  invitta, 

E ribellante  alla  miglior  natura. 

Ch’ai  meglio  è sempre  in  operando  intenta, 
£ impossente  cagion  del  nato  mostro. 
Ma  la  materia  vinta,  e non  ribella. 

Nè  ’n  contender  ritrosa  accoglie  ’n  grembo 
Le  forme  obbediente,  c quinci  nasce 
Maschio  ’l  figliuolo,  e di  bellezze  adorno, 
E di  fattezze  al  genitor  sembiante. 

E chiunque  traligna,  ai  proprio  padre. 
Ed  alla  stirpe  de’  maggiori  amica 
Disslmil  fatto,  è quasi  al  mondo  un  mostro. 
E spesso  avvicn  eh’  egli  traligni  in  guisa, 
Degenerando  da  progenie  illustre, 

Che  dall’  umanità  quasi  è diverso; 

Ned  uomo  è più  ; ma  d’ odioso  aspetto 
Del  male  sparso  c mai  concetto  seme 
Un  mal  nato  animai  ci  nasce  e vive, 

Ch’  è detto  mostro  ; c la  natura  istessa 
Lo  schiva  cd  odia,  e disdegnando  abborre. 
E già,  come  divolga  antica  istoria, 

Con  testa  di  monton  nacque  un  fanciullo, 
E con  testa  di  bue  poi  l’ altro  apparse. 
Ed  un  vitello  ancora  ebbe  nascendo 
Il  capo  di  fanciul  : 1’  ebbe  di  toro 
Un’  undl  pecorella  e mansueta. 

Ma  chi  non  sa  ia  mostruosa  forma 
Della  chimera?  in  cui  la  capra  aggiunta 
Era  al  leone,  c ’l  Icon  giunto  al  drago? 

E chi  non  sa  siccome  accoppia  e mesce 
L’ istessa  fama  alla  giumenta  li  grifo 
Là  fra  le  nevi  d’ iperborei  monti , 

0 de’  Rifcl,  dov’  ci  difende  e guarda 


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167 


LE  SETTE  GIORNATE 
1.’  or  ti  bramato  da'  mortali  erranti  ? 

E Torme  sono  ancora  illustri  e conte 
Quelle  che  figurò  l’ antico  Egitto, 

O P Affrica  arenosa  : e questa  affisse 
All’  uoffi  di  bue  la  spaventosa  fronte , 

E col  tei  ricopri  P altere  corna 
Giove  ancor,  nominando  7 falso  Nume; 
Ed  adorollo  in  suo  famoso  tempio, 

Ch’  un  tempestoso  mar  d' arene  intorno 
Ginger  solca  ne'  solitari  campi. 

Quel  con  faccia  di  cane  altrui  dipinse, 

O pur  impresse  7 suo  latrante  Anubi, 
Olirà  milP  altri  idoli  suoi  bugiardi. 

E la  Giudea  dall'  affricano  inganno 
Non  fe'  diverso  il  simulacro,  o 7 mostro 
Quando  a Moloc  i sacrifici  offerse. 

Ed  a questo  fallace  e vano  errore 
Origin  prima  dii  Natura  errando 
filtra  7 suo  fin  nel  mostruoso  parto. 

Suol  partorir  ancor  di  molte  membra 
Confusi  i mostri,  e sul  medesmo  busto 
Molte  giunger  Insieme  orride  teste, 

O molti  piè  sopporre  al  corpo  istesso. 

E quinci  preso  ardir  la  fama  audace 
Briareo  fece,  ed  Egeon  gigante, 

E gli  armò  cento  mani  e cento  braccia. 

E di  corone  ancora  ornò  la  fronte 
Di  Gerlone,  e nell'antica  Spagna 
Collocollo  in  sublime  ed  alta  sede; 

Ma  in  questa  guisa  forse  ella  dipinse 
L’anima  umana,  imperiosa,  altera. 

In  cui  son  tre  potenze  insieme  aggiunte. 

Or,  lasciando  da  parte  occulti  sensi, 

E di  favole  antiche  ombre,  o misteri, 
Onde  sua  luce  al  vero  ancor  s'adombra: 
Simigliarne  ragion  produce  i mostri, 

E d' offeso  animai  confonde  e guasta 
Mentr'al  materno  sen  tenere  membra, 

O sia  difetto  di  confuso  seme , 

0 di  materia  pur  maligna  colpa, 

E vizio  innato  : e ciò  più  spesso  incontra 

1 n quei , che  fan  si  numeroso  il  parto. 

Tal  è del  gallo  la  pennuta  madre, 

E tale  ancor  la  semplice  colomba. 

In  cui  figli  lalor  confuse  e miste 
Ebber  le  membra  : e con  due  teste  ancora 
Fu  giù  veduto  un  orrido  serpente. 

Ed  al  buon  servo  di  Gesù  diletto 
In  quel  sogno  divin  con  sette  apparse 
L’estranea  belva , a cui  lasciva  donna 
Premendo  assisa  alteramente  7 tergo, 
Attrasse  1 regi  agl’impudici  amori. 

Con  sette  è finto  l’ animai  di  Lenta , 


DEL  MONDO  CREATO. 

Orrida  peste  ; e rinascenti  al  ferro 
Kur  creduti  quc'capl , e 'adorno  tronchi. 
Tralascio  alfin  deli' animai  rinchiuso 
Nel  laberinto  la  dubbiosa  forma. 

E tralascio  di  Sfingi  e di  Centauri  ; 

Di  Polifemo  e di  Ciclopi  appresso. 

Di  Satiri, di  Fauni  e di  Silvani, 

Di  Pani  e d’ Egipani  e d’altri  errami  ; 
Ch’empier  le  solitarie  inculte  selve 
D’ antiche  maraviglie , e quell’  accolto 
Esercito  di  Racco  in  Oriente , 

Ond’  egli  vinse  e trionfò  degl'indi. 
Tornando  glorioso  a’  greci  lidi , 
Siccom'i  favoloso  antico  grido. 

E lascio  gli  Arimaspi , e quei  ch’ai  Sole 
Si  fan  col  piè  giacendo  e schermo  ed  om- 
E i Pigmei  favolosi  in  lunga  guerra  [bra; 
Colle  gru  rimarransi . e quanto  unquanco 
Dipinse  ’n  carta  l’Affrica  bugiarda. 
Perchè  vero  non  è che  mai  prodotti 
Fosser  si  mostruosi , e vari  aspetti 
Dalla  Natura.  E s'è  pur  vero  in  parte, 
Dio  non  produsse  allor  creando  i mostri; 
Perocché  7 mostro  èquello,  in  cui  s’incol. 
Difetto  di  materia,  o pur  soverchio,  [po 
Ond’ ai  suo  genitor  disvimi!  nasce; 

Ma  rade  volte  : e ’n  odiosa  vista 
E di  Natura  vergognoso  scorno  : 

0 pur  (•  segno, onde  7 gran  Re  superno 
Sgomenta  gli  egri  e i miseri  mortali, 

E minaccia  la  pena  e morte  e scempio. 
Non  fece  allor  creando  il  Padre  eterno 

1 muli , o pur  le  mule  : e quella  e queste 
Illegittima  prole  e dubbio  parto 

Kur  poscia  d’ animai,  eh’  aggiunse  ’nsieme 
Desio  sfrenato  di  natura  : c nacque 
D’ asino  7 forte  mulo  e di  giumenta  ; 

E di  pronto  destrier  veloce  al  cono 
La  mula , uva  di  pigra  c larda  madre  ; 

E somigliando  7 generoso  padre 
Corse  talvolta  nell'  Olimpo  a prova , 

E riportò  correndo  ’l  caro  pregio. 

Ed  or  si  gloria  di  portar  sul  dosso 
Sacri  , purpurei  padri  in  Vaticano 
In  di  festo  ed  altero  c nobil  pompa  : 

E incontra  move  a messaggicri  eletti 
Degli  alti  regi  c de'  famosi  Augusti. 
Nacque  talvolta  del  destrier  corrente 
li  mulo  ancora,  e l’asina  si  vanta 
Pur  anco  di  veloce  e nobil  madre; 

Ma  l’ uno  sparge  non  fecondo  7 seme , 

L’ altro  l' accoglie  in  non  fecondo  ventre  : 
Però  nascer  non  suol  del  mulo  il  mulo, 


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POEMI  SACRI. 


Come  dall’  un  reggiani  nascer  sovente 
L’altro  cavallo,  e nel  guerriero  armento 
Succeder  generoso  al  padre  il  figlio. 

K la  cagion  di  ciò  varia  s’ adduce. 

A’  corrotti  meati  il  cieco  veglio 
La  reca;  quel  dich’io  per  fama  illustre, 
Ch’ai  vaneggiar  de*  miseri  mortali , 

Rider  soleva;  e le  sciagure  c i danni 
Del  suo  dotto  ei  degnò  continuo  riso. 

Ma  quel  che  si  lanciò  nel  foco  ardente 
D’Etna  sublime,  c la  sua  vita  (ahi  folle.; 
Volle  finir  nella  fumante  fiamma, 

Giudicò  poi  che  mal  s’  apprenda  insieme 
Il  liquido  col  liquido  commisto  ; 

E si  mescoli  meglio  ’l  molle  e ’l  denso. 
Come  addi  vie  n a chi  fonde , c disfacc 

I metalli  diversi  e lor confonde. 

Che  lo  stagno  e l’argento  in  un  condensa. 
Altri  di  più  sublime  e chiaro  ingegno, 
Che  fu  maestro  di  color  che  sanno, 
Quant’  in  mille  sue  scole  insegna  ’l  mondo, 
Della  sterilità  piuttosto  assegna 
La  più  vera  cagione  al  freddo  seme. 
Pcrch’  è fredd’  animale , e pigro  e tardo 
L'asino,  e ’ntollerante  al  freddo  verno. 
Però  di  Scizia  nel  gelato  clima 
Ei  non  ci  nasce  fra  le  nevi  c il  gelo  ; 
Benché  tra’  Franchi  ei  nasca,  e fra’  Brilan- 
E dell’asino  nato  è freddo  il  mulo,  [ni. 
Però  sembiante  al  padre  il  freddo  seme 

II  figlio  non  produce  in  freddo  grembo; 
Ma  s’addita  talor  per  raro  mostro. 
Meravigliando,  della  mula  il  parto. 

E ’l  mulo  ancor,  quando  seti’  anni  ei  coni- 
si mesce  alla  giumenta,  ed  ella  espone  [pie 
Nuovo  pori  ito  del  mirabil  figlio. 

Ma  dove  ardente  Sol  la  Siria  accende 
Sovra  Fenicia  già  ne’  tempi  antichi 
Solean  le  mule  partorir  sovente, 

E*  de  muli  nascean  sembianti  i muli  ; 
Talché  passò  negli  ultimi  nipoti 
La  memoria  degli  avi , e lungo  tempo 
La  bastarda  progenie  ’n  pregio  lue. 

Or  mancata  è la  stirpe,  e spento  ’l  nome 
Tra*  nuovi  Siriani  c tra’  Fenici, 

Nè  vantar  se  nc  può  Sidone,  o Tiro. 
Nascer  soleva  ancor  ne’  primi  tempi 
Di  cavallo  c di  cervo  il  figlio  misto, 

Che  prendeva  l’onor  di  lunga  chioma, 

E di  vaghe  ramose  altere  corna 
D’ enlrambo  i suo’  parenti  insieme aggiun- 
Illegittimo  sì , ma  bello  e grande  [ti  : 
Mirabil  figlio,  e leve  e presto  al  corso. 


E poi  crescendo  gli  pendeva  al  mento. 

Pur  come  barba  fosse , il  lungo  vello. 

Fra  gli  Aiacetl  già  l' amiche  selve 
Libera  già  pascendo  errante  fera , 

Dove  pascer  solcano  i buoi  selvaggi , 

Con  muso  adunco,  e con  ritorte  corna. 
Con  nero  pelo , e con  robuste  membra. 
Or  non  so  chi  la  veggia,  o dove  appaia. 
Benché  nc’  climi  algenti , orridi  boschi 
SogHano  anco  nutrire  i buoi  silvestri, 

E sian  fra  noi  famosi  e gli  uri  c l’alce. 
Ma  del  cavallo  e del  corrente  cervo 
Par  che  non  sia  più  noto  ’l  misto  figlio; 
Nè  ’l  feroce  destrier  si  giunge  al  pardo 
In  guisa  tal  che  nc  veggiamo  ’l  figlio. 
Siccome  il  rimirò  l'età  vetusta  : 

Tanto  l'onor  della  bastarda  prole 
Manca,  volgendo  gli  anni,  e ’l  nome  e ’l  gri- 
fi quest’av>  ien,  perchè  fatture  ed  opre  [do: 
Non  furdi  quel  celeste  eterno  Fabbro, 

Il  qual  perpetue  fe’  le  varie  stirpi 
Degli  animali , e le  rinnova  e serba. 
Mancate  son  ancor  I*  estranee  e miste 
Forme  confuse  d’ animai  feroci. 

Che  prcss’  a’  fiumi  accoppia  A finca  adusta, 
D’orribil  vanità  fiera  c superba, 

0 van  mancando: chè  serbarsi  in  vita 
Lungamente  non  può  di  vario  seme 
La  progenie  illegittima  ed  incerta. 

Sol  legittima  stirpe  è quasi  eterna. 
Siccome  piacque  al  suo  Fattor , creando. 

Ma  già  vicino  all’alta  e nobil  meta, 

A cui  lasso  cursor  m’ affretto  e corro. 
Del  bonaso  m’avveggio,  e dell’Iena 
Lasciata  addietro,  e dell’ orribil  fera. 
Che  Tossa  umane  trae  d’ oscura  tomba, 
E la  voce  dell’uomo  assembra  c finge. 
Veggio  ’l  rinoceronte  adunco  ’l  naso, 

E veggio  te , che  d’un  bel  corno  altero. 
Purghi  del  losco  le  turbate  fronli. 

Veggio  che  fra  le  nevi  e l’alto  ghiaccio 
Il  rangifero,  occulto  al  nostro  mondo, 
Porta  correndo  le  veloci  rote. 

Veggio  mill*  altri , e nell’  algente  Zona , 
E’n  quella  che  più  ferve  c più  s’infiamma, 
Qui  non  visti  animai,  ma  chiari  e conti 
Per  lungo  grido  di  perpetua  fama. 

Ma  però  non  ritardo  ’l  lento  corso. 

Già  stanco  e grave,  c là  m’  appresso  c 
giungo, 

Dove  tra  le  fiorite  ombrose  piante, 

E tra  mille  vaghezze  e mille  odori , 

L’ uom  creato  da  Dio  m’ aspetta  e chiama. 


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LE  SETTE  GIORNATE 
Quale  esperto  figli  noi,  clie’n  festa  e ’n 
Spaziò  per  città  calcata,  e piena  [pompa 
Della  minuta  errante  c bassa  plebe; 

Se  tede  alfine  In  più  sublime  parte 
Del  caro  padre  ’l  veneralo  aspetto, 

Là  dov’ adorno  di  lontan  risplendc 
Un  re  possente  di  corone  c d’ostro; 
Sdegna  la  varia  turba,  e Turni]  volgo, 

E là  ricovra , ove  T affida  e ’nvita 
Presso  all’altera  maestade  augusta 
Del  genitore  antico  il  lieto  cenno, 

0 pur  l’  imperiosa  e nota  voce  : 

Tal  per  questo  creato,  adorno  mondo, 
CITÒ  città  di  mortali  ed’ immortali 
Grande  e sublime,  in  cui  perpetue  leggi 
Son  prefisse  ab  eterno  al  viver  nostro. 

Pur  dianzi  io  ni’  avvolgca  bramoso  e vago 
Di  tante  meraviglie,  a parte  a parte 
Tutte  cercando,  e rimirando  intorno: 
Onde  fermai  talvolta  i lardi  passi 
Fra  gli  animai, che  son  l’ ignobil  volgo. 
Or  che  mi  s*  offre  in  vcnerabil  fronte 
Nel  Paradiso  il  Genltor  vetusto 
Non  diviso  anco  dal  suo  Re  sublime, 
Ohbliando  luti’ altro,  a lui  mi  volgo, 

Ed  odo  voce  che  nel  cor  rimbomba, 

Non  già  da  statua  del  bugiardo  Apollo, 

O da  ruvida  quercia  o da  spelonca. 

Nè  d’idolo  scolpito  in  legno  o in  marmi. 
Ma  sin  dal  Ciclo,  c ben  celeste  assembra  : 
Uom,  conosci  te  stesso,  o santa  scorta, 
Che  per  questo  sentiero  a Dio  conduci. 
Perchè  la  nostra  mente  a Dio  s’innalza 
Sovra  sè  stessa  c lui  conosce  e ’ntende. 
Nè  contemplando  i bei  stellanti  chiostri, 
E ’l  gran  giro  del  Sol , che  tutto  illustra, 
Cosi  possiam  nell*  invisìbil  luce 
Conoscer  il  gran  Dio  che  fece  ’l  mondo; 
Come  dal  contemplar  la  nostra  mente 
A conoscer  la  sua  leviamo  in  alto 
L’ali  del  pronto  c fervido  pensiero, 

Che  non  si  ferma  negli  umani  obbietti. 
Ma  qual  luce  degli  ocelli , ove  si  giri , 

Ove  si  fermi,  ivi  rimira  e scorge 
Prati , selve , campagne  c mari  e fiumi, 
Aspri  monti , erti  poggi  ed  ime  valli  : 

Pur  non  vede  sè  stessa  ; e ’n  chiaro  speglio 
Sol  di  sè  può  veder  la  vera  immago  : 

Tal  mente  umana , che  tutt’  altro  intende, 
Quanto  di  fuor  di  lei  dipinge  ed  orna 
La  mano  e l’arte  del  gran  Mastro  eterno; 
Non  intende  sè  stessa,  c non  conosce 
Quei  eli’  ella  sia , se  non  s’ Illustra  al  Sole 


DEL  MONDO  CREATO.  109 

Di  verità , quasi  cristallo  ardente  : 

Ed  illustrata  non  rimira,  e guarda 
Come  in  ispcglio  pur  la  proptia  forma, 

E quel  Signor,  che  della  propria  immago 
La  fece  adorna , c di  beltà  sembiante. 

S’ ella  adunque  òdi  macchie  orride  asper- 
Tergasi,  e puro  in  sè  raccoglia  ’l  raggio  [sa. 
Della  Divinità , che ’n  lei  fiammeggia. 

Poich’ebbe  fatti  gli  animai  terrestri, 
L*opre  sue  buone  Dio  conobbe, e disse  : 
Facciali!  noi  Tuoni, com’èla  nostra  imma- 
Simil  a noi.  Fere  la  Terra  e ’l  Cielo,  [go. 
Pur  dianzi e’I Sole  e gli  stellanti  chiostri: 
Nè  chiese  aiuto,  o dimandò  consiglio. 

Ed  or  creando  l’ uomo  ei  si  consiglia  : 
Tanta  opra  fui  Giudeo  protervo  ed  empio. 
Odi  la  voce  del  Signor,  che  parla. 

Ed  a chi  parla?  a sè  medesmo  e seco. 

Tu , clic  di  verità  sol  vedi  ’l  lume. 
Siccome  per  finestra  acceso  raggio , 
Ritroso  e ribellante  ancor  repugni? 

Nè  tre  varie  persone  in  Dio  conosci , 

Quasi  sotto  un  bel  velo  ano!  dimostro? 
Qual  sollecito  mai  notturno  fabbro, 

0 qual  maestro  di  mcn  nobll  arte, 

Solo  sedendo  fra’  suo’  propri  ordigni , 

Là  dove  nìun  altro  insieme  adopra, 

Dice  a sè  stesso,  e sè  medesmo  alTretta 
Con  importuno  c frettoloso  impero: 
Facciam  la  spada , o pur  l’adunca  falce 
Facciamo  immantinente,  o’I  curvo  aratro? 
Ciancc  son  queste,  anzi  calunnie  espresse 
Di  falsa  lingua  alle  menzogne  avvezza; 

E s'infinge  ’l  Giudeo,  mentre  figura 
A sè  medesmo  pur  mentite  larve. 

E come  orride  belve  all’uomo  infeste. 

In  angusta  prigion  ristrette  e chiuse. 
Non  polend’ adempir  l’ardente  rabbia. 
Fremono  In  quel  serraglio,  e’n  fero  suono 
Dimostrati  Tamaror  dell’ira  accolto, 

E la  natia  lor  feritale  interna  : 

Cosi  gli  Ebrei  sospinti  a passi  angusti 
Osano  d’ affermar  che  ’l  Padre  eterno 
Con  gli  Angeli  ragioni  in  questa  guisa, 
('on  gli  Angeli,  che  stanno  a lui  d’intorno  ; 
E gii  Angeli  ministri  all' opre  Invili. 
Quasi  egli  chiami  del  consiglio  a parte 

1 servi  suoi, che  sono  all’uom  conservi, 
E gli  faccia  signori  in  si  grand’opra. 

In  cui  l’uomo  è creato  a Dio  sembiante. 
Qual  magistero  al  suo  maestro  eguale 
Esser  potrebbe?  oli  sorda  e cieca  mente, 
Oh  sciocchezza  c follia  d’alma  profanai 

8 


170  POEMI 

Molli  seni  raccòrrò , e fargli  degni 
Di  tanl’ officio,  e rifiutare  *1  Figlio? 

Pensa  a quel  che  poi  segue:  A nostra  imma- 
L’uom  farriani.  Forse  un’immagiu  sola  [go 
Ha  con  gli  Angeli  Dio?  come  una  forma 
lstessa  è necessaria  al  Padre  e al  Figlio? 
Ma  nell* uomo, ed  in  Dio  l'alta  sembianza 
Non  è figura,  o qualità  del  corpo, 

Ma  solo  è proprio  alla  divina  mente 
L’immago,  onde  F umana  ancor  s’informa 
E'n  tre  potenze  interne  Iddio  figura. 
Perchè  sicrome  Dio  sè  stesso  intende , 

E sè  stesso  intendendo , ama  sè  stesso  ; 
E quinci  nasce  ]' Intelletto  ctonio; 

E d’ambo  quinci  c quindi  eterno  Amore 
Spira  ; c tre  lumi  sono,  c non  tre  Dei, 

Ma  tre  persone  in  un  sol  Dio  congiunte  ; 
Cosi  la  nostra  mente  in  noi  produce 
La  volontate,  c la  memoria  appresso 
Di  questa,  c quella  si  figura  c forma: 

In  guisa  tal,  clic  la  natura  umana. 

Bendi'  una  sia  da  tre  virtù  distinta, 

In  sè  dimostra  la  divina  immago, 

Ed  In  sè  stessa  Dio  conosce  ed  ama. 

Fece  ancor  somigliante  il  Padre  eterno 
L’anima  c la  ragion, eh' è l'uonio  esterno 
A sè  medesmo,  di' è divino  amore. 

E dell’esterno  Adam  vestilo  intorno, 
li  tenne  occulto,  c ricoperto  a’  sensi. 

E si  perclf  egli  è buono  c saggio  e giusto, 
Pietoso  e forte  in  tollerargli  oltraggi. 
Lunga stagion  ne  soffre,  c non  s’ affretta 
A vendicarsi;  c poi  si  placa  c molce. 

Tale  ei  creò  Tuoni  primo,  e '1  feo sembiante 
Nel  puro  amor,  eh’  è la  virtù  primiera , 

E d’ ogni  altra  virtù  divina  c sacra 
Impresse  in  lui  mirabilmente  i segni. 
Come  ’1  pittore  alla  sua  bella  immago 
Col  suo  leggiadro  slil  colori  c lumi 
Vari,  e diversi  ognora  aggiunge  e sparge  ; 
Ed  ombreggiando  anco  le  va  d’ intorno. 
Sin  eh'  è perfetta  la  figura  c T arte  ; 

Cosi  '1  Piltor  di  nostra  umana  mente 
Colorò  Tallita  c de'  suo’  raggi  illustre 
Tutta  la  fece,  e del  color  distinto  [lumi. 
Sempre  accrescendo  a lei  splendori  c 
E come  In  scultorcal  bianco  marmo 
Col  duro  ferro,  e toglie  sempre,  c scema 
Quel  eh’ è soverchio,  c dall’  incisa  pietra 
Spira  alfin  quasi  viva  c vera  forma; 

Cosi  togliendo  alla  materia  ’1  Fabbro 
Della  natura  glorioso,  eterno, 

Quel  di’avea  di  più  duro  c di  terrestre, 


SACF.l. 

L’ uman  sembiante  in  viva  terra  apparve. 
Talché  divenne  F uom  sembiante  immago 
Della  Divinità , che  ’n  Dio  risplende. 

Ma  quel  colori,  c la  mirabil  luce 
D’altri  falsi  colori  asperge  c macchia 
La  progenie,  ch’ognor  traligna,  c perde 
Lesuc  prime  sembianze  c tutto  adombra. 
Talché  Dio  non  somiglia,  c quasi  assembra 
Pittura  tinta  col  pennel  d’ A verno; 

Ed  allumata  in  Flegctontc  o in  Lete, 

La  nostra  umanità  macchiata  c lorda. 

Dunque  in  sè  stesso  l’uomo  ornai  conosca 
Contaminate  le  div ine  forme. 

E mentre  può,  si  ripulisca  e terga,  [corpo; 
E sempre  all’alma  aggiunga,  c toglia  al 
Perchè  simil  si  veggia  al  primo  esempio, 
E F uom  figliuolo  al  Ile  del  Cicl  si  mostri , 
E degno  erede  del  celeste  Regno. 

Poi  benedisse  Dio  la  cara  immago 
Di  sè,  da  sè  creata,  c disse  appresso: 
Crescete  in  numerosa  c bella  prole  : 
Riempile  la  terra  , c lei  soggetta 
fate  all’arbitrio  vostro,  al  vostro  impero. 
Signoreggiate  in  mar  gli  umidi  pesci, 

E ne*  campi  dell’aria  i vaghi  augelli, 

E qualunque  animai  si  move  iu  terra. 
Soggetto  sia  non  meno  al  vostro  regno. 
In  questa  guisa  tu  creato  appena, 

Uom,  creato  re  fosti,  e l’alto  impero, 

E la  sublime  polestalc  impressa 
Non  li  fu  data  in  secco  o fragil  legno, 

0 nelle  pieghe  pur  di  breve  carta, 

Perchè  la  roda  alfin  putrido  verme: 

Ma  la  Natura  scritta  in  sè  riserba 
L’alta  voce  divina,  e ’l  chiaro  suono. 
Comandi,  c ’l  naturale  c giusto  impero 
In  terra  estenda,  e denti’ al  mar  sonante, 
E nel  sublime  ancor  doli’ aria  vaga. 
Imperioso  tu  nascesti  in  prima  ; 

Or  perchè  dunque  se  rvi  a’  propri  affetti, 
E la  tua  dignità  disprezzi  e perdi , 

Ligio  ornai  fatto  del  peccato  c seno? 
Perchè  te  stesso  prigionier  cattivo 
Fai  di  Salando,  in  sue  rateile  avvolto, 

Se  già  nascondo  sci  principe  detto 
Delle  cose  create,  e re  terrestre? 

Perchè,  quasi  gettando,  a terra  spargi 
Quel  eli’ ha  nostra  natura  in  sè  più  degno 
Di  riverenza  c di  sublime  onore? 

Qual  all’  imperio  tuo  prescritto  in  terra 
È fine?  o pur  nell’  aria,  o ’n  mar  profondo  ? 
Se  ben  Le  stesso  e lui  misuri  e scorgi. 
Non  hai  tu  penne  da  volar  nel  cielo  ; 


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LE  SETTE  GIORNATE 
Ma  l'ardita  Ragion  nulla  ritiene. 

Questa  coll' ali  sue  trapassa  a volo 
Non  pur  dell'aria  I piu  ventosi  campi, 

Ma  del  elei  gli  stellanti  ed  aurei  chiostri. 

E via  men  cupo  c men  prorondo  '1  mare 
E del  suo  peregrino  e vago  ingegno. 

Che  va  spiando  dentro  a*  salsi  regni 
I secreti  dell’ onde  c i sensi  e i fondi 
E le  sue  occulte  meraviglie  : c quindi 
Vittorioso  alfin  ritorna  in  alto. 

Di  saper  ricco  e d*  immortai  tesoro. 

Cosi  per  arte  dell*  umano  ingegno 
Prende  tutte  le  cose  e fa  soggette. 

E disse  Dio  di  novo  : Ecco  a voi  diedi 
Ogn*  erba , che  da  seme  in  terra  sparso 
Germogli,  ed  ogni  pianta,  in  cui  sembianza 
È di  sua  stirpe:  e quinci  *1  cibo  e l’esca 
Avrete  : c ’l  vitto  insieme  ancor  n’  avranno 
1 volanti  del  del  sublimi  augelli , 

E i più  gravi  animai , die  *n  sulla  terra 
Move  e trasporta  l’anima  vivente. 

E ’n  questa  guisa  nell’antico  stato 
Dell’ innocenza , anco  innocente  ’l  cibo 
Non  macchiato  di  sangue,  o d’empia  morte 
Contaminato,  o da  rapina  ingiusta. 

Fu  conceduto  all’uomo,  e dato  insieme 
AH' animai,  che  senza  sdegno  ed  ira 
Era  soggetto  al  mansueto  impero. 

Non  uccideva  ancor  d’erba  nocentc 
Maligno  tosco , o pur  d’orribil  angue. 

Ma  tutto  quel  che  produrea  nel  grembo 
La  madre  terra  era  salubre  e caro. 

Nè  tinto  ancor  s’avea  l’artiglio  e i denti 
L’ affamato  leone,  o’I  lupo,  o l’orso, 

Nè  l’avvoltoio  allor  da  corpo  estinto 
Cercava  ’l  cibo,  perchè  morto  ancora 
Non  era  alcuno,  e delle  morte  membra 
Non  era  ancor  molesto  e grave  ’l  lezzo  : 
Ma  pascolar  ne*  verdi  erbosi  prati , 

In  guisa  di  canori  c bianchi  cigni , 

E siccome  veggiam  talvolta  i cani , 

Cui  la  Natura  è mastra,  andar  pascendo, 

GIORNATA 

Nella  quale,  trattandosi  del  Giudicio  finale,  e 
da  Dio  cri 

Roma , dappoi  che  *1  glorioso  impero 
Ebbe  dbteso  dall’  Occaso  all’Orto, 

E posto  *1  freno  all’  Aquilone  c all*  Austro  : 
Al  popol  vincitor  mirabil  vista 
Di  duo  teatri  in  un  sol  giorno  offerse , 


DEL  MONDO  CREATO.  171 

E ritrovar  la  medicina  occulta  i 
Cosi  pasccvan  quei  l’erbc  novelle. 

Ch’or  son  voraci  di  sanguigno  pasto. 

Non  si  faceva  ancor  ingiuria  in  caccia. 
Non  eran  tese  ancor  l’ insidie  ascose 
Alla  selvaggia  e solitaria  vita. 

E i feroci  animali  all’uomo  amici. 

Tutti  con  lieto  c con  benigno  aspetto 
Placidi,  umili  ivano  errando  intorno 
Ubbidienti  a quel  sì  giusto  impero. 
Perchè  non  solo  re  d’orride  belve, 

E di  serpenti,  o pur  d’augei  sublimi, 

E di  volanti  in  mare  umidi  pesci 
Era  l’uom  primo  : ma  signore,  c donno 
Ne’  propri  affetti  avea  lo  scettro  e ’l  regno, 
E I suo’  propri  pcnsier  teneva  a freno. 
Saldo  e costante , imperioso  c grave. 

Ma  poiché  ribellante  al  santo  impero 
Del  Creator  sprezzò  l’alto  divieto; 

A lui  mostrarsi  ancor  ribelle  in  guerra 
L’ orride  belve:  c le  caduche  membra. 
Clic  strugger  poi  dovea  l’orrida  morte. 
Altro  cibo  nutria  di  sangue  asperso , 
Cibo  mortale,  a’  miseri  mortali 
Dato  per  esca  in  men  felice  stato. 
Dappoiché  l’ acque  nei  diluvio  accolte 
Ondeggiando  coprir  le  piagge  e i monti. 

Ma  perchè  Tuoni,  divina  e sacra  immago. 
L’aita  origine  prisca  anco  riserba; 

Non  perde  il  naturai  suo  primo  impero 
Sovra  le  fiere  : e può  con  giusta  legge , 
Anzi  con  giusta  e conceduta  guerra, 
Farne  preda  c rapina,  e cibo  c veste 
Alle  sue  faticose  c dure  membra. 

Nè  questa  legge  è ingiuriosa  ed  empia, 
Ma  di  Natura,  anzi  del  Re  superno. 

Che  fece  serve  all’  uom  Torride  belve, 

E le  gregge  e gli  armenti  e i vagiti  augelli, 
E gli  abitanti  ancor  del  mare  ondoso. 
Così  fu  fatto.  E Dio  conobbe  e vide 
L*  opere  sue  perfette.  E ’l  sesto  giorno 
Ebbe  qui  fine , ed  egli  in  sè  riposo. 

SETTIMA. 

Ila  gloria  eterna,  si  dimostra  il  fine  per  cui  fu 
x>  l'Uomo. 

I quai  si  congiungean  volgendo  attorno  : 
Sicché  le  genti  In  lor  divise  c scevre, 

Di  cui  Tona  pur  dianzi  all’altra  parte 
SI  stava  occulta , coll’  unirsi  insieme 
Nell’  ampia  forma  d’un  perfetto  giro, 


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POEMI  SACRI. 


Si  vider  tutte;  e non  rimase  ascoso 
Alcun  di  loro,  anzi  mirando  a cerchio 
Ripieni  i gradi  dell’assisa  turba. 
Meraviglia  e diletto  ebber  repente 
Pur  dell’aspetto  inusitato  e novo. 

Ma  in  questo  eli'  allor  fece’!  Mastro  eterno 
Gran  teatro,  e volubile  e rotante, 
Ch’anfiteatro  di  sua  gloria  assembra; 
Reuch’ una  spera  sola  in  sè  congiunti 
Duo  rinchiuda  diversi  ampi  cmisperi, 
Pur  I*  uno  all’altro  si  nasconde  e cela. 

E dell*  opposte  in  lor  divise  genti 
Questa  mai  quella  non  rimira  o scorge. 

E già  nulla  ne  'illese,  e ’n  dubbio  visse, 
Se  pur  altri  abitanti  avesse  ’l  mondo, 

0 fosse  in  parte  solitaria  ed  erma 

La  terra  ignuda,  o soli’  all*  onde  ascosa  : 
Nò  perchè  sempre  intorno  ’l  ciel  si  volga, 
Sarà  giammai , che  la  girante  scena 
Mostri  i popoli  a noi,  eh  ’han  fissi  incontra 

1 lor  vestigi  nella  prisca  terra, 

Onoi  co’  nostri  alberghi  a lor  discopra 
In  questi  quasi  pur  distinti  gradi, 

Per  cui  s’ innalza  e si  dechina  *1  polo. 

Ma  quel  che  far  non  può  volubil  giro 
Di  tanti  cicli,  c infaticabil  corso. 

Fa  della  mente,  clic  si  volge  e riede 
In  sè  medesma,  il  rapido  pensiero, 
Ch'èquasi  un  suo  perpetuo  e vario  molo. 
Perchè  dinanzi  a lui  si  toglie  ’l  velo 
Della  terra  interposta  ;c  ’n  Dio  mirando, 
Scorge  nel  suo  gran  lume  ’l  mondo  accolto. 
Clic  divieti  quasi  angusto  all’alma  accesa, 
Che  fuor  del  inondo  è ratta  ; e nulla  adoni- 

I popoli  co’  regni  a’  lumi  interni.  [bra 
Talché  ne’  gradi  lor  disposti  intorno 
Sol  contemplando,  il  pellegrino  ingegno 
Scopre  i ferini  ed  ultimi  Riarmi, 

E scopre  insieme  gli  Etiopi  c gl’  Indi. 

E d’nn  lato  gli  appare  ’l  freddo  Carro , 
E’I  pigro  Arturo;  e pur  nel  tempo  istcsso 
Altro  polo,  altri  lumi  insieme  ei  scorge. 
Non  perchè ’l  mondo  a lui  s’accorci  cstrin- 
Ma  perchè  la  sua  niente  in  Dio  s’avanza  ga, 
E divicn  ampia  si,  eh’ a lei  soggetto 
L’universo  in  un  guardo  accoglie  e mira. 
Come  già  vide  ’l  benedetto  Padre, 
Gli’all* allo  ciel  di  mille  accesi  lampi. 
Parte  seguendo  ’lsuo  pcnsicr  sublime. 
Ricerca  pur,  s’ove  ’l  Cultore  eterno 
Segnò  morendo  ’l  luminoso  calle , 

II  Paradiso  a maraviglia  adorno 
Facesse  : c ’u  qual  estranio  ignoto  clima 


Florisser  le  felici  c nuove  piante 
Quando  pria  fu  creato  ’l  padre  Adamo. 

Era  dunque  compiuta  ornai  la  Terra, 
Compili  i cieli,  e gli  ornamenti  c i fregj 
L* opere  di  sci  giorni  avean  distinte, 

E quel  meraviglioso  alto  lavoro; 

Quando  cessando  Dio  d'opra  novella, 

E del  crear,  ebbe  nel  dì  seguente. 

Che  fu  settimo  giorno , alto  riposo. 

Nè  fu  poi  Creator  di  nuova  prole  ; 

Ma  le  prodotte  conservando  in  vita. 

Di  lor  prese  il  governo.  E tli  quotarsi 
Nelle  cose  create  a lui  non  piacque. 

Già  fece  ’l  cielo;  od  acquetarsi  in  cielo 
Non  prese  in  grado.  E i bei  stellanti  giri 
Fece;  e col  vago  Sol  l’errante  Luna: 

Nè  volle  riposar  nell’ auree  stelle, 

0 nella  sfera  del  sovran  pianeta, 

Ovver  nel  cerchio  della  Luna  algente. 
Fece  la  terra  ancor,  eh’ è ferma  e salda; 
Nè  riposò  nella  gravosa  terra. 

Che  ’n  sè  medesma  si  mantiene  e giace. 
Dove  dunque,  ed  in  chi  quiete  e posa 
Ebbe  il  Fattor  di  cose  eterne  c magne? 
Ben  è ragion  clic  le  costanti  e gravi 
Sien  quelle  sole,  in  cui  non  prenda  a sde- 
Di  riposare:  anzi  quiete  e moto,  [gno 
Non  fu  giammai  senza  la  stabil  parto. 
Però  sempre  si  muove  ’l  ciel  non  tardi 
Sovra  i suo’  poli,  e quinci  e quindi  affissi, 
E non  si  moveria,  se  stabil  centro 
Ei  non  avesse  al  suo  perpetuo  corso. 
Onde  si  finge  ’l  favoloso  Atlante, 

Che  ’ntorno  a’  poli  opposti  il  ciel  rivolge, 
E nella  ferma  terra  i piedi  appoggia. 

E gli  animali  ancor  mobili  c vaghi 
Mover  non  si  potrian,  se  ’n  lor  non  fosse 
La  stabil  parte  che  s’acqueta  e posa. 

E però  quella,  chesi  curva  e piega 
Nel  movimento,  è lor  di  centro  In  vece. 
Dunque  se  mover  debbe  il  Motor  primo 
Non  sol  convenne  ch'egli  immobil  fosse. 
Ma  che  ’n  non  mobil  parte  il  moto  eterno 
Fermasse  ancora.  E di  fermarlo  in  terra 
Ei  non  degnò.  Dove  fcrmollo  adunque? 
Qual  della  terra  è più  costante  mole? 
NcU’uom  quetollo  e l’uomo  al  fin  dcll’o- 
\ olle  crear  perchè  cessasse ’l  moto,  [prc 
E se  moto  non  fu  , l'arte  divina 
Restasse  di  crear  l’ opre  moderne. 

Più  della  terra  adunque  è l’ uom  costante. 
Siccome  quel  che  dell’eterno  esempio 
E vera  immago , c ’l  suo  caduco  e gravo 


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LE  SETTE  GIORNATE 
Spogliar  si  deve  ; e ’ncorruttibll  forma 
Rivestendo,  lassuso  alfin  s'eterna 
Nella  quiete  d'invisibil  regno. 

In  questa  guisa  volle  Iddio,  creando, 
Mostrar  della  sua  morte  alto  mistero. 
Quasi  in  figura;  anzi  predir  da  lunge 
Ch'anzi  i tormenti  della  morte  il  Figlio 
Dovea  nell’  uom  quotarsi  ; e ’n  membra  u- 
A guisa  di  mortale,  al  dolce  sonno  [ mane, 
Conceder  gli  affannati  e lassi  spirti. 
Dunque  s'acquetò  Dio  nell*  uom  terreno: 

E I* uomo  in  sè  non  ha  quiete  o pace? 
Non  han  quiete  in  sè  gli  egri  mortali  ; 
Ned  opra  di  Natura  in  sè  riposa. 

Ma  gira  ’l  foco  nel  perpetuo  corso 
Del  cicl  sempre  inquieto,  e sempre  vago. 
L'aria  agitata  da  contrari  venti, 

È da  sè  stessa  ognor  divisa  c sparsa. 
L'acqua  trascorre,  e senza  pace  ondeggia. 

E questa,  cii*a  noi  par  gravosa  c ferma , 
Terrestre  mole  ancor  si  scuote,  e crolla 
Da’  fondamenti  : c ruinose  atterra 
Le  cittadi,  c le  terre  eguali  a’  monti, 

E i monti  stessi:  e scissa  'I  pcttoc  ’l  grembo, 
Talor  nelle  voragini  profonde 
Scopre  i regni  di  Pluto  e i ciechi  abissi  ; 

E l’ultima  ruma  altrui  minaccia. 

Ma  nel  suo  Creator  pace  c riposo 
Han  le  creale  cose.  E ’n  sè  medesmo 
Egli  s’acqueta:  nè  d’esterna  gloria, 

Nè  d’altro  ben,  fuor  di  se  stesso, ha  d’uopo: 
Ch’  è sommo  bene;  e con  riposo  eterno 
Governa  l’immortal  felice  regno 
Là,  've  dal  travagliar  ne  chiama  a parte. 

E se  *n  terra  nell' uom  quotarsi  ei  volle. 
Fu  perchè  l’uomo  in  Dio  s’acqueti  alfine. 
Però  quand’egli  in  sì  mirabil  tempre 
1/ umanilade  al  suo  divin  congiunse, 

Pose  alla  vita  faticosa  e stanca 
In  sè  medesmo  alfin  dolce  restauro. 

E gloria  e grazia , onde  s’ adempie  c bea 
Nostra  natura  d’ esaltar  cotanto, 

In  lui  si  vide.  Adunque  *1  sesto  giorno 
AH’ opre  nove  fin  sul  vespro  impose. 

Nè  poi  nova  progenie,  o nova  stirpe 
Egli  dovea  creare.  E ben  convenne 
Che  del  gran  mondo  producesse  ’!  parto, 

E di  tutte  le  specie  in  lui  raccolte. 

Col  numero  di  sei,  ch'è  più  fecondo. 

Ma  dica  quel  eli'  ha  la  scienza  e l’ arte 
Del  numerar, coni’ è pregnante  il  sci; 

E nelle  parti  sue  perfetto  c pieno, 
Generar  poi  di  sè  varie  figure 


DEL  MONDO  CREATO.  173 

Di  numeri  egli  possa  : c tutto  aggiunga 
Ciò  clic  nelle  sue  scole  insegna  'I  mondo. 
Dicavi  ancor,  coni’ è infecondo  il  sette, 
Perocch’egli  di  sè  nulla  produce  ; 

E di  nulla  è prodotto;  c poi  seti  vanti, 
Com*  ei  faria  di  gran  tesoro  occulto. 

Or  tralasciai!!, quasi  sprezzando,  addietro 
Quello , onde  tanto  va  gonfia  e superba 
Mondana  sapienza;  e sol  ci  caglia 
Dell’uso  de’  fedeli  antico  e sacro. 

Onde  al  settimo  dì  s'aggiunse  onore. 
L’onoraro  i Giudei  nel  sesto  giorno. 
Quando  lieti  innalzar  frondose  tende; 

E rlcovrar  soli*  a’  selvaggi  alberghi. 

E l’onorar  nel  di  famoso  ancora, 

('.he  per  le  trombe,  e celebrata  pompa, 
E sonoro , e festante,  e pregio  al  sette 
Non  men  degli  altri  il  dì  propizio  accrebbe. 
E ’1  settimo  anno  fra  gli  antichi  Ebrei 
Fu  d’ognl  riverenza  e d’onor  degno. 
Perchè  ne*  sei,  ch’cran  trascorsi  avanti. 
Lecito  era  a ciascun  fender  la  terra 
Col  duro  aratro,  e ne’  solcati  campi 
Sparger  con  larga  mano  il  fertil  seme; 
Ma  nel  settimo  poi  contento  c pago 
Ei  raccogliea  dal  non  arato  grembo 
Sol  quanto  volontaria  ella  produce. 

Esci  anni  serviva  ’l  prisco  Ebreo: 

I.ibero  da  fatica  c da  servaggio 
Era  ’l  settimo  poscia.  E ’l  duro  giogo 
Degli  Assiri  superbo  olirà  I* Orante, 

Olirà  1*  Eufrate  in  Babilonia  oppresse 
Anni  settanta  i miseri  cattivi, 

E nove  appresso,  e candida  rifulse 
1.’ antica  liberiadc  al  popol  servo, 
Quando’l  sette  col  dieci  ha  pieno ’l  giro. 

Or  trapassiam  senza  dimora  a’  nostri. 
Ben  sette  volte  il  dì  cade  e risorge 
Il  giusto  cui  d’ Adamo  il  grave  iucarco, 
E la  natura  sua  caduca  atterra, 

Ma  la  grazia  ’l  solleva  ; c ’n  questa  guisa 
Di  tal  numero  noi  consorti  andremo. 
Settimo  Enoch  dal  genilor  primiero 
Morte  non  vide:  e ’l  gran  mistero  adombra 
Questa,  ch’or  vive,  ed  all'Impero  estinto 
Sorvivc  ancor  Chiesa  immortale  c santa, 
E settimo  Mosè  dal  padre  Abramo 
Preso  la  legge,  c la  cangiata  vita, 

L’ Iniquità  scacciata,  c ’l  varco  aperto 
Alla  giustizia  ; e Dio,  eli’ a noi  discende 
Con  membra  limane,  cs’avvicina  e giunge, 
E più  santa  vlrtutc  insegna  al  mondo 
Mirabilmente,  c nova  legge  apporla, 


174  POEMI 

Pur  da  Mosè  son  figurati  In  parte. 

Ed  aggiungendo  pure  al  diecc  il  sette, 

E sette  appresso,  dal  vetusto  Adamo 
]1  Figlio  di  Maria  prodotto  apparve. 

E poi  conobbe  ancora  ’l  vecchio  Pietro 
Del  numero  del  sette  alto  mistero , 

Che  di  perdono  e di  quiete  è segno,  [ to. 
Ma  noi  conobbe  appien  ,clie  d ubblo e ’nccr- 
Prima  ne  parve,  c poscia  ei  puri' intese, 
Chè  ri veiol lo  il  suo  Signore  e Mastro, 

Lo  quale  in  perdonando  aperse  ’l  grembo 
Delle  sue  grazie,  e de’  tesori  eterni: 

Nè  sette  volte  sole,  anzi  settanta 
Sette  fiale  a perdonare  insegna. 

Onde  alla  pena  di  Caino  ingiusto, 

E già  macchiato  del  fraterno  sangue. 

Il  perdono  di  Pietro  allor  risponde, 

Quasi  dall’altra  parte  il  fallo  opposto. 

Ma  ’l  perdon  del  Signore  adegua  e passa, 

Di  Lamech  condannato  antica  colpa: 
Perchè  di  leve  error  perdono  angusto 
Par  che  si  dia  : ma  se  ’l  peccato  abbonda, 
Ivi  la  grazia  oltra  misura  avanza. 

Ed  a chi  molto  si  perdona  e ’ndulge, 
Molto  concede  di  fervente  amore 
Quel  eli’ è verace  amante  e non  s'infinge. 
E di  perdono  adunque  e di  riposo 
Segno  ’l  settimo  giorno,  in  cui  cessando 
Il  Padre  eterno,  di  cessare  esempio 
Diede  all’antico  Ebreo,  ch’iudarno  or  cessa 
D’opre  c di  fede  neghittoso  e tardo. 

E quel  settimo  dì  mattino  ed  alba 
Ebbe,  nè  vide  poi  la  sera  il  vespro,  [giorno, 
Ch’ ancor  non  giunge,  e non  adombrai! 
Lo  qual  s’illustra  di  perpetua  luce. 

Ma  le  veci  del  tempo,  e ’l  corso  e i giri 
Chiudono  i nostri  dì  fra  mane  c vespro, 
In  cui  ciascuno  ancor  s’ adopra  c cessa , 
Ed  al  riposo  le  fatiche  alterna  , 

Insin  che  giunga  spaventoso  in  vista 
Quel  che  dee  consumar  la  terra  e ’l  cielo, 
Settimo  giorno  minacciato  innanzi 
Orribilmente.  Allor  le  mura  eccelse 
Di  questa  luminosa  antica  mole 
Espugnate  faranno  alte  mine, 

E ’l  foco  Uncilor,  predando  intorno 
(ìli  umidi  regni,  e i già  fumanti  e negri 
Campi  della  fervente  arida  terra , 

Parrà  che  tutloabbia  converso  in  fiamma  : 
Sicché  appena  del  mondo  ornai  disfatto 
Vedransl  l’arse  e ’ncenerite  spoglie. 
Quasi  trofeo  della  Giustizia  eterna. 

Ma  nel  princìpio  dell1  orribil  giorno, 


SACRI. 

In  aspettando  i minacciati  incendj. 
Nozze  non  si  faran,  nè  liete  pompe; 

E non  si  canibieran  le  care  merci 
Fra  l’Indo  o’I  Mauro,  o fra  lo  Scila  algente 
E P EUopo  : anzi  ’l  timore  adusto, 

Nè  la  coltura  de’  fecondi  campi 
De’  mortali  sarà  studio  e fatica. 

Ma  d’ un  novo  stuporla  terra  ingombra 
Attonita  parrà;  parran  tremanti 
Tutte  l'opra  di  Dio  creale  in  prima  , 

Per  l’ improvviso,  insolito  spavento. 

E i giusti  ancor  delia  sentenza  estrema 
Timore  avranno.  Allora  il  padre  Àbramo 
Temerà,  non  di  foco,  o di  tormento. 

Ma  del  grado  d’  onore,  a cui  sortillo 
La  provvidenza  del  suo  Re  superno: 

E ’n  qual  ordin  de’  giusti  a lui  riserbi 
La  Giustizia  divina  i premj  e ’l  loco, 

0 sia ’l  primo,  o ’l  secondo,  ostasi  ’l  terzo. 
E ’l  Re  del  del  folgoreggiando  in  alto 
Dimostrcrassi  in  bianca  nube  accolto. 

E come  nube,  eli’ 6 squarciata,»  velo, 

1 cicli  a lui  dinanzi  aperti  c scissi 
Vcdransi  rivelar  l’alta  possanza. 

E mille  appariranno  e mille  ardenti 
D’ esercito  divin  falangi  e squadre , 
Risplendendo  lassù  di  luce  e d'arme. 
Fiammeggerà  coll’oro  il  fino  elettro 
Entr’alle  spaventose  oscure  nubi; 

E vedransl  ir  vagando  a nembo  a nembo. 
E più  di  tuoni  spaventosi  udransi 
Terribilmente  le  canore  trombe. 

Crollati  c scossi  i bei  stellanti  chiostri 
Tremar  tutti  vcdransi  al  gran  rimbombo. 
Tremerà  nell’orror  confusa  e vinta 
La  Natura  creata;  avran  temenza 
Gli  Angeli  stessi,  e riverenti  in  alto 
Al  fulminante  Re  staranno  intorno. 

Qual  re  de’  Persi  mai,  d’Assiri  o d’ Indi, 
Si  coronato  fu  d’orride  schiere 
Entri  a presa  città,  che  ’l  foco  e ’l  sangue 
Correndo  inonda,  e orribilmente  ’ngotn- 
E di  recise  membra,  e di  cosparte  [bra; 
Duine  ’l  ferro  ancor  riempie  c colma? 

0 qual  immago  d’illon  superbo. 

Clic  fu  dai  greco  incendio  arso  c combusto: 
Qual  dell*  imperiosa  alta  Cartago 
Ruinosa  caduta,  o di  Corinto, 

0 di  Nunianzia  pur  ruina  e scempio; 
Qual  di  tulli,  dich’io,  confusa  c mista 
Lagrimosa  e sanguigna , orrida  immago 
Potrà  rassomigliarsi  ai  già  distrutto 
Entri  a fumanti  incendj , c vasto  mondo  r 


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ns 


LE  SETTE  GIORNATE 
Che  di  sè  stesso  a sè  fu  rogo  c tomba? 
Allor  rapiti  fiano  a volo  i giusti , 

E le  nubi  saran  carri  volanti , 

Che  porlerangli,  c i duci  Angeli  eletti, 
D'auriga  in  vece  al  nubiloso  carro 
Ciascun  tari  veloce  ed  allo  il  corso. 
Risplcnderan  come  lucenti  stelle 
Allora  i giusti.  E dal  gravoso  pondo 
De’  lor  peccali , e di  lor  colpe  avvinti , 
Cadranno  i rei  nel  precipuio  eterno 
Oppressi:  e non  sarà  eli’ indi  risorga 
Alcun  giammai  dall'  odioso  lncarco. 

0 grande,  spaventoso,  orrido  giorno! 

E fia  pur  ver  ch’abbia  mattino  ed  alba? 
Nè  fine  imponga  a tan l’orrore  il  vespro? 
Ovvcr  termine  fia  pur  anco  affisso 
A quel  gran  dì  de’  prenij  e delle  pene. 

In  quell' ultima  sera?  E nova  luce 
Risponderà  meravigliosi,  eterna 
Nel  giorno  ottavo,  onde  le  menti  illustri 
Qual  Roma  già  famosa , e nobil  opra 
Del  gran  Quirino  e del  nipote  Augusto, 
Del  novo  imperio  fondatore  c padre  ; 

Da  barbarica  man  percossa,  e vinta 
Cadde  in  s£  stessa , e fra  ruinc  e morti , 
In  sè  medesma  poi  sepolta  giacque; 

Col  vicario  di  Cristo  indi  risorse 
Più  bella  agli  ocelli  della  niente  interna, 
£ maggior  di  sè  stessa,  anzi  del  mondo, 
Che  capace  non  è del  santo  c sacro 
Tuo  regno  già  fondato  in  salda  pietra: 
Tal  (s’agguagliar  si  può  la  parte  al  tutto) 
Avrà  suo  fin  questa  caduca  mole 
Dell’universo,  c col  girar  del  tempo 
Il  girevol  teatro  a terra  sparso 
Cader  vedrassi  iu  cenere  c ’n  faville: 

Poi  rifallo  sarà  dal  Fabbro  eterno; 

R risorgendo  in  più  mirabil  forma. 

Non  fia  soggetto  al  variar  de’  lustri; 

Nè  mai  più  temerà  mina  o crollo. 

Ma  questo  ora  del  cicl  volubil  tempio 
Fermo  sarà  col  Sole,  e ’l  torto  corso 
Fermo  ancor  fia  dell’ alte  stelle  erranti. 
Talché  i beati  avran  costante  albergo 
Là  dov’eterna  fia  pace  tranquilla, 

E non  commossa  da  tempesta  o turbo, 
Pura invisibll  luce,  c stabil  giorno. 

Cui  termine  non  fia  l’orrida  notte, 

Nè  correr  si  vedrà  da  mane  a vespro; 

E non  avrà  coll’ombra  il  giro  alterno. 

Nè  con  varia  stagion  vicenda  c corso  : 

Ma  premio  avrau  lassù  le  nobili  alme. 

Di  riposo  e di  gloria  in  un  congiunte, 


DEL  MONDO  CREATO. 

E fia  somma  quiete  il  sommo  onore. 

Là  dispensate  fian  corone  c palme 
A’  gloriosi,  c seggi  alti  lucenti. 

E quei,  che  guerreggiaro  in  lunga  guerra, 
Quant'è  la  vita  de’  mortali  erranti 
Sovra  la  terra,  c riportar  Vincendo 
Dal  nemico  Saianuo  in  duro  campo 
Mille  vittoriose  e sacre  spoglie. 

Lassù  vedrà  usi  trionfando  a schiera 
Nel  gran  trionfo  eterno,  c ’1  gran  vessillo 
Coronali  seguir  del  Re  possente 
Degli  altri  regi.  E la  divina  destra 
In  quel  d’eternità  lucido  tempio, 

Onde  precipitando  angel  rubello 
Cadde,  sospenderà  le  spoglie  eccelse, 

Fi  l trofei  della  Croce.  0 lieto  giorno, 
Giorno  sacro  e felice,  in  cui  s’eterna 
Da  pompa  trionfai , la  gloria  c ’I  canto 
E la  quiete.  Allor  quiete  c pace 
Avran  le  menti  rapide  c rotanti. 

Gli’  han  sì  vari  i pcnsicr,  sì  vario  ’l  moto: 
Ed  or  fuor  di  sè  stesso  un  dritto  corso 
Fanno,  alle  cose  pur  caduche  e basse 
Quasi  inchinando,  e con  distorti  giri 
Corron  talvolta  oblique  ;c*n  sè  medesme 
Si  rivolgon  talora  , o fanno  ’l  cerchio, 

0 ’ntorno  a quel  divino  immobil  centro, 
DI  cui  l’anima  vaga  è quasi  sfera. 

E di  Fortuna  ancor  l’iustabil  rota 
Ferma  allor  fia,  s’ella  col  Ciel  si  volge. 
Riposo  ancora  avranno  1 nostri  alleiti. 
Che  ’nconlra  la  divina  eccelsa  mente 
Fanno  ritrosi  passi,  e torlo  calle. 
Siccome  opposti  al  più  sublime  ciclo 
Soglion  volgersi  ancor  Giove  c Saturno, 

E la  stella  di  Marte  c di  Ciprigna. 

E giusto  è ben  che  s’ allor  fine  avranno 

1 moti  delle  stelle  erranti  c fisse , 
L’abbiano  quegli  ancor  di  mente  e d’alma 
Umana,  di’ assembrar  del  cielo  ’l  corso. 
Tulli  avran  pace  allor  nel  fisso  punto 
Della  Divinità.  Riposo  eterno 

Sarà  l’intender  nostro  e ’l  nostro  amore. 
Che  ’n  tante  guise  ora  si  varia  c cangia, 
E con  tante  volubili  rivolte. 

Riposo  eterno  fia  la  grazia  c ’l  merlo, 

E ’n  seggio  ctcrno.Orclii  fra  noi  s’attempa 
In  aspettando  *1  giorno,  c sofTra  e speri , 
E del  tempo  c del  Fato  i duri  colpi 
Vinca  sol  tollerando,  c giusto  oltraggio 
Faccia  alla  disputala  orrida  Morte,  [pio 
E mentre  il  gran  Clemente  al  primo  csem- 
La  Chiesa  Informa,  ed  all’Idea  celeste, 


176  POEMI 

Seco  ciascuno  ancor  nel  puro  tempio 
Della  mente  serena  Iddio  raccoglia  ; 

E gli  figuri  il  simulacro  interno 
Di  sua  pietà.  Sia  Palma  il  sacro  aliare; 
Vittima  l’innocente  acceso  core; 

Amor  di  carità  sia  foco  e fiamma: 

Così  prepari  in  sè  l’ interno  albergo, 

Pur  volubile  ancora,  e pur  costante 
Ne*  giri  incerti,  insili  clic  ’I  nudo  spirto 
Voli  a quella  sublime  eterna  reggia. 

Là  dov'è  ’l  sacerdozio  aggiunto  al  regno. 

Ma  dove,  oli  dove  mi  trasporla  *1  corso 
Del  fervido  pensier?  dal  giorno  estremo 
Torniamo  a quello,  incili  creato  in  prima 
Fu  dal  celeste  il  genitor  terreno. 

Dio  sparsa  non  avea  la  pioggia  ancora 
Sovra  l’arida  faccia,  e ’l  secco  grembo 
DcU’ampia  terra  ; e’I  buon  cultorde’campi 
Nato  non  era  faticoso  all’ opre. 

Ma  sorgea  dal  terreno  un  chiaro  fonte. 
Che  tulio  P irrigava,  c i monti  alpestri 
Talvolta  ancor  bagnala,  e l'aspro  rupi; 
Siccome  ’l  Nilo  il  verde  piano  inonda 
Dell’Egitto  fecondo,  e i lieti  campi 
Di  negra  arena  ricoperti  impingua. 

E fosse  quello  o nube  aerea,  o fonte, 

Era  sublime  sì,  ch’agli  erti  gioghi 
Mormorando  spargea  I*  onde  correnti. 
Fonte,  fonte  fu  quella,  c d’alta  parte 
Ne’  principj  del  mondo  ancor  novello 
Fu  a’  monti  in  vece  di  piovosa  nube, 

Non  pure  al  polveroso  ed  timil  suolo,  [no, 
Formò  adunque  *1  Signore,  e ’l  Padre  eter- 
Eterno  Dio  I’  noni  di  terrestre  limo. 

Ed  in  far  questa  della  specie  umana 
Quasi  statua  vivente,  ei  pura  elesse, 

E sincera  materia,  allor  di  nuovo 
Dall'acque  separata  : c *1  misto  umore  [glio 
Colonne  c sprcsse,  e quinci  c quindi  ’l  me» 
Della  terra  ci  v’aggiunse  a prova  scelto  : 
Sicché  ’n  sè  non  aveva  o colpa  o vizio, 
Quella  prima  materia,  in  cui  l'albergo 
Fabbricar  volle  alla  più  nobil  alma 
Fornita  di  ragione,  e quasi  il  tempio. 

Fu  la  malizia  poi  difetto  c colpa 
Nella  materia  del  corrotto  seme. 

Onde  la  fame  e l’ importuna  sete, 

E di  languide  febbri  esangue  schiera, 

E la  pallida  morte  alfin  deriva. 

Ruoli  era  ’l  Fabbro,  c la  materia  e l’arte 
Fu  buona  aneli’ ella;  onde  leggiadre  cdal- 
E ben  formate  fur  le  nove  membra  [te, 

A maraviglia,  e forti  insieme  e belle 


SACRI. 

Del  padre  Adamo  : c da  vermiglia  terra 
Prcser  vago  color  le  guance  e ’l  pelo. 

E ’l  nome  egli  medesiuo  indi  sortio, 
Misterioso  nome,  in  cui  s'espresse, 
Ch'egli’n  terra  nascea  signore  e donno 
Dell* Oriente  e del  contrario  Occaso; 

E delle  parti  d’Aqullone  e d'Austro. 
Nell’alma  ancora  usò  mirabil  arte; 

Nè  ’n  farla  riguardò  creato  esempio. 

Ma  ’n  sè  medcstno,e  nel  suo  proprioVerbo, 
Di  cui  fece  nell' uomo  divina  innnago. 

E ’n  faccia  gli  spirò  spirto  di  vita  : 

Non  di  sè  stesso  già  divina  parte, 

Com’ altri  stima,  ina  creato  spirto, 

E somalo  da  lui,  perch'egli  avvivi, 

E<1  animato  faccia  ’l  nobil  corpo. 
Siccome  Fi  dia  d’Alessandro  invitto 
Dappoi  facendo  ’l  simulacro  illustre, 

La  magnanima  fronte  al  Ciel  rivolse; 

E ripiegando  la  cervice  altera. 

Gli  alti  di  lui  costumi  in  guisa  espresse, 
Ch’ci  non  contento  dei  terreno  impero. 
Par  eli’ aspiri  alte  stelle,  e ciiicda’l  Ciclo, 
Cosi  ’l  Fabbro  primler  la  fronte  c gli  occhi 
Alzò  dell’ uomo  alle  stellanti  sfere; 
Perchè  là  guardi,  onde  celeste  erigo 
Ebbe  l’alma  inunortal,  ch’eterno  regno 
Parche  chieda  per  grazia  al  Padre  eterno. 
Ma  tuli’ altri  animali  a terra  ci  volse 
Pendenti  e proni,  a rimirar  costretti 
Pur  sempre  la  comune  ignobil  madre; 
Come  slen  nati  ubbidienti  al  ventre; 
Perchè  ’l  lor  fine  è pure  ’i  pasto  e ’l  cibo, 
E terreno  piacer  gli  alletta  e moke. 

Ma  se  talora  olirà  ragione  in  alto 
Intende  l’uomo,  e senza  grazia  o merlo 
Aspira  al  Cielo , c superbisce  ed  osa  ; 

Miri  la  terra,  e ’n  sè  rivolga  e pensi 
Cli’cgli  nato  di  polve,  alfin  in  polve 
Sarà  converso;  e ’n  eor  superbo  appiani 
Ogni  pensier,  che  di  sè  stesso  ’l  gonfia. 

E come  quel , che  serva,  ignobil  madre 
Di  nobil  genitor  produsse  in  vita , 

Spira ’l  paterno  orgoglio,  ePIree’l  faste 
Della  progenie  antica;  c’n  alte  imprese. 
Generoso,  talor  s* arrischia  c tenta:  * 
Poi  ripensando  alla  materna  stirpe , 

AI  soverchio  ardimcntoci  stringe ‘1  freno: 
Cosi  l’uom  dell’antica  c bassa  madre 
L’umll  principio  suo  contempli  e guardi 
Il  seno,  ond’egli  usci,  eli’  ei  pruine  e calca 
Con  piè  superbo,  irriverente,  audace. 
Come  s’ egli  dal  Ciel  recalo  avesse 


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LE  SETTE  GIORNATE 
Di  materia  celeste  aspetto,  e membra. 
Pensi  fra  sé  ch’egli  è animai  terrestre; 
Che  per  terra  ci  cammina  ;c’n  terra  ci  ccr- 
11  nutrimento,  e si  riposa  in  terra;  [ca 
E per  la  terra  ancor  è in  lite  e guerra 
Sovente,  e corre  forsennato  all’arme; 

K non  fa  grande  mai , nè  lieve  impresa. 
Se  non  sovra  la  terra  : e l’ire  estingua, 
Egli  ardenti  desili  ammorzi  e queti. 
Questo  pensier,  che  all’ umiltà  l’ inchina 
Alcune  volte,  altre  solleva  al  Cielo 
Il  suo  spirto  immortai,  che  ’l  line  affìsso 
Non  loca  in  terra,  o pur  nell’ auree  stelle, 
Ma  nel  Signore,  al  cui  sublime  seggio 
Il  ciel  del  cielo  è quasi  terra  umile  : 
Tanto  è lontano  alla  divina  altezza! 

Ma  non  sol  nell'aspetto  e nella  fronte, 
Mirabil  arte  fu  del  Mastro  eterno , 

Chè’n  ogni  parte  ella  trapassa  a dentro, 
E la  celeste  ancor  figura  c forma. 

Ma  pur  siccome  in  rocca,  e in  torre  eccelsa 
Son  disposte  le  guardie  intorno  intorno, 
Onde  sccura  da  notturna  insidia 
Il  nemico  lontan  discopre  e vede; 

Cosi  a guardia  i veloci  e desti  sensi 
Collocò  nella  lesta  il  Fabbro  eterno. 

Fe’  quasi  vallo  le  palpebre  agli  orchi, 

E le  ciglia  pelose;  e ’l  varco  aperse 
Alle  sonore  voci,  onde  trapassa, 
Dimcssaggieroinguisa  addcntro’l  suono, 
E di  fuor  le  novelle  al  core  apporta. 

Ma  fece  all' altre  cose  ’l  passo  angusto, 

E quell' umide  vie  rivolse  in  giro 
Qual  la  ber luto,  e più  spedito  calle 
l'or  doppia  strada  a’  dolci  odori  aperse. 
Umida  c molle  diè  la  lingua  al  gusto. 

Clic  distingue  I sapori;  e sparse  ’1  tatto 
Per  ogni  membro  umano,  e ’ntorno  al  capo 
Fece  delle  sue  proprie  e vaghe  chiome 
Quasi  natia  corona,  ond’ei  s’ adorna 
Questa  mole,  che  Possa  insieme  avvinse 
Co*  nervi,  che  son  quasi  i lacci  e i nodi 
Tenaci  e lenti , ond’  ei  s’incurva  e piega. 
Fece  quasi  di  sangue  un  vivo  fonte 
Il  core,  ed  altre  fonti  interne  appresso, 

E,  quasi  rivi  di  corrente  umore. 

Le  vene,  che  dal  core  all'altro  membra 
Portano’!  sangue,  onde  s’ irriga ’l  corpo. 

E tutta  in  tutto  lui  diffuse  e sparse 
L’ alma , che  ’n  ogni  parte  è tutta  ancora  : 
Benché  tre  sieno  in  una , e sien  congiunte 
Le  due  mortali  all’ immortai  sorella; 
Perch'ella  avvolta  entr'a’  corporei  chiostri 


DEL  MONDO  CREATO.  177 

| Non  sdegni  d’abitar  terreno  albergo. 
Sin  che  ’l  Signor  la  si  richiami  al  Cielo 
Da  quella  guardia,  ch'ei  la  pose  in  terra. 
Nell'alta  dunque  della  nobil  testa 
Rocca  fondolh,  c quasi  in  propria  reggia. 
Ivi  dell’uom.ch’è quasi  un  picelo!  mondo, 
A lei  concesse  l’onorato  impero  : 

L’ altre,  come  soggette  al  giusto  regno 
Nelle  più  basse  parli  il  Fabbro  eterno 
Dispose;  c rimovendo  i lochi  e i seggi. 
Dalle  profane  separò  la  sacra 
Potenza.  E l’ira, eh' è di  fiamme  ardente, 
E di  vendetta  ingorda  av  vampa  e ferve. 
Precipitosa  pose  in  mezz’ai  petto. 

Ed  albergolla  nel  sanguigno  core  : 

Nè  rinchiusa  starà  ne’  segni  angusti  : 

Ma  spesso  per  timor  s’agghiaccia  e stringe. 
E’1  ventoso  polmone  appresso  ei  giunse. 
Che  di  mantice  ’n  guisa,  accoglie  e rende 
L’aure  di  fuori,  e quel  calore  interno 
Col  dolce  respirar  tempra  e rinfresca. 

La  cupidigia  le  supreme  parli 
Altrui  concesse,  e quasi  a forza  spinta, 
Si  ritirò  nell’ ime  : ivi  ricovra. 

E quel  cinto,  che  l’ uom  traversa  e cinge, 
La  divise  dall’altra  ; e quasi  belva 
Al  suo  presepio  ivi  rimase  avvinta. 
Avidamente  ivi  si  nutre  e pasce; 

Anzi  mille  rabbiose,  ardenti  brame 
Empier  non  può  famelica  e vorace. 
Ch’ora  avaro  pensier  la  fiede  ed  an^j 
Con  dura  sferza  ; or  della  face  avvampa 
Di  mille  amori,  e tutta  è foco  e fiamma,  [lo 
Qucstooravvicn,  chèl’uuae  l’altra  appun- 
Della  Ragione  ha  scosso  ’l  giogo  c ’l  freno  ; 
E nemica  si  mostra  c ribellante. 

Ma  quando  pria  creolle  il  Padre  eterno. 
Nè  tumulto,  nè  guerra  era  nell’alma,  [di 
Ma  somma  pace,  e ’n  sommo  amor  concor- 
Ubbidian  della  Mente  al  giusto  impero. 

E 'I  suo  volere  era  costante  legge 
All’alma  di  giustizia  ancor  amica. 

In  questa  guisa  la  divina  destra 
Formò  Tuoni  primo  non  soggetto  a morte; 
Ma  per  grazia,  iinmortal,  non  per  natura, 
Come  l’Angelo  pria  di  pura  mente  ; 

E lui  formò  là  sovra  ’l  polo  aprico 
Dell’antica  Damasco  ; c vecchia  fama 
^Sc  degna  è pur  di  fedeì  ancor  rafferma. 
Poi  trasporlollo  entro  l’ameno  e lieto 
Suo  Paradiso,  che  d’ombrose  piante, 

E di  feconde  a meraviglia  adorno 
Fe’  l'arte  e l’opra  del  Cultore  eterno. 


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178  POEMI 

Loco  è nell’Oriente,  ove  percossa 
Dai  Sol  vicino  più  s’ accende  e flagra 
Quella  maggior  del  cielo  adusta  parte 
Posta  ’n  mezzo  fra  ’l  cerchio,  onde  rivolge, 
Quasi  fermato,  il  Sole  il  corso  errante 
Dall’ albergo  del  Cancro,  e l'altro  giro, 
In  cui  dal  Capricorno  indietro  ei  toma. 
Quivi  di  piante  coronato  e d'ombre 
Un  altissimo  sorge  e sacro  monte, 
Làdove  ne’vapor  ristretto  in  nebbia,  [già, 
O’n  nube  ascende,  o condensato  in  piog- 
E non  si  spira  ancor  procella,  o turbo 
Obliquo  e denso,  o fulmine  tonante. 

Nè  vi  giunse  del  Sol  ritorto  '1  raggio 
In  guisa,  ch'egli  l’aria  infiammi  e scaldi. 
Però  benché  nel  pian  la  terra  avvampi, 

E Stiepidisca  le  frondose  falde 
Del  vago  monte , al  mo